Skip to main content

Full text of "Nuova antologia"

See other formats


et 

NUOVA 


ANTOLOGIA 


LETTERE,  SCIENZE  ED  ARTI 


,UART A     SERIE 


VOLUME   CBNTOSEESlM(> 

DELLA  RACCOLTA  VOLUME  CXC 

(Luglio-Agosto  1903) 


s 


\^ 


N 


KO.M  A 

DIREZIONE    DELLA   NUOVA   ANTOLOGIA 
Corso  Umberto  I,  131 

1903 


PROPRIETÀ    LETTERARIA 


l^;;,;;;::^;-^;;!;:^.-^^  -i^"-  «—  '"''  '••^^"""^ 


GLI    AMMONITORT 


n  O  M  A  N  z  o 


È  venuto  il  tempo  di  comitieie  il  mio  grande  atto.  Fra  alcuni 
jfiorni  tutto  sarà  tinito.  Questo  memoria!'»  che  invio  in  due  copie,  una 
M' A  va» ti.',  l'altra  alla  Petite  Eépii1>ti(inp.  iia  il  solo  scopo  di  dichiarare  - 
ili  caso  die  si  volessero  liavisare  le  mie  intenzioni  o  spiegare  l'avve- 
mito  come  un  accidente  lorliiito  -  il  processo  per  cui  io  venni  nella 
determinazione  di  farmi   uccidere  in  modo  tanto  eccezionale. 


I. 

Nacqui  a  Gassino,  nell'alta  valle  del  Po.  .Non  ho  conosciuto  mia 
nuulre.  Mio  padre  eia  fornaciaio:  colle  gambe  nude  nella  fossa,  ta- 
gliava la  creta  gialla,  l'impastava,  la  metteva  nella  forma  da  maltoiii: 
e  s'allineavano  innumerevoli  i  mattoni  sull'aia  levigata,  i)arevano 
grandi  pani,  inzuccherati  di  sabbia  fina.  Pane  invece  non  ne  guadagnava 
molto:  ma  i  suoi  ottanta  centesimi  giornalieri  procuravano  a  lui  e  a 
me  polenta  il  mezzogiorno  e  minestra  la  sera.  L'  inverno  non  si  lavo- 
rava; quando  i  primi  geli  ci  avevano  coperte  le  mani  di  crepacci,  ces- 
savamo: ci  riparavamo  allora  nella  staila  d'un  vicino  che  aveva  be- 
stiame, e  quando  non  nevicava,  andavamo  a  far  legna  nei  boschi  dei 
signori,  raccogliendo  .soltanto  il  seccume  e  i  ceppi  putridi  che  vende- 
vamo a  un  soldo  il  fascio:  stando  tutto  il  giorno  nei  boschi  e  portando 
sulla  schiena  fino  al  villaggio  due  o  tre  fasci,  guadagnavamo  sette  od 
olio  soldi. 

Perciò  l'inverno  si  mangiava  meno,  quantunque  avessi  molta  più 
fame:  è  vero  che  il  pane  di  granturco,  pesante  e  giallo  come  i  nostri 
mattoni,  ci  faceva  credere  d'aver  sempre  lo  stomaco  pieno. 

A  febbraio,  sull'aia!  R  anch'io  nella  mota  gialla  fin  sopra  il  gi- 
nocchio, col  sole  che  dava  la  febbre:  per  ciò  mio  padre  era  giallo  e 
io  ho  l'aria  d'aver  l' itterizia.  Ma  questo  non  monta. 

Mio  padre  mori.  Il  sindaco  ricorse  per  me  a  Torino  e  fui  raccolto 
nella  Pia  Casa.  Qui  mi  si  insegnò  qualche  cosa:  d'inverno  al  paese 
ero  andato  a  scuola  e  sapevo  il  catechismo  e  la  storia  sacra:  qui  mi 
fecero  ripetere  la  storia  sacra  e  il  catechismo  e  un  po'  di  stoiia  romana. 
.Muzio  Scevola  e  Bruto,  più  i  diritti  e  doveri  del  cittadino  italiano. 

Più  tardi  mi  posero  come  apprendista  in  una  stamperia.  Correvo 
lutto  il  giorno  per  città  a  portare  commissioni  e  bozze.  Quando  mi 
misero  alla  cassa  di  compositore,  imparai  rapidamente.  Kbbi  tosto  un 
buon  salario  e  potei  uscire  dalla  Pia  Casa.  Intanto  frequentavo  le 
scuole  serali:  studiai  |>arecchio:  imparai  l' italiano  e  il  fraiU'ese  e  così, 


4  (U.l    AM.MOXnoKI 

da  me,  nella  mia  sotìilla  -  abita\o  in  Boi'go  San  Secomlo  e  miiii^iiaxo 
alla  (liieina  popolare  -  volli  anche  conoscere  un  po'  la  f>rammatiea 
latina,  senza  di  cui  non  si  possono  approfondire  quelle  lin^Jiie.  l'erctiè 
il  mio  scopo  era  di  diventare  correttore.  Non  avevo  alcuna  pieoccupa- 
zione  che  mi  Irastoi-nasse  seriamente:  otteinii  presto  un  posto  di  cor- 
rettore alla  Società  Editrice  Scientifica:  dapprimu  fui  impiegato  in 
lavori  di  poco  conto:  indi,  conosciutasi  la  una  buona  volontà,  mi  si 
pose  attorno  a  lavori  di  maugior  im])ort;inza,  sopratutto  a  traduzioni 
di  opere  scientifiche. 

La  mia  professione  mi  dava  iiiolle  comiiiacenze.  Kio  a  contatto 
con  gente  di  scienza  e  talvolta  cercavo  mostrare  a  cjualcuno,  che 
comprendevo  molto  di  pili  che  non  desse  a  presumere  la  mia  condi- 
zione: più  d'uno  mi  |)iantò  gli  occhi  in  faccia  con  stu|)oie.  quando 
gli  indicai  certe  contiaddizioni  nel  corso  d'un  lavoro  e  gli  suggerii 
umilmente  certe  tiasposizioni  che  avrebbero  giovato  all'ordine,  all'equi- 
librio non  soltanto  tipografico,  d'\ma  tiattazione. 

Passarono,  credo,  cinque  o  sei  anni.  Nel  gettar  su  calta  tiuesti 
ricordi  non  ho  tempo  d'indugiarmi:  ricordare  è  dolce,  anche  i  dolori, 
ma  la  vita  incalza  -o  piuttosto  la  morte... 

Or  son  quattro  anni,  andai  ad  abitare  in  Borgo  San  Donato.  A 
questo  punto  incomincia  la  -mia  vita.  Perchè  prima  i;on  avevo  vis- 
suto, vale  a  dire  non  avevo  sentito  nulla  dentro  di  me.  non  mi  ero 
detto  neanclie  un  momento:  «  To',  sei  qui.  Martino:  c'è  tanta  gente 
al  mondo:  In  vali  (luanto  qualcheduno...  » 

Abitavo  nella  soffitta  della  casa  N."  **  di  via  San  Donato.  C'erano 
142  scalini  che  facevo  ogni  sei'a  a  due  per  volta,  riducendoli  cosi  a  71. 
Allora  non  iivevo  il  batticuore...  Una  sera,  montavo  allungando  il  braccio 
alla  ringhiera  di  ferro,  a  testa  china;  rischiai  di  sfondare  il  ventre  a  un 
che  discendeva,  il  quale  per  l'urto  sedette  sugli  scalini  senza  fiato. 
Ahi.  lo  j^tesso  m'eia  già  accaduto  qualche  settimana  ]irima  con  un 
giovinotto  elegante  che  aveva  alzato  il  bastone  a  percuotermi,  ma 
aveva  colpito  soltanto  la  ringhiera,  perchè  io  era  già  in  salvo... 

Chiesi  perdono  con  una  grande  vergogna  al  povero  diavolo  che 
avevo  innanzi.  Vidi  un  sorriso  di  fanciullo  in  una  faccia  pallifla  e 
patita  :  l'aiutai  ad  alzarsi  :  era  jjìccoIo,  di  membra  gracili,  con  un  viso 
fine  dominato  da  una  fronte  enorme.  Egli  riprese  a  discendere  dopo 
avermi  guardato  con  due  occhi  acuti  e  dolci,  indimenticabili. 

10  non  avevo  mai  badato  di  proposito  agli  inquilini  delle  soffitte. 
Uscivo  la  mattina,  alle  cinque  d'estate,  alle  sei  d'inverno,  e  non  tor- 
navo che  la  .sera  tardi.  stanehis.simo.  Qualche  bestemmia  d'ubbriaco, 
qualche  urlo  di  donna  percossa,  qualche  strillo  di  bimbo,  le  martel- 
late di  un  calzolaio  matto,  chiamato  Cimisin,  mi  destavano  talvolta 
d'improvviso,  ma  non  mi  davano  iniiuietudine.  A  poco  a  poco,  senza 
volerlo,  vidi  chi  fosse  1'  ubriacone  e  la  donna  percossa  che  stavano 
entrambi  nella  soffitta  attigua  alla  mia,  e  parecchi  degli  squallidi  abi- 
tanti di  quel  lunghissimo  corridoio  a  ferro  di  cavallo  fiancheggiato 
d'una  quarantina  di  cellette  dall'uscio  color  caffè,  quasi  sempre  chiuse 
lungo  il  giorno  e  piene  la  notte  di  agitazioni  e  di  sonni  più  pesanti 
che  la  morte. 

11  giorno  dopo,  era  una  domenica  di  noveiidjre.  limasi  in  casa 
tino  a  tardi,  cosa  che  mi  capitava  ben  di  rado,  perchè  ([uel  bugigat- 
tolo non  m'invitava  a  trattenermici  fuorché  per  dormire,  e,  nato  in 
campagna,  amavo  jtassarvi  tutto  il  di  festivo,  da  vero  vagabondo  so- 


GI,I    AMMONITORI  o 

litario  (Feci  perfino  una  piccola  collezione  di  piante  e  d'insetti,  aiu- 
tandomi per  la  classificazione  con  le  visite  al  museo  zoologico).  La 
ragione  era  in  questo,  che  attendevo  dal  calzolaio  matto  le  mie  scarpe, 
r  quegli  non  se  la  sbrigava.  Bel  tipo!  Egli  zufolava  come  un  flauto 
e  sapeva  a  memoria  tutto  il  Barbiere,  che  eseguiva  secondandolo  colla 
Imttuta  del  martello  o  colle  bracciate  dello  spago:  zufolava  dei  fu  fu 
interminalìili  o  vocalizzava  agilissimamente  lalld  Uro  lìroìla!  Un  merlo 
ili  una  y:abbia  garegtiiava  con  lui.  rii)etendo  migliaia  di  volte  la  prima 
lialtufa  deWInìio  di  Garihuldi.  Cimisin  aveva  inventato  una  macchina 
per  volare  e  diceva  che  senza  i  framassoni  essa  sarebbe  già  adottata 
dairesercito  italiano. 

Dopo  averlo  lasciato  fischiettar  Rossini  paiecchie  ore,  mi  risol- 
vetti ad  affrontarlo  nella  sua  lana.  Aveva  sempre  l'uscio  aperto,  anche 
la  notte,  perchè  temeva  che  i  fabbri  glielo  scassinassero,  -  i  fabbri  erano 
altri  suoi  persecutori,  come  i  tramassoni  -  soltanto  teneva  sempre 
dinanzi  alla  porta  una  tenda,  per  la  decenza. 

Stavo  per  gridare  :  «  Si  può  '!  »  cfuando  al  fondo  del  corridoio  vedo 
uscir  dall'ombra  una  figura  di  giovinetta,  pallidissima,  cogli  occhi 
stravolli,  come  pazza,  lo  occupavo  il  passaggio:  quando  mi  fu  vicina 
si  coprì  la  faccia,  strisciò  contro  il  muro  e  prese  a  scendere  i-apida- 
mente.  Appena  scomparsa  lei.  dalla  stessa  parte  un  uomo  si  slancia. 
Rra  il  giovane  che  avevo  urtato  per  le  scale  il  giorno  prima.  Aveva 
la  faccia  come  pesta  e  gli  occhi  smarriti. 

—  Mia  sorella"?  -singhiozzò  rivolgendosi  a  me. 

—  R  scesa,  -  diss'io  subito. 

Si  precipitò  anch'egli  per  la  scala.  Ed  io  dietro  in  ciaijatte.  cliic- 
dendogli  con  imbarazzo  : 

—  Signore,  scusi,  signore  ! 

Giunsi  anch'io  sulla  strada.  Ma  la  portinaia,  che  aveva  veduto 
scendere  il  giovane,  lo  afferrò  pei-  un  braccio  e  lo  spinse  nella  sna 
camera.  Là  la  sorella,  accosciata  in  terra,  si  torceva  in  singhiozzi 
convulsivi. 

Egli  diede  un  gran  sospiio.  strinse  il  braccio  di  lei  per  sollevarla  : 
ma  il  coi'iio  non  consentiva  :  l'alzò  con  forza,  con  ira.  Poi  s'intenerì 
subito  : 

—  Povera  Lena  !  -  mormorò. 

La  sua  voce  era  profonda  e  vibrante  d'una  dolcezza  repicssa.  .\d 
1111  tratto  strinse  con  ambo  le  mani  la  fac(Ma  di  lei,  liggendolc  gli 
ocelli  negli  occhi,  poi  lasciò  cader  le  braccia  come  esausto  : 

—  Meni  sopra.  Lena  ! 

RUa  chinò  gli  occhi  e  obbedì. 

Che  fare"'  Seguirli  mi  pareva  sconveniente.  (Juando  iurono  salili, 
cinesi  alla  portinaia  : 

—  Che  avviene"?  Ne  sapete  (pialcosa  voi  ? 

—  Rh  !  non  ne  so  niente...  Ma  lo  dicevo  io!  I  signori  sono  tutti 
uguali. 

I  signori"?  Non  si  riferiva  certo  ai  miei  compagni  delle  solììttc. 

—  Che  c'entrano  i  signori'?  -dissi. 

—  Mah!  Misteri!  t)el  resto  lo  sanno  lutti.  Non  lia  visto  mai  un 
bel  gioviiiotto  nei  corridoi"?  Ria  lui.  R  adesso  chi  l'ha  \isl()  l'ha  \  islo. 
Tutti  compagni...  Buon  giorno,  signor  Stanga! 

R  mi  piantò  in  asso.  Risalii.  Appoggiato  al  davanzale  della  mia 
linestra,  che  dava  nel  cortile,  ascollavo.  Tialtavasi  forse  del  gioviiiotto 


fi  (ìli  ammonitori 

eleganle  da  me  urtato  sulle  scale..."?  Le  finestre  di  fronte  eran  tulle 
allerte,  fuorché  una  :  doveva  esser  quella...  E  un  pianto  lontano,  pianici 
di  bambino,  non  discernevo  se  di  lei  o  del  fratello,  si  mescolava  ora 
al  tischiettio  allegrissimo  del  mio  calzolaio. 

La  mia  vita,  il  lavoro,  le  lezioni  .serali  ali"  Università  Popolale, 
mi  ripresero.  Ma  rincasando  tardi,  mentre  mi  sedevo  a  sbrigar  i  miei 
compiti  sotto  la  lampada  a  petrolio,  davo  più  retta  ora  ai  rumori  della 
soffitta,  alla  vita  notturna  di  quella  specie  di  chiostro  aereo  ove  nes- 
suno conosceva  o  vedeva  forse  mai  il  vicino:  esseri  umani  le  cni  sof- 
ferenze, le  cui  gioie  d'un  attimo,  i  cui  riposi  pesanti,  divisi  soltanto 
da  un  sottil  muro,  gettavan  nei  corridoi  rumori  indistinti,  vagiti,  gemiti, 
ronfi,  bestemmie.  E  alloia  senii\o  qualcosa  che  entrava  in  me,  qual- 
cosa di  tutti  quegli  esseri,  con  un  senso  quasi  di  molestia:  pareva  che 
la  loi'  vita  grave  pesasse  sulla  mia:  non  mi  sentivo  piìi  libero  di  esser 
solo:  non  ero  più  solo  :  coloro  m'imponevano  qualcosa  ch'io  non  accet- 
tavo se  non  con  riluttanza.  Forse  s' io  non  avessi  mai  sofferto  non 
avrei  sentito  questo  :  ora  la  sofferenza  altrui  ridestava  quella  mia  antica, 
sopita  nelle  mie  libre  di  fanciullo:  e  il  pensiero  che  altri  ora  dolorava 
com'io  allora,  mi  dava  l'illusione  che  degli  a?<r»  me  stesso,  degli  alt li 
esseri  come  quel  fanciullo  giallo  ch'io  vedevo  e  vedo  ancora,  col  ventre 
lacerato  dalla  fame  e  le  gambe  nella  mota,  raspassei'o  eternamente  nella 
terra  infeconda,  per  coricarvisi  alla  fine. 

Intanto  io  che  prima  lavoravo  a  libri  di  poca  importanza,  passai 
a  correggere  opere  di  gran  valore.  Fu  allora  ch'io  lessi  per  mio  ufficio 
volumi  di  cui  non  capivo  gran  fatto,  ma  ove,  dopo  cento  pagine  per 
me  mute,  certi  periodi  spandevano  nella  mia  mente  onde  di  splendore. 
Basti  dire  che  corressi  le  opere  tradotte  di  Darwin,  di  Haeckel,  di  Scho- 
penhauer, di  William  .fames.  di  Wundt.  di  Flammarion.  Ogni  sera 
dinanzi  alla  mia  lampada  rileggevo  quelle  pagine,  di  cui  dal  bozzista 
compiacente,  con  qualche  pietesto,  mi  facevo  tirare  una  bozza  per  me:  e 
le  pareti  della  mia  soffitta  si  dilatavano,  scomparivano:  la  mia  lampada 
diventava  un  sole. 

Talvolta  il  mio  cai)o  era  talmente  pieno  di  calore,  pei'corso  da  fre- 
miti e  posseduto  dalla  febbre,  che  aprivo  la  finestra  e  mi  pareva  d'im- 
mergermi nelle  stelle.  Oh!  gl'immensi  mondi,  nati  ieri  o  già  decrepiti, 
pieni  di  vita  o  bruciati,  irradiati  o  spenti  nelle  tenebre  ! 

E  sovente  la  finestra  di  fronte  era  illuminata  :  talvolta  s'apriva, 
e  una  mezza  figura  si  curvava  sul  davanzale,  la  gran  fronte  del  fra- 
tello di  Lena. 

Una  sei'a  m'awiavo  all'Università  Popolare,  dopo  cena:  aveva 
nevicato  tutto  il  giorno.  In  jtiazza  Statuto  lo  spettacolo  era  stranissimo 
ed  energico.  Mucchi  di  neve  venivano  ammonticchiati  iiua  e  là  da  uomini 
neri,  i  cni  volti  erano  illuminati  fortemente  da  fumiganti  torce  a  vento, 
piantate  in  cima  a  quelli:  carretti  si  caricavano  e  trascinavano  fino 
alle  botole,  ove  il  carico  si  sprofondava.  Mi  soffei-mai  a  contemplare 
un  istante.  Ad  un  tratto  fui  colpito  di  stupore. 

Un  mingherlitio.  avvolto  in  un  pastrano  assai  leggero,  con  due 
occhi  ardenti  sotto  un  gran  cappello  a  cencio,  sollevava  a  stento  le 
sue  palate  di  neve  che  gettava  sul  cumulo:    lui!    il  tìatello  di  Lena. 

Mi  scorse  e  sorrise: 

—  Buona  sera -disse  con  la  voce  tenera  e  profonda. 


(HA    AMMONITORI  / 

—  Anche  lei  qui;?  -  esclamai. 

~  Come  vede  !  Bisojina  lavorare  ! 

Ma  le  sue  mani  erano  gracili  e  livide,  e  le  hraccia  laievano  lalica 
a  sollevar  la  pala. 

—  Non  è  lavoro  per  lei,  credo  ! 

—  Quando  non  e" è  altro...!  leii  iio  guadagnalo  due  liic.  -  K  la  sua 
Taccia  magra  jiareva  raggiasse  di  gioia. 

Un  assistente  s'avvicinava.  Mi  incamminai. 
Al  mio  ritorno  egli  era  là  ancora  : 

—  Non  viene  a  casa  "?  É  quasi  mezzanotte. 

—  Si,  a  momenti. 

—  Allora,  l'attendo. 

KvA  trafelato,  col  cappello  buttato  indietio  sulla  nuca:  e  la  sua 
gran  fronte  splendeva  alla  luce  sanguigna  delle  torce.  Intorno  a  lui  il 
lavoro  diveniva  più  lento,  prossimo  alla  line,  monotono  e  triste  :  pareva 
una  fatica  interminabile  d'una  bolgia  dantesca. 

S'avvicinò  l'assistente.  Era  mezzanotte.  Aveva  untoKlio  in  mano 
e  chiamava  ciascuno,  lo  stavo  attento;  ad  un  nume.  Crostino!  egli  si 
levò  e  s'avvicino  a  colui. 

Si  chiamava  Crastino:  il  mio  latino  me  ne  diceva  qualcosa  :  con  un 
nome  simile  doveva  essere  un  trovatello.  Venne  a  me  sfinito  e  conlento: 

—  Tre  lire  oggi  ! 

—  Ma  perchè  non  cerca  un'altra  occupazione  più  a<latta  per  iei.'- 
(liss'io.  -  Dall'aspetto  immagino  che  abbia  studialo. 

—  Appunto!  Perciò  sono  un  buono  a  nulla.  Questo  è.  un  lavoro 
che  non  richiede  preparazione.  Dovrei  avere  un  buon  mestiere,  ecco. 

—  Non  potrebbe  trovar  lavoro  in  qualche  ufficio,  come  .segretario, 
o  in  ima  tipogratia,  o  che  so  io"' 

—  Ho  provato  :  non  si  trova  nulla. 

lo  pensavo:  avrei  cercato  io  stesso,  poi  sarei  sialo  ben  conlcnlo 
di  offrirgli  un  posto. 

—  E  sua  sorella"/  -  osai  domandargli. 

Egli  sospirò  profondamente,  ma  non  risiiose.  Di  lì  a  un  momento 
liprese  : 

—  Tre  lire...  Nevicherà  di  nuovo,  non  è  vei'o"?-  E  guardò  il  ciclo 
brillante  di  stelle. 

—  Non  credo  -  risposi.  -  Domani  è  sole:  d'alti'ondc  è  domenica. 

—  È  vero.  Ija  domenica  dev'esserci  il  sole,  per  chi  la\()ta  tuttala 
settimana.  Chi  sa  quando  lavorerò  di  nuovo!  Dovrebbe  nevicare  domani 
notte,  no  f 

—  Se  le  fa  piacere  !  -  e  risi  anch'  io. 

—  Ci  son  di  quelli  che  guadagnano  uno  scudo:  l'assistente  li  .s(|ua- 
di-a,  ti  pesa  coll'occhio,  e  ti  fa  la  tai-a.  Io  peso  poco. 

aravamo  giunti  al  noslio  palazzo.  Aprimmo:  dallo  scalone  coperto 
di  tappeto,  intiepidito  dal  calorifero,  alla  scaletta  nuda  dei  nosti'o  lub- 
bione  i  gradini  erano  sempre  più  alti  :  traversavamo  cosi  ogni  sera  tutte 
le  zone  della  società:  caldo,  temperato,  freddo:  noi  eravamo  al  jiolo. 

In  cima  della  scala  io  tiravo  da  una  banda  e  luì  dall'alti'a: 

—  Viene  un   momento  da   me.'  Sono  solo. 
E  come  io  esitavo  : 

—  Domani  lei  non  lavora...  Chiacchieriamo.  \'iene"' 

E  mi  prese  per  un  braccio.  Traversalo  il  corridoio  pieno  come  di 
ronzii  indistinti,  entrammo.  Eiu  la  mia  soffitta  tal  e  quale  :  la  mede- 


8  GLI   AMMONITORI 

sima  disposizione  del  letto,  col  capezzale  verso  la  parete  maggiore  e 
i  piedi  veiso  lo  spiovente,  poiché  la  lorma  del  tetto  non  ne  comporta 
altra.   Un  angolo  era  nascosto  da  una  tenda. 

—  È  solo  lei  ora".'  -  gli  domandai. 

—  Solo,  sì. 

E  mi  guardò  in  modo  che  pareva  mostiasse  una  intensa  pietà  di 
me:  e  gli  occhi  gli  si  empierono  di  lacrime.  Aggiunse: 

—  Lei  non  può  dormire'? 

—  Io  dormo  come  un  ghiro!  Al  mattino  non  mi  leverei  mai. 

—  Percliè  si  mette  alla  finestra  tardissimo  V 

—  Oh,  un  momento,  per  cacciare  il  puzzo  del  petrolio,  dopo  avere 
scritto  o  letto  per  ore  intere. 

—  Ah,  studia  lei"?  Ha  dei  libri"?  -  E  i  suoi  occhi   s'illuminarono. 

—  Moltissimo.  Ho  una  curiosa  biblioteca.  Sono  correttore  di  bozze 
alla  Società  Editrice. 

—  Pei'dio!  -  interrupi)e  egli.  -  Dunque  lei  può  leggeir  Spencer, 
Nietzsche... 

—  Sicuro!  Li  posseggo  quasi  per  intero,  e  molti  altri. 

—  Li  ha  là,  in  quella  sotfitta"?  -  e  s'  appressò  alla  finestra  come 
jier  penetrare  laggiù  con  lo  sguardo. 

Ma  il  suo  entusiasmo  cedette  subito.  S'abbandonò  a  sedere  sul 
letto,  che  fece  un  crepitio  di  toglie  pigiate:  appoggiò  il  gomito  al  cu- 
scino e  la  testa  sulla  mano,  poi  l'iprese  colla  voce  dolce  e  profonda: 

—  D'altronde,  è  inutile  studiare,  lo  so  già  tutto.  Ciascuno  sa 
quello  che  gii  è  necessario. 

La  lucerna  gii  illuminava  la  fronte  troppo  ampia,  sotto  cui  le  or- 
hite  si  approfondivano:  gli  zigomi  prominenti  e  le  mascelle  forti  con- 
trastavano colla  forma  della  bocca  nettamente  .segnata  sotto  baffi  neri 
e  radi  e  le  labbra  avevano  increspamenti  infantili  con  una  perenne 
piega  dolorosa  agli  angoli. 

La  sua  affermazione  lo  fece  sorridere  col  suo  sorriso  melanconico. 
Soggiunse  : 

—  E  lei  non  sente  che  il  necessario  a  sapersi  è  molto  |>oco'i' 

—  Non  saprei,  caro  signore  -  risposi.  -  lo  ho  studiato  moltissimo 
e  ci-edo  che  non  cesserò  mai  di  studiai'e,  finché  non  senta  di  sapei'ne 
abbastanza,  cioè  tino  a  quando  quel  poco  che  conosco  sarà  unito  e 
compatto.  Oh,  so  bene!  Ogni  ramo  di  scienza  richiede  una  vita  intera. 
Io  ero  pazzo  f)er  l'entomologia  :  ebbene,  l'ho  piantata  perchè  sentivo 
che  sarei  andato  al  camposanto  senza  conoscerla  interamente. 

—  Se  la  sarebbe  fatta  insegnar  dai  vermi  ! 

—  No,  perchè  mi  farò  cremare. 
Egli  si  mise  a  ridere  : 

—  Inutile,  amico.  Ci  sono  i  microbi  che  ci  fanno  vivere  e  quelli 
che  ci  fanno  morire.  (^)uesti  ultimi  la  vinceranno...  E  ci  sono  altri 
microbi  che  spazzano  anche  le  nostre  spoglie  per  far  posto  ai  nuovi 
arrivati. 

—  Questo  l'ho  letto  anch'io.  È  dunque  vero? 

—  Verissimo. 

—  Già:  noi  siamo  colonie.  Ogni  gruppo  di  microi'ganismi  ita  l'uf- 
ficio di  mantenei-e  un  organo.  Una  volontà  regge  tutta  quesla  collet- 
tività.  Ecco  l'uomo! 

liimasi  stupito  della  mia  audacia:  stupito  e  insieme  lelice,  come 
se  in  tpiel  momento  io  primo  avessi  scoperto  d'un  balzo  ipiella  verità. 


GLI   AMMONITORI  9 

Egli  mi  guardò  sorridendo  di  compiacenza: 

—  Questo  non  c'entra...  Saremo  amici,  non  è  vero"?  -  E  tosto  si 
oscurò.  Mi  afferrò  la  mano,  poi  la  ritrasse  subito  e  si  stese  sul  letto: 

—  La  vita  è  un  male. 

—  No,  la  vita  è  un  bene  -  protestai  incoraggiato  e  quasi  petulante. 
Ero  così  poco  avvezzo  a  parlare  con  jiersone  colte  di  cui  non  avessi 
soggezione,  che  il  trovar  finalmente  uno  col  quale  parlare  da  pari  a 
pari  delle  cose  che  erano  divenute  tutta  la  mia  vita  mi  riempiva  di 
entusiasmo  e  di  un'audacia  che  non  sapevo  contenere. 

—  È  il  solo  bene  la  vita!  -  affermai  con  forza.  -  Tutto  il  lesto  non 
esiste  che  nella  nostra  immaginazione  :  labbiaino  farneticato  perchè 
non  .sapevamo  il  valore  della  vita. 

—  E  questo  che  esiste  nella  nostra  immaginazione  vale  molto  più 
che  la  realtà  -  egli  riprese.  -  Io  vedo  un'altra  vita  e  confido  in  essa... 
Guardi  un  po'  fuori  della  finestra.  Perchè  non  si  mette  alla  finestra 
come  le  altre  sere"?...  Io  sono  troppo  stanco! 

Apersi:  là  dentro  era  freddo  e  senz'aria.  La  notte  invece  pareva 
tfuasi  tepida.  I  tetti  bianchi:  una  distesa  interminata  di  tetti,  su  cui» 
i  camini    in    fila    parevano    armenti    immobili  e  candidi.  Un  augusto 
mistero  splende\a  in  cielo  ove  le  stelle  limpidissime  tremolavano. 

Egli  aveva  gli  occhi  ciiiusi.  Disse: 

—  Il  cielo!  Che  bellezza!  Quando  .spengo  il  lume,  la  finestra  par 
che  si  apra  sull'immenso! 

Poi,  dopo  un  po'  : 

—  Sa  lei  che  io  ho  fatto  un  libro  di  poesie"?  Non  ha  mai  letto  il 
mio  nome"?  Io  mi  chiamo  Vigile  Cràstino:  i)are  uno  pseudonimo.  Infatti 
c'è  chi  nasce  sotto  uno  pseudonimo...  Chi  sa  qual  anima  di  rivoluzio- 
nario mi  dette  questo  nome,  affatto  fuor  di  proposito!  Perchè  io  non 
sono  né  del  domani,  né  dell'oggi.  Sono  fuor  della  vita...  Sa  lei  che 
significa  "? 

—  Si;  so  un  po'  di  latino.  Ma  io  l'ho  sentito  chiamar  Luigi... 

—  Infatti  Vigi  era  il  mio  nome  da  bimbo,  e  così  mi  chiama  mia 
sorella. 

Tacque  un  istante,  poi  ripigliò: 

—  Ma  ])er  me  non  c'è  né  oggi,  né  domani.  C'è  l'eternità,  cioè  un 
putito,  e  tutto  é  contemporaneo:  il  tempo  e  lo  spazio  non  sono  che 
apparenze:  le  variazioni,  il  numero,  gli  individui  non  sono  die  appa- 
l'eiize.  La  realtà  è  l'uno,  l'Essere. 

—  Cosicché  lei  non  vive,  e  neanch'io... 

—  Non  esistiamo.  Ombre...  Così  non  ab'oiamo  colpa  e  merito  di 
quello  che  agitiamo  nella  nostra  vita,  come  non  l'alibiamo  nel  sonno. 
La  vita  è  un  sonno.  Ci  sveglieremo.  Allora  io  (lofiò  anche  alìbracciare 
mia  sorella  e  baciarla  in  fronte... 

—  È  morta  dunque"?  -  interruppi  io  pieno  di  stupore. 

—  No.  È  nel  sonno  come  noi.  Ma  il  suo  sonno  è  un  incubo.  Ella 
soffre  fisicamente  e  moralmente,  dolore  e  onta.  Alia  sorella!... 

Non  potè  proseguire,  la  voce  divenne  stridula,  si  spense.  Iiuli  ri- 
prese con  un  grande  sforzo  e  con  voce  mutata  : 

—  Mia  sorella  è  una  disgraziata  ! 

Pareva  che  da  un  sogno  di  languore  fosse  piombato  in  una  realtà 
disgustosa.  Io  non  seppi  che  soggiungere.  Dopo  un  po'  mi  feci  colaggio: 

—  Dunque  ])ensa  lei  che  non  esiste  la  colpa  o  il  merito.  Esiste 
il  perdono:  no"? 


10  (ir.I    AMMONirOHI 

—  No,  no!  Né  colpa,  né  perdono.  Quello  che  deve  avvenire  av- 
verrà, l'ercilè  siani  nati  noi'?  Non  sa|)|)ianio,  io  e  mia  soiella,  chi  ci 
Ila  messi  al  mondo.  Un  burlone  ci  chiamò  Oràstino.  come  se  ci  afìi- 
dasse  ima  missione  e  forse  una  vendetta,  di  che?  e  noi  siamo  i)eitella- 
mente  all'oscui'o.  Che  dobbiamo  fare?  Intanto  mia  sorella  ha  ri|)elul<) 
(piello  che  ha  fatto  probabilmente  mia  madre...  Ella  è  ricoverata  alla 
.Maternità... 

—  Qui?  -  chiesi  io,  volgendomi  verso  di  lui  e  sentendomi  atterrale 
da  una  gran  commozione.  -  Lei  va  a  trovarla?  Domani  è  festa.  Andiamo 
a  trovarla?  Posso  accompagnarla? 

Mi  stupii  del  mio  ardire.  Avevo  quasi  il  senso  d' un"  intrusione 
(^h'  io  compiessi,  ma  mi  ci  sentivo  spinto  imprudentemente. 

—  Non  ci  sono  andato  ancoi-a.  N.m  so  perchè.  Ho  una  immen.sa 
pietà  di  lei.  Ma  sento  una  specie  di  rancore.  Che  obbligo  aveva  ella 
vciso  di  me?  Io  sì,  grandissimo,  verso  di  lei.  Ella  guadagnava  da 
\ivere  per  entrambi.  Io  sono  buono  a  nulla:  non  sono  un  uomo  io. 
Non  dovevo  nascere:  perciò  desidero  morire! 

Tutto  la  faccia  nel  cuscino  e  io  udii  come  se  il  suo  petto  si  rom- 
pesse. Che  fare?  Forse  il  meglio  era  eh'  io  lo  lasciassi  piangere.  K 
avevo  un  nodo  in  gola,  e  i  miei  occhi  dilatali  verso  la  notte  si  riem- 
pivano di  lacrime. 

Riprese  dopo  un  momento  : 

—  Non  avevn  confidenza  in  me.  Sono  sempre  stato  fuori  del  In 
vita.  Ero  sempre  astratto.  Klla  sentiva  forse  degl"  im|)ulsi  prepotenti 
nel  suo  corpo  robusto.  Che  ne  so  io?  Uno  studente,  un  commesso, 
un  seduttore  di  professione,  un  signore,  dice  la  jjortinaia...  doveva 
essere  bello  e  ben  vestito,  che  ne  so  io?  lo  non  fho  mai  veduto,  non 
ho  sospettato  nulla.  Forse  chi  sa  quante  volte  ella  fu  in  procinto  di 
contidarsi  :  doveva  pesarle  il  segreto...  massime  quando  lui  scomparve 
senza  lasciarle  una  parola  d'addio...  Infine  non  ne  potè  più.  Un  giorno 
credette  ch'io  le  osservassi  i  fianchi  :  m'era  caduto  lo  sguardo  lì:  non 
sapevo  nulla,  io...!  E  ruppe  a  piangere  e  mi  svelò  tutto...  Tutto?  Cioè 
nulla.  Un  giovane...  Chi?  Dove  abita?  Nulla.  E  non  lo  sajirò  mai... 
Ora  avrà  un  tiglio...  di  chi?  Lo  chiamerà  Cràstino  anche  quello,  e 
così  di  generazione  in  generazione,  procrastinando... 

Lo  scherzo  orribile  mi  riscosse.  La  tiiannia  delle  parole!  Gli  si 
era  imposta,  ed  egli  aveva  dovuto  eruttarla  per  liberarsene.  N"  ebbi 
maggior  pietà.  Me  gli  appressai  :  aveva  sulla  faccia  una  smorfia  amara, 
(ili  presi  una  mano  e  mi  sedetti  accanto  : 

—  Sei  mio  amico,  hai  detto.  Diamoci  ilei  tu:  ((uassìi  non  si  fanno 
cerimonie.  Io  non  credo  che  la  vita  è  un  sogno.  Prima  e  dopo  la 
vita  non  e"  è  nulla  per  noi,  vale  a  dire  per  la  nostra  coscienza 
che  è  la  nostra  memoria  e  la  nostra  induzione  dal  passato  al  futuro, 
dico  bene?  Pciciò  doblìiamo  vivere  la  vita.  Tua  soiella  ha  tentalo 
di  vivere...  Bene  o  male?  (Perchè  abbiamo  anche  quelle  parole  li. 
Ma  ipielle  parole  li  non  hanno  mica  il  significato  che  dà  loro  la  jior- 
tinaia,  ad  esempio).  Io  dico:  bene.  Bene,  se  ella  pensa  che  ha  amato, 
che  fu  amata  foise  un  istante,  che  una  nuova  vita  nasce  da  lei,  affi- 
data alla  sua  lealtà.  \'oi  non  avete  ciu-  da  ricevere  questo  dono  che 
vi  fa  la  vita,  lealmente,  ed  essere  poi  leali  con  essa,  coniai,  col  nuovo 
essere,  quando  acquisterà  il  diritto  di  sapere  chi  egli  è,  dico   bene? 

Egli  taceva:  aveva  gli  occhi  chiusi,  paicva  dormire,  ma  il  suo  le- 
spiro  era  troppo  silenzioso:  ascoltava. 


(ìli  ammonitori  1  I 

—  Vedi,  contimiai.  C'è  qui  sopra  unceniinaìo  di  sorterenli  e  liilli 
sono  estranei  l'uno  all'altro.  Sembrano  estranei,  e  non  sono.  Io  sento 
l)esare  su  me  le  loro  sofferenze  :  così  essi  devono  sentir  le  mie,  e  nessuno 
cerea  di  togliersi  di  dossoquesto  malessere.  Noi.  peresempio.  g:uardavamo 
le  nostre  finestre  illuminate,  ed  ecco  che  un  pensiero  ci  univa,  questo 
solo  pensiero  :  «  egli  è  là  ».  E  ci  siamo  avvicinati  :  ora  la  nostra  mutua 
sofferenza  non  ci  pesa  più  tanto,  perchè  la  conosciamo  e  la  dividiamo. 

Egli  aperse  gli  occhi: 

—  E  tu...  soffri? 

—  lo  no,  ora.  Ma  ho  sofferto  moltissimo  in  un'età  in  cui  non  ci 
dovrebbe  essere  sofferenza.  Ora  soffro  soltanto  del  dolore  degli  altri, 
ed  ho  tale  desiderio  di  sollevarlo,  che  ciò  mi  diventa  un  tormento,  e 
non  posso  scuotermelo  se  non  coli'  azione.  Cosicché  vo  pensando  ad 
un'azione  ch'io  debbo  fare,  e  non  la  trovo. 

—  Dovresti  scrivere. 

—  Non  sono  capace.  Le  mie  idee  sono  confuse.  Potrei  scrivere, 
per  esempio,  quello  che  ho  detto  a  te  adesso,  ma  questo  serve  soltanto 
jìer  il  tuo  caso.  Io.  vedi,  avrei  bisogno  di  sistemare  tutti  questi  pensiei'i. 
di  farne  un  organismo  saldo,  e  darlo  agli  uomini  perchè  vedano  chiaro... 

Tacemmo  un  istante. 

—  No:  sarel)be  una  ct)sa  fredda.  (ìli  uomini  non  vanno  innanzi  con 
la  luce  elle  apparisce  alla  ragione,  ma  col  sentimento...  Questo  non  con- 
clude che  io  ti  seguirei.  Dovresti  far  delle  conferenze.  Ma  io  non  ti  credo. 

—  Conferenze?  Ho  paura...  E  poi.  un  correttore  di  bozze!  È  vero 
che  adesso  anche  gli  operai  fanno  delle  conferenze...  Socrate  diceva: 
«  So  di  non  sapere  ».  Oi-a  io  non  posso  dir  questo,  ma  non  posso  neanche 
dire:  «  So  di  sapere  ».  Ho  udito  dei  professori  di  Università  i  quali  non 
dicevano  una  sola  cosa  ch'io  non  sapessi  già.  ma  la  dicevano  in  modo, 
come  se  sajìessero  molto  di  più.  anzi,  come  non  esistessero  piii  mi- 
steri per  essi.  Io  non  sono  neanche  sicuro  di  quello  che  so...  0  me- 
glio, tinche  non  l'ho  tirato  fuori,  non  ne  .sono  sicuro.  Ma  quando  l'ho 
affermato,  allora  ne  sono  certo.  Per  esempio,  io  credo  affatto  tutto 
(|uelIo  che  t'ho  detto  questa  notte. 

Chiacchierammo  cosi  ancora  per  ini  po'  di  tempo,  e  io  venni  in 
lai  mod<i  a  raccontargli  la  mia  povera  storia  e  lui  la  sua.  Poi  andai 
a  (loi'mire,  dopo  averlo  fatto  coricare  e  copertolo  ben  bene.  Entralo 
in  letto,  mi  sentivo  contento,  e  mi  pareva  anche  di  esser  diventalo 
(|ualche  cosa,  o  almeno  di  aver  riconosciuto  una  forza  dentro  di  me  che 
stava  nascosta   prima. 

II. 

Al  mattino  mi  svegliai  laidissimo  .^otio  l'impressione  d'un  sogno 
afi'atlo  fuor  di  proposito,  ma,  secondo  iiu',  molto  bello,  sì  che  potrebl)e 
fornire  un  ottimo  argomento  per  un  diamma.  lo  non  sono  capace  di 
cDncretar  nulla,  sebbene  mi  senta  nato  superiore  a  tanti  altri.  Ma  è 
certo  che  se  io  fossi  stato  in  condizioni  di  svolgermi  secondo  la  mia 
forza  interiore  armonicamente,  e  intorno  tutto  non  mi  avesse  compresso, 
come  un  germoglio  tra  i  sassi  e  gli  steipi...  Via!  I^in-chè  ariivi  il  temi)o 
in  cui  tutti  i  naii  dell'uomo  siano  eguali  di  fronte  alla  vita,  aftinché  diven- 
tino quello  che  devono,  di  per  sé  stessi.  Adesso  intanto  si  nasce  mala- 
mente :  le  nostre  madri  ci  foggiano  come  possono,  da  povere  affamate 
e  sfinite  che  sono...  Le  nostre  madri!  Mia  madre...!  Basta.  Ecco  il  sogno. 


12  <iM    AMMONITORI 

l)im(|ii<'.  piazza  Statuto,  e  la  stessa  scena  della  sera  innanzi.  Le 
piaiilc  cofìcrte  di  neve,  la  piramidi'  del  Fréjns  coU'angelo  sospeso  nel 
cielo.  (Iràstino  è  là,  in  mezzo  al  hiidichio  dei  piccoli  uomini  incapi»iic- 
ciati  die  le  torce  a  vento  arrossano  di  scorcio,  e  la  neve  è  tutta  ro- 
sata. Da  quanto  tempo  raspano  il  selcialo  e  per  quanto  tempo  ancora? 
Ma  il  silenzio  è  stranissimo.  La  neve  soffoca  ogni  rumore  e  tutti  quei 
sesti  e  quell'agitazione  senza  strepito  danno  proprio  1"  impressione  di 
un  sogno  senza  tempo. 

Crastino  è  fermo,  ap|)oggiato  al  manico  della  pala  :  si  prova  a  lare 
un  gran  respiro  per  sollevarsi  il  petto:  quando  una  carrozza  passa... 
Un  giovinotto  è  li  dentro.  È  lui!  Glii"?  Adesso  si  ricorda:  l'aveva  ve- 
duto per  le  scale  e  non  l'aveva  mai  notato.  È  lui  certo.  Un  moto  ful- 
mineo: il  giovane  cade  dalla  carrozza,  stramazza,  col[)ito  alla  testa  da 
un  colpo  di  pala... 

Un'agitazione  enorme.  Un  fanciullo  di  sei  o  sette  anni  si  lancia 
alle  ginocchia  di  Crastino,  come  per  proteggerlo  contro  la  l'uria  dei 
circostanti.  E  tutto  stranamente  silenzioso...  Crastino  salta  su  un  cu- 
mulo di  neve  e  fa  grandi  gesti  e  apre  la  bocca  come  volendo  gridale. 
Infatti  si  sente,  ma  fiochissimo:  «  Fratelli,  quell'uomo  lui  fatto  morire 
mia  sorella  dopo  averla  resa  madre...  K  morta  alla  Maternità...  morta 
di  ])arto,  perchè  aveva  troppo  sofferto...  lo  e  mia  sorella  siamo  tro\a- 
lelli  :  suo  tiglio,  eccolo,  non  ha  conosciuto  la  madre.  Kcc(j1o  !  »  Lo 
prende  sulle  braccia  e  lo  alza  sul  suo  capo.  Allora  si  leva  un  tumulto 
sterminato.  La  piazza  è  gremita  d'un  popolo  immenso,  bimbi,  donne, 
\('cchi.  Tutti  gridano  con  grida  altissime. 

In  un  momento  Crastino  è  afferrato  da  due  guardie  nere,  scompare. 

Ma  il  tumulto  non  cessa.  Tutta  quella  turba  si  stringe,  alza  i  pugni  : 
tutte  le  braccia  sono  levate,  tutte  le  voci  vanno  al  cielo  :  e  un  uomo 
altissimo  ha  afferrato  il  fanciullo  alla  vita  e  lo  solleva  colle  due  braccia 
al  disopra  del  suo  ca|)0  : 

—   Il  tuo  bimbo,  popolo  ! 

Destatomi,  il  tumulto  continuava  nelle  mie  orecchie.  Ma  non  era 
già  quello:  veniva  dal  ()ianerottolo,  dalla  scala,  dal  corridoio.  Fra  un 
vocìo  di  bimbi  e  di  mamme.  C'era  il  sole.  Aprii  la  finestra  e  guardai 
di  fronte.  Quella  di  Crastino  era  chiusa  ancora. 

Il  pianerottolo,  in  cui  il  sole  scialbo  gettava  un  largo  sprazzo,  era 
brulicante  di  biiidji.  Alcuni  avevano  il  grembialino  pulito  :  i  più  erano 
laceri  e  sporchi  in  viso.  Una  donna  frugava  nella  selva  ispida  d'una 
testa  riluttante.  Un  ragazzo,  tulio  bianco  di  calce,  un  bicc  muratore, 
esponeva  al  sole  i  suoi  piedi  escoiiati  dalla  calce  e  dai  geloni.  Un  cai- 
bonaio  rigirava  la  testa  sotto  il  robinetto  comune  dell'acqua  potabile, 
inzuppandosi  d'un  sapone  dall'otlor  nauseabondo.  Un  uomo  stava  se- 
duto in  terra  appoggiato  al  muro,  con  una  faccia  ebete  e  gli  occhi  i)roprii 
degli  ubriachi  e  dei  morti,  simili  ad  acini  d'uva  mezzo  crepati  :  can- 
tava una  nenia  compassionevole  : 

Minca  'u  Crus,  Minca  'n  Crus 

Le  ninsole  son  pa  nus 

E  le  lUTS  snii  pa  niiisnle...  (1). 

Spinilo  dal  basso  della  scala  un  cappello  color  caffé,  (lue  spalle 
nirvc,  e  un  viso  da /(«//(/o//  si  alzò  nel  sole  a  «iiiardar  la  canaglia.  Foi 

^  1)   Cantilena   pifUioiitesi,'. 


(JM    AMMONITORI  1 -i 

traversò,  senza  badar  molto  acciuatainente  dove  mettesse  i  piedi,  tra 
i  ceiiei  e  le  gamt)ette  dei  bamliini  e  cominciò  a  l)ussare  all'uscio  del 
11.   1.  Era  il  segretario  della  casa. 

Tutte  le  domeniche  egli  taceva  il  suo  giro  a  riscuotere  i  fitti  del 
mese  :  cominciava  sorridendo  e  finiva  ruggendo  e  bestemmiando  :  spesso, 
la  sera  della  domenica,  il  pianerottolo  era  ingombro  dei  mobili  di  qual- 
clie  inquilino  scacciato. 

Di  li  a  poco  sentii  vociare  e  strillare  nella  soffitta  attigua  alla  mia, 
II.  7.  Era  la  moglie  dell'ubriaco  :  protestava  al  segretario  clie  non 
aveva  da  mangiare,  ne  da  sfamare  i  suoi  tre  bimbi  :  uno.  il  più  pic- 
cino, strillava  nelle  sue  braccia. 

Sul  pianerottolo  un  ragazzo  patito,  dalla  faccia  pallida  e  intelli- 
gente, occhi  inquieti,  gran  bocca  ed  orecchie  ad  ansa,  inginocchiato 
su  un  gradino,  sporgendo  la  testa  sul  balcone,  guardava  verso  quella 
hnestra  :  doveva  esser  suo  figlio.  Una  bambina  ricciuta,  colle  guance 
flosce  e  le  labbra  mocciose,  tendeva  una  inanuccia  verso  di  lui  e  rag- 
giuntolo lo  tirava  pel  |ìiede.  piagnucolando:  «  Notu.  Notu!  »  Notu  le 
diede  un  calcio  e  scappò  lungo  il  corridoio. 

Il  segretario  si  acquietava  con  la  moglie  deirubriaco.  Ciò  conti- 
nuava da  mesi  :  il  segretario  finiva  sempre  con  acquietarsi,  il  che  non 
avveniva  con  nessun  altro  inquilino,  fuorché  con  la  Salamandra,  una 
ragazza  equivoca  che  era  lo  zimbello  e  insieme  il  castigo  dei  monelli. 

Passata  la  mia  soffitta  (io  pagavo  anticipato  al  suo  ufficio,  ogni 
mese)  bussò  al  n.  9.  Chi  ci  abitava^  Nelle  rare  notti  in  cui  non  po- 
tevo dormire  udivo,  dopo  la  mezzanotte,  scricchiare  la  chiave  nella 
toppa  e  due  passi  pesanti  avanzarsi  di  là  dal  muro,  e  talvolta  un 
piccolo  tonfo,  come  d'un  sacco.  Xieufaltro. 

Nes.suno  rispose  alla  picchiata,  ed  egli  passò  oltre.  Quando,  di  li 
a  qualche  tempo  mi  parve  d'intravederlo  nella  .soffitta  di  Crasfino, 
rimasi  un  momento  ansioso.  Ma  come  si  tratfene\a  |»iù  che  nelle  altre, 
mi  risolvetti  di  intervenire.  Traversai  il  pianerottolo:  «  Ciao,  tijìografo». 
mi  mormorò  l'ubriaco.  Le  donne  mi  guardarono  con  indiiterenza. 
Bussai  alla  porta: 

—  Son  io.  Sfanga. 

—  Avanti!  -rispose  la  voce  di  Crasfino. 

11  segretario  mi  ricevette  sorridendo  in  aria  di  condiscendenza. 
Salutai  l'amico: 

—  Hai  dormito'' 

—  Si.  La  fatica,  vedi.  LTn  mestiere...  Faticare...  non  c'è  di  meglio. 
A  ppunto  chiedevo  al  signor  segretario  se  avesse  qualcosa  da  farmi  fare... 

Il  segretario  sorrideva  tra  il  furbo  e  il  fatuo.  Che  mistero,  la 
bruttezza!  Cohii  aveva  un  naso  rintanato  nella  faccia  come  se  tuffa 
fo.sse  stata  dissestata  da  un  pugno;  gli  occhi  sporgevano,  le  labbra  e 
i  denti  grossi  e  gialli  si  protendevano.  Aveva  qualcosa  di  un  batrace. 
Quando  rideva  era  orribile.  .-Vveva  un  tic  all'occhio  sinistro  e  ammic- 
cava spesso  fuor  di  proposito. 

—  Veda,  signor  Stanga  -  cominciava  con  la  sua  pronunzia  bal- 
buziente. -  lo  sono  lietissimo  di  vederli  amici,  loro  due.  Il  signor  Cra- 
sfino... non  può  che  avvantaggiarsi  della  compagnia  d'un  giovane 
ammodo  e  pratico  come  lei!  Vede,  io  sono  molto  ben  dispo.sto  verso 
il  signor  Crasfino.  E  siccome  so  in  che  condizioni  si  trova,  e  la  di- 
sgrazia di  sua  sorella...  vorrei  perdonargli  la  pigione,  affinchè  porti 
un  regaietto  a  lei... 


14  (HA    AMMONITOHI 

«Buon  cuore'»  |>ensavo  diffidente.  Ma  l'amico  oli  poi>e  il  denaio 
con  un  gesto  hrusco. 

l/allio  lo  intascò  affeltanilo  noncuranza. 

—  A  rivederla,  signor  Stanga.  Lei  è  un  giovane  assestato.  Ci  ho 
una  bella  camera  per  lei,  al  quarto  piano,  se  vuol  discendere.  Ah,  lei 
è  un  amico  prezioso.  Se  il  (Irastino  favesse  conosciuto  prima...  sua 
sorella... 

—  A  rivederla  -  l'interruppi,  indo\inan(lo  dove  parava. 

—  Si,  sì.  lei  è  un  giovane...  -  richiuse  l'uscio  dietro  di  sé.  mor- 
morando lungo  il  corridoio. 

—  L'hai  trovato  li,  colui  che  ti  darà  un  impiego!  -  esclamai  a 
(;rastino.  -  Non  accetterei  neanche  un  bicchier  d'acqua!  Immagini  clic 
possa  rendere  un  ser\igio  a  qualcuno? 

—  È  vero,  ma  a  chi  vuoi  tu  clie  mi  rivolga"^ 

—  A  chiunque,  tuoi-  ciie  a  i[uello  li...  Non  ti  pare  che  la  laidezza 
sia  una  cosa  l)en  misteriosa"?  -  continuai,  es])rimendo  le  ritlessioni  che 
mi  suggeriva  sem|)re  la  vista  irritante  di  quell'uomo.  -  L'no  ti  s'affac- 
cia per  la  prima  volta  e  tu  iiai  qualcosa  che  ti  avverte  subito  die 
([uegli  è  nocivo:  egli  è  laido.  Hai  notato  come  i  bambini  non  sono  mai 
brutti,  fuorché  quando  nidrono  un  progetto  crudele?  Cosi  gli  uomini 
buoni  non  sono  mai  brutti...  I  segni  del  dolore  e  i  segni  del  genio 
lamio  sgomento  sulla  faccia  d'un  uomo  :  anche  qui  c'è  del  mistero, 
ma    un    mistero  di  l)ellezza.  Non  ti  pare? 

Ora  vedevo  il  segretario  in  lui'altra  soffitta:  era  seduto  su  un 
letto,  immobile,  le  mani  nelle  tasche  dei  calzoni.  LTna  ragazza  giova- 
nissima, ma  colla  figura  cadente  e  sciupata,  dimenava  le  braccia 
davanti  a  lui,  come  per  respingere  qualcosa  d'invisibile  che  le  si  strin- 
gesse intorno.  Non  udendo  le  voci  traverso  quei  vetri,  mi  |)aie\a 
ch'egli  fosse  un  ragno  schifoso  che  guardasse  con  cupidigia  una  mosca 
<libattersi  nella  sua  tela. 

«  Trovar  cinque  lire  mensili  è  dunque  sì  terribile?  »  riflettei. 

—  Quella  è  la  Salamandra  -  disse  Crastino:  -  credo  che  paghi  pii'i 
degli  altri  per  poter  abitare  qui. 

«  Tre  classi  della  società?  pensai.  In  realtà  ce  n'è  un'altra  :  la 
classe  di  quelli  che  non  mangiano,  non  pagano  pigione,  muoiono 
coidinuamente.  fino  allo  strappo  definitivo  che  li  stacca  dalla  vita...  » 

E  continuai    ad   alta  voce: 

—  Senti.  Io  guadagno  quattro  lire  al  giorno:  non  ho  nulla  che 
fare  con  costoro,  ma  ne  sono  sì  vicino,  ne  soffro  come  se  fossi  dei  loro. 
Ora,  metà  del  mio  salario  può  essere  impiegato  a  benefizio  di  quelli  che 
non  ne  hanno  alcuno.  Come  fare? 

—  Non  serve,  caro  mio  -  rispos'egli  naturalmente  come  se  avesse 
seguito  da  principio  le  mie  ritlessioni:  -  il  tuo  danaro  servirebbe  forse 
a  impedire  a  un  povero  diavolo  di  sloggiare,  da  un  momento  all'altro, 
dalla  soffitta  e  dal  mondo,  ma  le  cose  rimarrel)bero  allo  stesso  piudo: 
soltanto  lascerebbe  a  te  l'illusione  di  aver  fatto  la  tua  parte,  di  cre- 
derti sdebitato  verso  gli  altri... 

—  È  vero.  Ma  il  danaro  può  far  due  cose,  questa  che  tu  dici,  poi 
un'altra:  diffondere  la  verità,  la  scienza,  la  scienza  che  dice:  «  Reco, 
tu,  ricco,  non  sei  felice:  ti  stordisci  e  chiami  questo  la  gioia:  provali 
a  guardar  in  te  stesso:  ci  troverai  tanti  cantucci  inesplorati,  tante 
libie  che  ti  danno  dolore:  perchè?  Sono  le  fibi'e  che  li  legano  agli 
altri,  agli  allri   che  soffrono;   ed  esse  soffrono.   Per  farle   lacere,    per 


fll.l    AMMONITORI       *"  1ii 

sanarle,  bisogna  sanare  il  dolore  altrui  ».  Alloia  si  capila  che  la  fe- 
licità consiste  nella  giustizin.  cioè  nella  tua  rinunzia  libera  a  ([ualcosa. 
che  è  necessario  pei'  il  tuo  vicino.   i/e(|uilil»ii().  rarinonia  e  la  felicità... 

—  Fai  delle  conferenze.  Stanca!  Tutto  questo  è  buono,  ma  ci  vuole 
l'uno  e  l'altro!  Beco  qui  una  gabbia  di  affamati:  dar  loro  da  mangiare 
è  urgente,  da  mangiare,  capisci^  oggi,  subito.  Stasera  commetteranno 
una  viltà,  un  delitto...  Invece  sai  qual' è  la  morale  della  favola"?  Sei 
nato?  Colpa  tua  !  Paga  il  fitto  dell'esistenza.  Ne  in  terra  uè  in  aria 
c'è  posto  per  le  tue  quattr'ossa.  Paga!  Non  hai  soldiV  Ingegnati!...  .Mi  ! 
Sci  un  utopista,  come  me,  caro  amico. 

—  Hai  ragione.  Ti  annoio. 

—  No,  no:  al  contrario.  Come  ti  ammiro!  Dovevi  farti  prete.  Cioè, 
tu  sei  uno  dei  preti  nuovi,  della  religione  nuova... 

Fu  interrotto  da  due  colpi  rapidi  alla  porta. 

—  Avanti,  -  rispose  egli,  avvicinandosi  curioso  all'uscio. 
Rimanemmo  entrambi  interdetti.  Era  una  signorina  sorridente,  ro- 
sea, coi  capelli  lisci,  a  bande,  tino  agli  angoli  degli  occhi. 

—  Oh,  lei  qui  !  -  disse  ella  apjìena  mi  scorse.  -  Lei  è  il  correttore  della 
Società  Editrice... 

—  Si.  signorina,  lo  la  conosco...  Vedi,  -  aggiunsi  rivolgendomi  pie- 
iiiiuoso  a  Ci'astino,  e  sentendo  che  arrossivo  fino  alle  orecchie  -  la  si- 
gnorina dottoressa... 

—  Non  importa,  m'interruppe  ella  con  un  gesto...  E  lei  è  il  si- 
gnor CrastinoV  -  disse  all' amico.  -  Io  conosco  sua  sorella,  le  voglio 
molto  bene.  Oggi  lei  doveva  venire  a  vederla'' 

Il  volto  di  Crastino  si  oscurò: 

—  C'è  qualche  pericolo"?  Le  fanno  l'operazione"?-  proruppe  con  ansia. 

—  No,  nulla  per  ora.  Ma  il  medico  la  tiene  in  osservazione:  non 
vuol  che  abbia  nessun  motivo  di  commuoversi,  vuol  che  si  riposi,  per- 
cliè  l'operazione  è  imminente.  Sua  sorella  è  molto  estenuata  e...  i)o- 
Irebbe  esser  grave... 

Crastino  si  sedette  sul  letto  e  si  strinse  la  fronte  tra  le  mani. 
Ci  fu  un  momento  di  silenzio  lungo. 
-  Lei  va  in  tipografia  domani"?  -  mi  chiese  la  signorina.  -  lo  devo 
passarci  -  aggiunse  guaidandomi  con  intenzione. 
Ebbi  un  brivido. 

—  Signor  Crastino  !  -  cominciò  la  dottoressa  con  la  sua  voce  infan- 
tile. Tutta  la  sua  persona  era  infantile.  Pareva  che  non  dovesse  aver 
coscienza  atfatto  della  gravità  di  quel  che  mi  aveva  fatto  indovinare.  - 
Signor  Crastino!  -  e  gli  pose  la  mano  sugli  occhi,  una  manina  di 
i)imba.  -  Si  faccia  coraggio.  Domani  lei  verrà  a  vederla  :  ci  sarò  an- 
ch' io.  lo  voglio  bene  a  lei,  signor  Crastino.  Ho  letto  le  sue  poesie  e 
le  ammiro.  Lei  può  far  molto:  è  giovane:  ha  un  bel  dono  che  è  dato 
a  pochi,  e  deve  tenerne  buon  conto...  Domani  lei  può  venire  verso  le 
(lue  del  pomeriggio.  Verrà  anche  lei,  signore  -  disse  rivolgendosi  a  me. 

Parlava  in  fretta,  di  seguito,  premurosa  di  andarsene. 

Crastino  s'era  acquietato  e  la  guardava  con  gli  occhi  atoni,  come 
attendesse  ad  altro:  ella  ne  ])areva  preoccupata  e  lo  esaminava,  menile 
proseguiva,  come  per  rompere  la  dolorosa  impressione  ch'ella  ci  aveva 
pollata: 

—  lo  conosco  queste  soffitte.  Ho  fatto  una  statistica  sulle  abita- 
zioni operaie,  l'anno  scorso:  poi  parecchi  di  questi  bimbi  vengono  al 
Pane  quotidiano. 


Itì  s        liM    AMMONITOIU 

—  Vfiiiiiiciilf  (lucstc  11011  sono  al)ilazioiii  (»|)tTai('.  signorina-  a^;- 
«iun^i  io  ()i()ritanieiite,  arrossendo  (li  nuovo  e  luoleslalo  dalla  mia  tinii- 
dilà.  -  Sono  nidi  da  gufi  per  gente  che  non  lavora  e  non  mangia.  Su 
conto  inquilini  o  poco  meno,  venti  soli  lavorano:  gli  altri  succliiano 
il  sangue  di  questi  :  le  mogli  e  i  figli.  E  le  famiglie  dove  l'uomo  non 
lavora  e  si  ubriaca,  o  è  assente,  o  è  morto,  mangiano  la  neve  dei  tetti, 
che  non  hanno  altro...  Solo  io  e  Cimiiiin  siamo  senza  famiglia...  e  (ba- 
stino pei  momento... 

Questi  si  mosse  udendo  il  suo  nome:  mi  guardò  con  un  profondo 
scoramento,  e  volto  verso  la  signorina,  forse  per  una  specie  di  rancore, 
vedendola  tutta  un  mite  sorriso,  un  mite  fiore  di  giardino  al  sole,  mor- 
morò fra  i  denti  : 

—  La  vita  è  una  cosa  malvagia. 

—  Si,  -  diss'ella  semplicemente.  -  Bisogna  mutarla! 

—  Bisogna... 

E  le  liraccia  di  lui  si  levarono  rigide  in  atto  di  violenza...  Ma  si 
rilassarono  subito.  Gli  occhi  gli  si  riempirono  di  lagrime. 

—  Bisogna  finirla!  Ed  appoggiò  un  braccio  al  muro  e  vi  premè 
la  testa  singhiozzando. 

—  Poveio  fanciullo  -  disse  ella  con  voce  commossa  e  cantante, 
chinandosi  a  guardare  dei  libri  logori  su  un  cassettone.  -  Povero  fan- 
ciullo, che  è  nato  per  cantare  e  per  far  della  musica  come  gli  usignuoli, 
nato  per  godere  il  sole  e  gli  alberi  fioriti  della  primavera,  nato  per 
sentirsi  padrone  dell'aria,  e  del  giorno,  e  rinchiuso  qui  colle  ali  le- 
gate. Povero  fanciullo! 

La  voce  era  tenerissima  e  pareva  cantare  per  non  spezzarsi  d'emo- 
zione; e  le  sue  mani  e  i  suoi  occhi  passavano  da  libro  a  libro,  come 
se  non  sostenesse  di  guardare  e  di  essere  guardata.  Anch'io  sentivo 
una  strana  soggezione.  Sentivo  qualcosa  di  vibrante  sospeso  nell'aria 
fra  noi.  E  non  mi  pareva  di  esser  estraneo  fra  lor  due,  fra  l'addolo- 
rato e  la  consolatrice,  che  non  mi  sembravano  più  due  individui,  ma 
da  una  parte  l'uomo  che  si  crede  re  della  vita  e  se  ne  sente  lo  zim- 
bello, e  la  donna  dall'altra,  che  vede  la  vita  qnal'è,  frenando  gli  slanci 
imi)rudenti,  sollevando  gli  abbattimenti,  immagine  della  vita  stessa, 
che  è  buona. 

E  con  un  tono  di  risoluzione  : 

—  Su,  infine.  Non  siate  tanto  debole.  Domani  verrete  da  vostra 
sorella.  Addio.  Datemi  la  mano,  su... 

Gli  prese  la  mano  e  la  strinse,  poi  si  volse  per  partire. 

—  L'accompagno  fin  sulla  strada;?  -  chiesi  io  in  fretta. 

—  No.  Gì  sono  avvezza.  A  rivederla  -  aggiunse  guardandomi. 
Richiusi  l'uscio.  Clrastino  s'era  seduto  sul  letto  e  aveva  la  faccia 

nel  cuscino.  Io  guardai  dalla  finestra.  Sul  pianerottolo  un  vocio:  «  Si- 
gnorina Lavriano,  signorina  Lavriano  !  »  11  ragazzo  dalle  orecchie  ad 
ansa  le  correva  dietro  zoppicando. 

—  A  proposito.  Sai  chi  è  .'  -  dissi  a  Crastino.  -  È  la  figlia  del  grande 
psicologo,  la  dottoressa  Eva. 

Egli  non  si  mosse,  come  se  non  avesse  inteso,  lo  ascoltai  le  voci 
scendere  dietro  la  signorina.  Comparve  in  basso,  traversò  il  cortile 
seguita  da  un  nugolo  di  bimbi.  On  fiore  di  sole.  E  pensai  che  la  donna 
sanerà  la  società  inferma. 


(il,!    AMMOMTf)Rl  17 


IH. 

11  giorno  dopo,  seduto  nel  gabhiolto  dei  correttori,  lavoravo  di- 
stialto.  Nulla  di  peggio  !  I  refusi  passano  davanti  agli  occhi  lungo  le 
linee  fitte.  Glie  tormento  i  refusi  !  Io  li  sogno  di  notte.  Nel  principio 
(lell'assopiniento  i  caratteri,  nitidi  sul  bianco,  mi  scorrono  dinanzi, 
con  lo  stesso  moto  irresistibile  di  un  viale  (falberi  o  d'una  serie  di 
solchi  interminabili  davanti  allo  sportello  d"un  vagone,  che  vi  porta 
fatalmente,  senza  che  la  vostra  volontà  possa  farlo  rallentare  o  sostare. 
Quando  si  scorrono  bozze,  l'occhio  e  perfino  la  testa  intorno  al  collo 
prendono  un  molo  regolare  automatico:  mentre  infilzate  un  refuso  sul 
margine  bianco,  l'occhio  e  il  capo  continuano  il  loro  moto  di  pendolo 
e  arrestarlo  è  quasi  un  dolore  tìsico,  un  urto  al  cervello. 

Per  correggere  bisogna  essere  tutt'occhio  :  la  mente  deve  eclissarsi  : 
se  |)ensate  al  senso  intimo  del  periodo,  i  .soldatini  di  piombo  vi  sfug- 
gono affatto  o  vi  nascondono  una  |)arte  del  loro  uniforme  vecchio  o 
rotto  o  irregolai'e.  Talvolta  un  soldato  d'un  altro  corpo  s'è  intruso  fra 
estianei,  un  corazziere  tra  bersaglieri.  (Immagini  tolte  al  militarismo. 
Ne  ho  rimorso). 

Bisogna  passare  in  rassegna  i  caratteri  come  individui  a  sé.  E 
certi  esseri  invisibili  anche;  i  vuoti  cioè.  Bianchi  tra  nero  e  nero,  sono 
entità  di  cui  bisogna  tener  conto,  punti  e  interlinee.  Ma  io  faccio  un 
trattato... 

Fatto  sta,  nondimeno,  che  i  protàni  a  stento  riescono  a  ca|)ire  da 
(|ual  pesante  lavoro  materiale  risulti  il  leggiero  foglio  su  cui  gli  occhi 
atferiano,  come  a  volo,  le  più  delicate  sfumature  di  sentimenti  e  le  idee 
eteree.  Innumerevoli  e  minuscoli  jirismi  di  piombo  formano  le  pagine: 
ima  pagina  pesa  d'ordinario...  da  un  chilo  in  su:  un  giumento  non 
porterebbe  sulla  groppa  tutta  una  laude  di  Gabriele  D'Annunzio. 

Io  diventai  un  pessimissimo  correttore,  lo  leggevo,  cercavo  incon- 
sciamente di  capire,  e  se  il  testo  mi  [)rendeva  la  mano,  andavo  innanzi, 
deponevo  la  penna  e  lasciavo  che  gli  errori  facessero  il  comodo  loro, 
facessero  gazzarra,  sfacciatamente:  sicché  mi  toccava  riprendere  poi 
da  capo,  afTerrando  ben  bene  la  mia  attenzione,  dividendola  cioè  in 
due,  ardua  faccenda,  una  parte  costringendo  a  Itadar  a'  segni  neri, 
l'altra  facendo  tacere  il  più  possibile. 

Quella  mattina  ero  più  (iistratto  del  solito.  (ìuardavo  ad  ogni 
trailo  verso  la  portii.  e  chinando  la  te.sta  sulle  prove,  vedevo  ad  ogni 
momento  l'immagine  della  sorridente,  di  quel  vivente  .sorriso,  che 
entrava  e  guardava  verso  la  gabbia  nel  canto,  ov'era  scritto  in  grande: 
Correttori. 

Ed  ecco  appunto,  di  li  a  poco,  entrare  la  signorina,  dire  una 
parola  ad  im  ragazzo  e  guardar-e  verso  il  nostro  angolo,  volgendomi 
un  saluto,  mentre  il  ragazzo  giungeva  a  me  col  messaggio. 

—  La  signorina  Lavriano  la  desidera  un  momento. 

Mi  mossi  col  batticuore. 

1  compositori  avevano  vòlto  la  testa  dalle  loro  casse  a  ricevere 
quel  sorriso  che  raggiava  dal  vano  della  porta  sotto  la  gran  volta 
vetrata,  fumicosa  e  buia.  Era  vietato  di  entrare,  ma  ella  con  la  sua 
imperturbabile  tranquillità  si  attacciava  all'uscio  e  talvolta  traversava 
le   corsie,  andava  fino  alle  macchine  o  alla  legatoria  per  parlare  con 


18  ril.I    AMMONITORI 

qualche  lapazza.  II  flirettore  sorrideva  anch'egli.  non  senza  iin'occliiala 
(li  rimprovero  verso  quella  gentil  distrazione  che  attirava  tutti  gli 
sguainili  per  un  momento  e  li  rallegrava. 

Mi  trasse  nel  gabinetto  del  direttore  e  mi  disse,  con  un  moto  di 
tristezza  subitanea  che  la  lece  somgliafe  ad  una  bimba  che  stesse  jiei- 
dare  in  pianto: 

—  La  signorina  (Iràstino,  sa'.'  è  in  condizioni  dispei'ate.  Questione 
di  giorni. 

Rimasi  accasciato. 

—  Perciò  è  necessario  -  ripiese  -  di  preparare  fin  da  oggi  il  fratello, 
e  prima  ancora  che  egli  la  veda,  alla  ])ossibilità  della  sua  moite.  Perchè 
la  sorella  che  sa  di  morire  è  capace  di  dirglielo  d'un  colpo,  e  ciò  gli 
potreblie  far  molto  male.  Mio  padre  lo  crede  un  pò"  debole  di  cervello 
e  magari  epilettico...  Lei  non  conosce  le  poesie  del  francese  VerlaineV 
(Tè  molta  affinità  fra  i  due  temperamenti,  salvo  i  costumi  e  l'incoe- 
renza. Crastino  è  un  debole,  condannato  probabilmente  ad  una  ma- 
lattia progressiva  di  esaurimento.  Un'emozione  forte  potrebbe  essergli 
fatale. 

Io  ero  fortemente  colpito  da  quelle  rivelazioni.  Ella  aveva  ripreso 
la  sua  serenità.  La  miseria,  la  malattia,  la  morte  eran  divenute  il  suo 
ambiente  ordinario,  la  sua  atmosfera,  perchè  ella  vi  si  movesse  con 
una  tale  calma  v  Parlava  tenendo  le  mani  incrociate  sul  grembo  come 
una  bimba  che  voglia  darsi  l'aria  di  donnina,  ma  spesso  le  sue  mani 
scappavano  a  toccare  un  oggetto  sul  tavolo,  a  brandire  un  tagliacarte, 
una  penna.  Com'io  la  esaminavo  con  evidente  curiosità  mista  d'am- 
mirazione, ella  restava  qualche  istante  leggermente  interdetta,  poi  sor- 
rideva. 

—  K  di  lui  che  avverrà  do{)o  la  morte  della  soiella'  -ripresi  io.  - 
Non  si  potrà  già  nascondergliela  per  molto  tempo...  E  il  bambino'!?  Non 
potiemo  mica  affidare  un  bambino  a  questo  fanciullo... 

—  Il  bambino  è  morto  -  interruppe  ella  -fortunatamente.  Un  di- 
sgraziato di  meno.  Quanto  a  lui,  ci  penseremo.  Ne  ho  già  parlato  a 
mio  padre:  chi  sa,  nell" insegnamento  o  in  ini  ufficio  d'Opera  pia... 

—  For.se  è  incapace  d'una  qualsiasi  occupazione  continuala.  Co- 
nosce lei  la  sua  infanzia"? 

E  le  raccontai  in  breve  quello  che  avevo  udito  da  lui  il  gioriu) 
prima.  Dalla  Casa  dell'  Infanzia  Abbandonata,  la  Cà  Grmida.  i  due 
orfani  erano  passati  ad  un  Orfanotrofio,  sempre  tenuti  con  molto  ri- 
guardo. Poi  una  donna  li  aveva  ritirati  e  aveva  provvedido  loro  tino 
alla  sua  morte,  avvenuta  due  anni  prima.  Ella  viveva  agiatamente, 
faceva  dar  lezioni  ai  bimbi,  creduti  suoi  figli:  ma  alla  sua  morte  non 
aveva  lasci.ato  nulla  affatto.  Con  la  vendita  dei  mobili,  gli  orfani  ave- 
vano vissuto  un  anno.  Poi  la  Lena  s'era  messa  a  lavorar  di  ricamo 
e  di  cucito,  il  che  le  rendeva  qualcosa.  Avevano  continuato  così  ali  ri 
due  anni. 

—  Quanto  alla  loro  nascita  non  sanno  nulla  essi'.' 

—  Nulla  affatto:  la  donna  pare  che  avesse  detto  che  il  figlio  do- 
vesse la  vita  ad  un  illustre  ])ersonaggio,  morto  or  son  poclii  aiuii.  clic 
bazzicava  sovente  in  via  San  Donato. 

—  Ah!  -  fece  lei.  -  Può  darsi.  Ne  hanno  seminalo  in  tutta  la  jiro- 
vincia...  —  E  i  suoi  occhi  ebbero  una  punta  d'ira. 

Tacque  un  momento,  come  riflettendo,  poi  depose  il  tagliacarte 


GI,I   AMMONITORI  19 

([liei  punto  il  mezzogiorno  era  scoccato.  Ella  rimase  tacita  un  istante, 
come  ascoltando  piena  di  stupore. 

lo  sorrisi.  Allo  .scocco  del  mezzodì  le  macchine  s'ariestaiio  come 
per  incanto  e  il  silenzio  che  ne  segue  reca  un  hreve  intontimento  anche 
ai  più  assuefatti. 

E  subito  nel  coiridoio  un  rimescolìo  di  voci  e  di  passi.  Donne  e 
uomini,  giovani  in  gran  i>arte.  vi  si  ingolfarono  e  ciascuno  dava  una 
occhiata  curiosa  per  la  porta  aperta. 

Ella  mi  porse  la  mano. 

—  Verrà  anche  lei  oggi?  Vada  a  jiigiiarlo  a  casa,  e  non  lo  abbandoni 
in  questi  giorni. 

—  Non  dubiti,  signorina. 
E  si  inoltrò  nella  folla. 

Afferrai  le  mie  bozze  e  corsi  verso  casa. 

Ingollando  prestamente  un  boccon  di  colazione,  non  riuscivo  a 
fìs.sar  la  mente  sulle  pagine  che  tenevo  innanzi,  secondo  il  mio  uso 
di  intrattenermi  con  ([ualche  libro  o  giornale  dinante  l'antipatica 
faccenda  di  rifornire  la  macchina...  Mi  preoccuiiava  il  pensiero  del 
povero  amico,  e  .sopratutto  rimmagine  della  sorella.  Le  sue  fattezze 
fine,  animate  di  grandi  occhi,  mi  erano  stampate  nella  memoria.  Non 
mi  ricordavo  di  averla  veduta  più  che  una  volta,  ma  certamente  l'avevo 
rasentata  più  volte  salendo  o  scendendo  le  scale  a  salti  come  facevo, 
lincantucciata  su  un  pianerottolo  ad  aspettar  che  passasse  la  va- 
langa dei  miei  passi  giganti.  Dovevo  sembrarle  uno  strano  animale, 
un  di  quei  ragni  magri  del  granturco,  d'autunno.  Fatto  è  che  ora 
la  vedevo  nitidamente  e  non  come  una  persona  estranea:  mi  pareva 
che  anche  allora,  (luando  dovevo  esserle  passato  vicino  senza  osser- 
varla, qualcosa  fosse  entrato  in  me,  forse  .soltanto  un  alito  della  sua 
atmosfera.  Non  è  così?  Ognuno  di  noi  ha  intorno  un'atmosfera  propria, 
come  le  stelle.  * 

Quando  bussai  al  n.  30,  (Irastino  attese  un  momento  prima  d'a- 
prirmi, non  senza  cagionarmi  ansietà:  aveva  la  taccia  stanchissima  e 
pallida  e  gli  occhi  rossi.  (ìli  chiesi  se  aveva  mangiato.  Mi  rispose: 

—  Credo. 

Non  potei  far  a  meno  di  sorridere.  Avevo  portato  meco  due  ova 
crude  e  lo  pregai  di  berle,  il  che  fece  docilmente  e  con   indiffeienza. 

—  Vuoi  che  andiamo?  -  dissi. 

—  Come  vuoi.  È  già  tempo? 

E  si  guardò  in  un  pezzo  di  specchio  sostenuto  sul  muio  da  Ire 
chiodi:  si  dette  un  colpo  ai  capelli  colla  mano: 

—  Come  sono  pallido!  Sono  mortuario... 

—  Perchè  non  sai  faiti  coraggio.  Bella  faccia  che  porti  (Jiiianzi  a 
tua  sorella  ! 

Afferi'ai  la  spazzola  e  gli  pulii  il  pastrano  pieno  di  polvere:  gli 
porsi  il  cappello.  Egli  si  rigirava  intorno  come  se  dovesse  cercar  molte 
cose  da  portar  seco.  Prese  un  libro  e  fece  ])er  uscire.  Poi  si  rivolse  e 
alzò  la  tenda:  c'erano  alcune  sottane  appese  al  muro  e  un  lettino  li- 
piegato  :  mise  le  mani  in  un  piccolo  baule:  brancicò  non  so  che: 

—  Non  avrà  bisogno  di  qualcosa?  (Ihe  devo  portarle  delle  cose 
sue,  qui? 

lo  lo  afferrai  per  un  braccio  e  lo  spinsi  fuori.  I  coriidoi  erano  de- 
serti e  silenziosi.  A  un  tratto  scoppiò  un  pianto  fortissimo  di  doiuui. 
Mi  volsi  indiclro;  lulli  gli  usci  ciano  cliiiisi :  (lo\('\a    venir  dal  fondo. 


':2()  (il.l    AMMONITom 

-  I']  la  Hiondiiia  ilei  4()  -  disse  (aastiiio.  -  Le  è  morii)  il  liaiiihiiii» 
ieispia:  lei  è  a  letto,  assistita  dalla  moglie  dell"  iibiiaco,  e  il  hinilio 
nella  culletta:  un'ora  fa  dormivano  tutti  due:  sì.  pareva  etie  dormis- 
sero tutti  e  due.  Va"  a  vederla. 

Mi  ricoitlai.  Era  l'inquilina  deirultima  softitta.  una  eantarina  bionda 
di  17  anni,  sarta:  sul  rullio  della  macehina  a  cucire  la  sua  voce  in- 
stancabile finiva  per  dai'  noia  a  chi  doveva  sentirla  a  lung:o  :  a  me  che 
facevo  rare  appai-izioni  di  giorno,  faceva  1'  effetto  d'  uno  si)razzo  di 
sole.  Un  giorno  la  ragazza  aveva  messo  al  mondo  un  bimbo:  di  chi  ".' 
Nessuno  lo  sapeva.  Lo  portava  in  braccio,  seminudo,  per  tutta  la  casa, 
continuamente:  entrambi  con  una  faccia  tondeggiante,  bianca  e  rosa, 
ella  pareva  la  sorella  maggiore  del  suo  bimbo.  Una  signora  del  piano 
infeiiore,  che  aveva  avuto,  pochi  giorni  dopo,  una  bambina  troppo  af- 
famata, la  mandava  sojìra  a  finir  di  pascere,  e  io  avevo  veduto  una 
volta  la  ragazza  con  due  batuffoli  rosei  in  braccio,  baloccandosi  :  do- 
veva divertirsi  lui  mondo. 

—  Non  abbiamo  tempo  -  dissi  a  Grastino.  -  Povera  ragazza  I  Ma 
d'altra  parte  non  è  meglio  così"?  Per  lei  no,  forse,  ma  per  il  bimbo... 

Scendemmo.  11  tiscliiettio  di  Cimisin  trillava  a  tutTandare  al  bat- 
tito del  martello.  Ai  pianti  di  donna  e  alle  bestemmie  degli  ubriachi, 
da  tanti  anni,  l'allegria  di  quel  pazzo  innocuo  si  mescolava  senza  riposo. 

Non  ricordo  molto  di  ([uella  visita.  Ricordo  un  viso  bianco,  ca- 
pelli neri  umidi  e  appiccicati  alle  tenijiie:  le  fattezze  parevano  di  marmo. 
A  un  certo  momento  due  grandi  occhi  s'aj)rirono  e  le  labbra  bianche 
sorrisero,  dosi  la  vidi  sempre  di  poi,  così  mi  sorge  ora  negli  occhi, 
un  volto  d'alabastro,  come  tras]iarente  per  un  lume  nascosto.  Disse 
qualche  parola,  tiochissima  ;  eia  così  stanca  !  Ma  gli  occhi  erano  pro- 
fondi, intensi,  volevano  signitìcare  quello  che  non  potevano  dire  le 
lal)bra:  passavano  da  Vigi  a  me,  come  se  volessero  intessere  intorno 
a  noi  una  misteriosa  trama  che  ci  unisse  per  sempre. 

Intorno  erano  altri  letti  bianchi,  altre  teste  esangui,  altri  occhi  che 
ci  guardavano.  E  il  sole  era  stranamente  puro  e  dolce  in  quell'  aria 
uguale  e  tepida. 

La  dottoressa  venne  |)er  condurci  via.  Si  sedette  un  iiioiuento, 
prese  la  mano  dell'inferma  e  cominciò  a  paiiare,  come  jier  cullarla, 
con  parole  carezzevoli,  le  parole  dell'illusione  per  la  moribonda  e  per 
il  povero  hatello,  ciie  non  si  sarebbero  veduti  mai  più. 

Poi  ci  guidò  tino  alla  porta.  In  tutto  ((uel  tem|)o  Crastino  rimase 
stranamente  calmo. 


IV. 

Tornando  dall'ospizio  in  Iranvia,  il  Iragilto  fu  silenzio.'^o.  Egli  era 
mollo  accasciato,  (iiunti  in  piazza  dello  Statuto  scendemmo,  lo  volevo 
trarlo  lontano  da  casa.  Entrammo  nello  stradale  di  Francia. 

—  Facciamo  due  passi"?  -  proposi.  -  lo  ho  vacanza  oggi. 

—  Come  vuoi. 

Camminammo  un  buon  tratto  in  silenzio.  I  prati  erano  velhrtati 
di  bianco.  La  neve  prendeva  una  leggei-issima  tinta  azzurra  nella 
lontananza:  gli  alberi  neri  non  par'evano  scarni,  ma  aprivano  conti'o 
il  cielo    dei  ventagli  di  iiiume.    Ouando    fummo  fuori  dell"  aliitato.  le 


01,1    AAr.MOMTORI  Ì\ 

Alpi  si  presentaiono  in  tutta  in  loro  enormità,  dalle  punte  spiccanti 
sul  cielo  niorliido.  ijianclie  e  chiazzate  qua  eia  di  azzurro  denso,  alle 
basi  che  poggiavano  sulla  linea  vaporosa  della  [)ianura.  Cràstino,  che 
camminava  curvo  col  mento  in  seno,  alzò  a  poco  a  poco  la  testa,  e  i 
suoi  occhi  parevano  riscldararsi.  Vicino  a  un  ponticello  si  volse  in- 
dietro come  a  misurar  la  distanza  ]ieicoisa  dopo  le  case,  poi  guardò 
dinanzi  a  sé: 

-  1  monti!  Che  bellezza! 
Ad  un  tratto  la  sua  bocca  si  contrasse,  gli  occhi  si  empirono  di 
lagrime.  Fece  uno  sforzo  grande  e  liprese  con  voce  natnrale: 

—  Ti  darò  a  leggere  i  miei  versi.  Ne  ho  dei  nuovi  anche.  Ma  da 
un  po'  di  tempo  non  posso  più  comporre.  La  poesia  nasce  adesso  in 
me:  quando  sarò  meno  infelice,  me  ne  ricorderò  e  scriverò.  Adesso, 
ecco,  se  fossi  solo,  piangerei.  La  notte,  il  sole,  la  neve  mi  fanno  sempre 
piangere,  lo  sono  sempre  solo. 

Si  avviluppò  nel  pastrano  e  prese  a  camminare  più  rapidamente. 

—  Ho  freddo.  Non  hai  freddo  tu"?  Io  patisco  molto  il  freddo:  per 
(piesto  Testate  è  la  mia  stagione:  proprio  nel  meriggio  io  cammino 
per  la  campagna  delle  ore  intere.  Credo  che  morirò  di  freddo. 

—  Via!  Fai  conto  di  proseguire  nella  vita  irregolare  che  hai  tenuto 
li  noia"?  Lavorerai:  avrai  un  imi»iego,  e  nelle  ore  libere  farai  dei  versi. 

—  Hai  ragione.  Lavorerò  e  non  farò  più  dei  versi...  Devo  pensare 
a  mia  sorella  adesso. 

L'immagine  della  morente  mi  si  i-ipresentò,  dandomi  una  commo- 
zione violenta. 

Una  figura  umana  tutta  curva  e  affastellata  sotto  un  gran  ca])pello 
logoro  dalle  tese  pendenti  \  eniva  verso  di  n(ji.  Quando  fu  a  pochi  passi, 
scorgemmo  un  vecchio  appoggiato  a  un  bastone  nodoso,  con  tre  giacche 
logore  indossate  Funa  sull'altra  e  il  petto  aiierto  rugoso  e  rosso:  si 
fermò  e  ci  guardò  con  due  piccoli  occhi  azzurri  :  tra  la  bocca  ispida  e  il 
cappellaccio  non  si  scorgeva  altro  della  faccia.  Gli  porsi  una  moneta: 

—  Grazie.   Ora  prò  e/s.' 
S'incamminò,  poi  si  rivolse: 

—  Sentite,  giovinotti:  laggiù  c'èil  Re:  adesso  passerà  sullaniacchina. 
l'roseguinimo  la  passeggiata  : 

—  Hai  sentito"?  -  diss'  io.  -  Laggiù  c'è  il  Re.  Che  sia  andato  a  Rivoli 
in  automobile"? 

—  Il  re!...  C'era  un  re,  -  rispose  con  la  sua  ai'ia  di  trasognato  -  un 
re!...  Ami  le  leggende?  lo  ne  sapevo  tante.  Mia  madre...  mia  zia,  via!, 
(piella  che  ti  ho  detto  che  ci  teneva  con  sé,  ne  sapeva  d'ogni  colore. 

—  Anch'io  ne  sapevo  molte.  Andavo  nella  stalla,  d'inverno.  Dopo 
il  rosario  e  i  paternoster  a  tutti  i  santi  che  ci  lil)erino  diit  feii.  ila  la 
losiia  e  dal  troiai  (t),  mia  nonna  ne  contava  delle  interminabili.  Kra  del 
tempo  di  Napoleone:  jiiegata  in  due  dalla  sciatica,  sembrava  una  po- 
vera bestia  supplichevole.  Foi,  sull'aia  della  fornace,  piena  di  sole, 
io  cantavo  coi  liamliini: 

Andouma  a  Ronma 
A  coumpré  una  eouroiifia, 
'uà  couroiifia  par  im  Re. 
Giiirapapé  (2). 

(1)  «  Dal    fuoco,  dal  fuliuiue,  dal  tuono  ». 

(2)  ■•  Andiamo  a  Roma,  a  comprare  una  corona,  una  corona  ppr  un  re,  ijiu- 
rapapè!   »   Cantileua  di  ragazzi  piemontesi. 


22  (ÌLI    AMMONTTOKI 

Volevo  farlo  ralk'firiire. 

[1  soie  eadeva  dictio  i  monti  e  il  cielo  su  di  e!«si  era  diveimlo  roseo. 
lia^tiiCi  appunto,  di  là  dai  monti,  eia  forse  il  i>aese  delle  lejjiicnde. 
(  ;rast  ino  disse  : 

—  Eppui'e  sono  esse,  le  leggende,  elie  ci  fanno  inabili  a  vivere,  lo, 
per  esempio,  |)enso  sempre  a  Nausica.  alle  sibille,  ai  Nibelunghi,  a 
Bruto  magari:  e  più  ancora  alla  madonna,  a  Santa  Teresa,  a  San  Fran- 
cesco d'Assisi...  Tutto  questo  ini  ha  fatto  dimenticare  che  mia  sorella 
lavorava  per  me,  che  un  bel  giovane  può  i)assare  |)er  la  strada  e  farle 
delle  proposte,  e  che  l'amore  conduce  all'ospedale... 

Si  tirò  su  il  bavero  e  affondò  le  inani  nelle  tasche: 

—  lo  penso  alla  biondina  del  n.  H).  Che  diverrà"^?  Mi  pare  perlino 
che  l'amerei.  Sciocco!  Intanto  non  mi  ha  mai  neanche  guardato... 
Kppuie  qualche  anno  fa  le  donne  mi  guardavano  con  certi  occhi!  Non 
hai  mai  amato  tu"? 

—  lo  no.  Non  ci  ho  mai  pensato,  o  quasi. 

—  lo  non  lo  so.  Ma  credo  che  non  ho  mai  amato.  Mi  ha  sempre 
disgustato.  È  vero  che  non  ho  mai  incontrato  una  donna  sopra  la 
mia  condizione.  Ma  credo  che  una  donna  \iva  non  potrei  amarla, 
lo  amerei  la  princijjessa  di  Tri])oli,  per  esempio,  ossia  Elisabetta 
d'Austria. 

Una  forma  nera  in  mezzo  alla  strada,  lontanissima,  ingrossava 
rapidamente  avvicinandosi.  L'automobile  del  Re'!  In  brevissimo  tempo 
fu  accanto  a  noi  e  passò.  Due  ciclisti  lo  seguivano.  Mi  pareva  avere 
scorto  la  fisionomia  del  re,  giovane  e  ardita.  Guardammo  indietro 
seguendolo  coH'occhio. 

Una  piccolissima  figura  nera,  il  mendicante,  era  ferma  in  mezzo 
alla  strada:  s'vidì  la  tromba:  il  mendicante  si  scostò.  Avevamo  avuto 
un  momento  d'ansia. 

—  Se  l'avesse  travolto''  -  disse  Crastino. 

—  Orribile  ! 

—  Per  entrambi  -  aggiunse  egli  dopo  un  silenzio. 

—  Infatti...  -  risposi,  e  non  proseguii. 

E  c'immergemmo  in  un  jiensiero  che  ci  dava  i  brividi. 

Tornammo  che  i  fanali  erano  già  accesi.  Lo  condussi  alle  Cucine, 
presso  casa:  entrava  per  la  prima  volta  in  un  ambiente  simile.  Se- 
demmo ad  un  posto  libero. 

11  luogo  era  pieno  di  strepito  e  d'un  vapore  nauseabondo.  Io  man- 
giai, secondo  l'abitudine,  in  gran  fretta  e  macchinalmente:  l'amico 
provò  a  trangugiare  qualche  boccone,  ma  la  gola  gli  si  chiudeva  e 
gli  occhi  gli  s'empievano  di  lacrime.  Alla  sua  destra  un  grosso  uomo 
appoggiava  al  tavolo  due  enormi  braccia  che  sostenevano  un  testone 
bovino:  egli  metteva  in  moto  due  grosse  ganasce.  In  faccia  a  questo, 
la  Salamandra  mangiava  svogliata,  versandosi  di  frequente  un  vino 
nero  e  denso  :  gettandogli  qualche  parola  e  voltandosi  a  sorridere  in- 
torno con  aria  di  civetteria. 

—  Non  sei  mai  venuto  qui  .'  -  domandai  a  Crastino. 

—  No.  Mi  fa  nausea. 

—  Ma  si  paga  poco.  D'altronde  potresti  mandar  a  prenderti  da 
mangiare  pei-  mezzo  d'un  ragazzo. 

Volevo  cosi  insegnargli  a  vivere  da  solo. 

Lo  accompagnai  tino  alla  sua  stanza  e  gli  diedi  la  buona  iiollc 


Seduto  al  mio  tavolo  sotto  la  lampada  a  [H-tiolio  uhe  aveva  as- 
sistito alle  mie  \ef>iie  sui  C('»mpiti  di  scuola,  alle  mie  lotte  conilo  i 
refusi,  alle  mie  divagazioni  lantasticlie  sopra  i  periodi  clie  più  affer- 
ravano la  mia  intelligenza,  mi  provai  a  fìggere  gli  occhi  sul  Wundt 
the  avevo  portato  dalla  tipogratia.  E  tosto  Timmagine  di  Lena  mi  si 
affacciò  :  mi  guardaA'a  con  gli  occhi  supplichevoli,  quasi  imperativi  : 
mi  pareva  che  m'imponesse  con  una  dolce  forza  il  pensiero  costante 
che  aveva  animato  la  sua  vita  per  quello  strano  fanciullo  che  da  due 
giorni  mi  era  divenuto  fratello.  Un  passo  pesante  nel  corridoio,  ac- 
cDuqìaguato  da  urti  contro  le  pareti  e  da  spergiuri,  interruppe  le  mie 
ritlessioni  :  Tubriaco  aveva  fatto  il  lunedi.  Un  uscio  s'aperse;  poi 
un  tonfo,  e  non  sentii  piìi  nulla  :  quella  sera  non  avrebbe  più  avuto 
la  forza  di  picchiare  la  moglie... 

Ripresi  a  scorrere  le  mie  bozze:  inutilmente.  Non  potevo  fermare 
la  mia  attenzione  ;  forse  d'ora  innanzi  queste  cose,  l'ufticio,  la  scuola, 
i  libri,  non  mi  avrebbero  mai  piìi  interessato  come  prima  :  qualcosa 
(li  estraneo  era  subitamente  penetrato  in  me  e  faceva  si  ch'io  non  mi 
sentissi  più  come  prima  affatto  libero  e  solo  :  ne  avevo  a  tratti  una 
punta  di  malessere  che  mi  pareva  fosse  puramente  immaginario  :  in 
fondo  non  avrei  affatto  desiderato  che  non  fosse  avvenuto  così.  .\d  un 
certo  momento  mi  domandai  :  «  Ma  che  faccio  io  nella  vita  '?  »  Fino 
a  quel  momento  dunque  io  non  ra'ei'o  ancora  accorto  di  me  stesso, 
perchè  non  guardavo  che  me  e  nessun  altro:  non  avevo  termini  di 
paragone.  Che  facevo  io"?  Lavoravo,  cioè  vendevo  la  mia  opera  ad 
un  padi'one,  estranei  l'uno  all'altro.  Fortunatamente,  non  amando  il 
padrone  o  i  padroni,  che  non  conoscevo,  né  lo  stipendio  se  non  come 
una  necessità,  amavo  invece  il  mio  lavoro  e  avevo  un  ideale  di  me 
stesso  a  cui  il  mio  lavoro  poteva  condurmi.  E  d'intorno  a  me*  Cor- 
rettori, compositori,  macchinisti,  entravano,  uscivano,  vendevano  mente 
e  mano  a  ore  e  a  tariffa  fissa.  Nessun  amore  al  loro  lavoro,  cioè  alla  loro 
vita,  e  nessun  ideale.  Ciascuno  vedeva  di  continuo  uscir  dalle  sue  mani 
pei-  sempre  e  anonimo  il  lavoro  di  un'ora,  un  frammento,  e  nessuno 
poteva  dir  mai  di  qualche  cosa  :  «  Quello  l'ho  fatto  io  !  »  Che  cosa 
resterà  loro  alla  tin  della  vita  a  pi-ovare  che  hanno  vissuto  ?  Non  hanno 
vissuto  :  questa  è  la  verità. 

0  forse  in  quella  uniformità  d'azione,  estraneo,  lontano  dal  mo- 
notono affaticarsi  che  li  esaurisce,  qualcosa  esiste,  sorride,  splende? 
Oualcuno  ha  un  piccolo  usignuolo  che  gli  canta  in  cuore  mentre  le 
sue  mani  s'insudiciano  attorno  alle  ruote  '?  E  qui,  intorno,  in  queste 
celle  tra  di  ])rigione  e  di  chiostro,  qualcuno  di  quelli  che  tornano  ogni 
sera  abbrutiti  dallo  sforzo  della  giornata,  si  as.sopisce  in  un  sogno 
sereno  e  un  ritornello  di  canzone  suona  al  ritmo  del  suo  respiro  "? 

Guardai  intorno  la  mia  sottitta  :  non  era  più  sì  fredda,  si  nuda. 
La  lampada  diffondeva  in  essa  una  luce  calma,  dorata,  che  pareva  quasi 
sottilmente  intepidire  l'aria.  0  era  il  senso  d'una  presenza  invisibile"? 
Appoggiai  la  testa  su  ambe  le  mani  e  chiusi  gli  occhi  :  traverso  le 
palpebre  la  luce  mi  riempiva  le  pupille  d'uno  splendore  marmoreo. 
Rimasi  a  lungo  così,  quasi  ascoltando  il  brusìo  nelle  mie  vene  d'un 
tepore  nuovo  e  vibrante.  La  finestra  dietro  il  paralume  era  tutta  az- 
zurra. La  neve  era  azzurra,  il  cielo  quasi  nero  seminato  di  stelle, 
.apersi,  .\nche  la  finestra  di  fronte  era  aperta  e  una  figura  v'era  in 
mezzo,  china  sui  gomiti.  Non  mi  maravigliò  :  non  mi  pareva  infatti 
testé  quasi  d'essermi  sentito  chiamare  1 


24  aiil    AMMONITOKI 

Che   avveniva  in   quella  gran  saia  bianca,  lontano.'  Rabbrividii. 

Ma  un'altra  finestra  laggiù  neirangolo,  1" ultima,  era  illuminata: 
vi  si  vedevano  due  candele,  e  un  gemito  uguale  ne  usciva,  tranquillo 
come  se  perdurasse  nel  sonno.  Un'ombra  di  donna  anche  vi  si  moveva, 
alcuno  vegliava  il  morticino,  forse  la  moglie  dell'ubbriaco...  Il  silenzio 
era  intinito.  Le  stelle  jiaiiìitavano,  il  cielo  non  pareva  una  volta  eui)a, 
ma  lo  spazio  senza  limite  in  cui  stavano  sospese  nel  lor  molo  iin- 
percettibile  quelle  \ite  luminose.  In  teira  eia  lutto  bianco:  tetti  senza 
fine,  e  in  fondo  il  profilo  delle  Alpi  :  esse  jiaievano  inerti  e  morte. 
La  vita  era  qui,  intorno  a  ine,  su  queste  altezze  tese  verso  il  cielo  : 
la  vita  e  la  morte. 

Lungo  le  scale  un  passo  saliva  e  una  luce  si  proiettò  sul  piane- 
rottolo, scomparve  nel  corridoio.  Dopo  un  po',  lo  sentii  tornare,  più 
pesante  e  cauto  ;  vidi  vacillare  su  la  parete  lungo  la  scala  il  profilo 
d'un  uomo  con  ispalla  un  oggetto  oblungo  :  discendeva.  Nella  softifta 
d'angolo  le  candele  si  mossero,  l'ombra  della  donna  si  disegnò  un 
momento  sui  vefr'i  :  poi  si  spenseio.  Il  giMiiito  continuava  uguale  nel 
sonno. 

—  Crastino!  -  chiesi  verso  la  finestra  dirimpetto,  pianissimo,  come 
temendo  di  svegliare  quel  gemito.  Egli  si  mosse,  accennò  con  la  mano 
alla  finestra  ora  buia  e  si  ritrasse. 

Tre  giorni  dopo  lui  chiamato  nella  sala  d"  ingresso  della  ti|)ogratia. 
Mi  attendeva  un  signoie  alto,  biondo,  che  avevo  già  veduto  nel  labo- 
ratorio. Infatti  egli  rivedeva  delle  bozze.  Riconobbi  il  primo  foglio  di 
un'opera  che  passava  ora  sotto  le  mie  mani. 

—  Senta  -  incominciò  egli  guaidandomi  con  due  occhi  azzurro- 
chiari.  -  La  dottoressa  l^avriano  m"  incarica  di  informarla  die  la  sorella 
del  suo  amico  è  morta  iersera... 

Quantunque  fossi  preparato  alla  notizia,  ne  rimasi  costernato:  egli 
lo  vide  e  i  suoi  occhi  tranquilli  si  velarono  leggermente: 

—  La  dottoressa  è  andata  stamani  a  trovare  il  suo  amico  :  intanfo 
vuol  eh'  io  avverta  lei,  perchè  l'assista  questa  notte,  che  può  essere 
terribile  per  lui,  un  po'  ammalato,  a  quanto  mi  si  dice... 

lo  non  seppi  rispondere  parola.  Egli  proseguì: 

—  È  morta  d'emorragìa.  Se  fosse  venuta  all'ospizio  subito...  Invece 
ha  creduto  poter  superare  la  crisi  da  sola.  Quando  ce  l'ha  portata  la 
dottoressa  Lavriano,  era  già  tardi:  aveva  già  dei  guasti  interni  cui 
non  si  potè  rimediare... 

Diede  un'occhiata  alle  sue  bozze,  poi  si  decise  a  posar  la  penna 
e  volgendosi  tutto  a  me,  mi  chiese  : 

—  Il  suo  fratello,  che  tipo  è"? 

—  Oh,  un  bravo  giovine!  -  m'affictiai  a  rispondere.  -  Probabil- 
mente non  ha  sa))uto  nulla  di  nulla.  V]  un  poeta.  Ha  scritto  Tristiu. 

—  La  rimproverava,  che  lei  sappia"? 

—  Non  credo.  Soltanto,  ella  doveva  averne  soggezione,  da  quel 
che  posso  iunnaginarmi.  Doveva  poi  temere  enormemente  di  addolo- 
rarlo. Credo  che  gli  facesse  un  ;h)'  da  madre... 

—  Ah,  le  parti  s'erano  in\ertite!  Lui,  ceito.  non  sapeva  pioteg- 
gerla.  Lì  sta  il  male. 

—  Lo  crede  colpevole';' 

—  Non  posso  giudicarne.  Ad  ogni  modo,  tutti  gli  uomini  sono  col- 
pevoli in  complesso,  se  non  della  motte  dei   neonati  (i|uelli,  pazienza!) 


CilJ    AMMONITORI  29 

certo  della  morte  delle  madri;  non  sono  soltanto  indirettamente  respon- 
sabili... Ora  lei  legge  il  mio  libro'?  La  signorina  mi  dice  che  lei  ha 
studiato  molto  di  questioni  sociali. 

—  Io"?  -  protestai  contuso,  sentendomi  arrossire.  -  lo  non  ho  stu- 
diato che  le  bozze  che  vo  correggendo  già  da  dieci  anni. 

—  Bene!  Mi  dicono  che  dà  dei  punti  agli  autori,  qualche  volta.  - 
E  sorrise  della  mia  contusione:  nei  suoi  occhi  brillava  un"  ironia  bene- 
vola che  non  mi  cagionava  disagio.  In  i|uel  momento  il  sole  clu'  en- 
trava dalla  finestra  l'aveva  raggiunto  sulla  sua  sedia  e  illuminava  la 
sua  bella  testa  bionda,  dall'alta  fronte  calva,  dai  baffi  radi  spioventi, 
traverso  i  quali  i  denti  brillavano  nel  sorriso  simpatico.  Aveva  qual- 
cosa del  sognatore  e  dell'apostolo;  e  subito  sentii  per  lui  un  segreto 
moto  di  simpatia. 

Egli  si  trasse  indietro  dal  sole  e  riprese  la  penna,  ma  tosto  la 
depose  per  porgermi  la  mano,  lo  la  strinsi  e  tornai  al  mio  gabbiolto. 

11  seguito  delle  sue  bozze  che  avevo  dinanzi  (L'allevamenlo  del- 
l'uomo. V  ediz.)  diceva: 

«  Il  ilovere  primo  e  assoluto  d'una  società  civile  è  di  favorire  e 
sorvegliare  le  nascite.  Tutti  gli  altri  momenti  della  vita  umana  sono 
secondari  vicino  a  questo,  e  in  essi  l' indi \iduo  può  in  diverso  grado 
piovvedere  a  sé  stesso:  qui  due  vite  sono  in  pericolo  e  l'una,  la  più 
indifesa,  comincia  appena,  e  guai  se  comincia  male! 

«  Invece  oggi  la  nascita  è  lasciata  al  caso.  La  procreazione,  ch'èin 
fondo  il  solo  fine  visibile  della  vita,  viene  dall'uomo  considerata  come 
la  s|)iacevole  conseguenza  d'un  atto  di  piacere  egoistico,  dalla  donna 
ora  una  sofferenza  senza  compenso,  oia  una  condanna,  una  diminu- 
zione del  suo  essere,  tuffai  più  una  funzione  semplicemente  animale. 

«  Una  gran  parte  di  coloro  che  sentono  in  sé  inquietudine,  squi- 
librio tisico,  difetti  od  eccessi,  germi  di  male,  di  pazzia,  di  delitto, 
possono  rintracciarne  la  causa  nella  nascita.  Chi  ne  ha  la  colpa"?  Di 
rado  la  madie,  spesso  il  padre,  sempre  la  società...  » 

Quando  fui  libero  dal  mio  lavoro  m'affrettai  verso  casa.  Crastino, 
nel  suo  letto,  aveva  un  febbrone.  Deliiava.  Minca.  la  moglie  dell'ubriaco, 
lo  assisteva,  colla  sua  faccia  patita  e  la  persona  lunga  e  magra:  gli 
umettava  le  labbra  ardenti  e  cercava  di  farlo  rimanere  quieto  e  coperto. 
Non  mi  riconobbe,  e  rimasi  lunghe  ore  accanto  al  letto,  mezzo  intor- 
ui(lit(j  e  colla  testa  ondeggiante  e  vuota. 


V. 

La  febbre  durò  sei  giorni.  Il  medico  era  inquieto  e  la  dottoressa, 
che  venne  i)iù  volte,  temette  seiiamente  che  il  cervello  gli  si  sconvol- 
gesse. Era  divenuto  s]taventosamente  arido  e  secco.  Un  giorno  scorsi 
così  nitidamente  la  forma  del  teschio  sotto  la  sua  barba  rada  che  n'ebbi 
un  istantaneo  ribrezzo. 

Nondimeno  si  risollevò  lentamente.  Pareva  che  si  fosse  dimenti- 
cato d'ogni  co.sa  e  una  dolce  convalescenza  mi  fece  apparire  il  mio 
povero  amico  come  un  fanciullo  nuovo  e  ingenuo,  ignaro  d'ogni  do- 
lore, anche  privo  d'ogni  iiensiero.  come  una  pianta,  un  semplice  es- 
sere di  senso. 

Poi  si  ricordò,  a  spiazzi,  del  passato;  macoli  lieve  dolore.  L'alli- 
vità  del  suo  cervello,  lideshitosi  all' improvviso  con  un  vigor  nuovo. 


26  OLI    A:MJfONITOKI 

lo  elevava  siil)i((),  dai  singoli  casi,  alle  considci a/ioni  j^eiieiali  (hdla 
vita:  essendo  stalo  si  vicino  alla  morte,  diceva  ejili,  non  si  conlava 
[>iù  tra  i  vi\'i  e  i  sofferenti,  pensava  agli  altri  che  soffrivano  e  iniiiia- 
"inava  come  avrebbero  poi nto  non  soffrire,  trovando  ciò,  intine,  molto 
facile,  tanto  viveva  nelT  astratto. 

lo  lo  vedevo  dne  volte  al  giorno.  Era  debolissimo,  talché  ci  volle 
più  (Tiin  mese,  prima  ch'io  potessi  condurlo  a  fare  qnalche  passo  al- 
l'aperto. 

Passammo  così  alcuni  mesi  in  una  intimità  inelTabile:  io  am;ii 
quel  ragazzo  di  genio  come  avrei  amato  una  creatura  mia,  la  mia  donna 
o  mio  tiglio.  La  bellezza  di  quell'essere,  che  sorpas.sava  la  mia  facollà 
d'ammirazione,  che  mi  riempiva  spesso  di  slupore  e  di  riverenza,  (-ome 
dinanzi  a  un  mistero  che  si  nianifesta.sse  in  lui,  mi' affascinava.  La 
ligui'a  divina  eh'  egli  diventava,  quando  i  suoi  occhi  contemplavano 
certi  spettacoli  eterni  di  natura  o  d'umanità,  non  iiu  uscirà  più  dalla 
mente. 

Mi  condusse  a  visitai'e  le  gallerie,  ove  mi  colpi  la  sua  dottrina  e 
la  sua  ammirazione  ragionata  e  istintiva  dei  capolavori.  Lo  affascinava 
il  museo  egiziano,  ov'  egli  passava  ore  intere  a  sognare  in  presenza 
delle  mummie  e  dei  resti  cosi  viventi  e  strani  di  quel  popolo  miste- 
i-ioso.  Diceva  che  gli  Egiziani  dovevano  somigliare  ai  grandi  uccelli  e 
ai  grandi  fiori  delle  acque,  ci-eature  sospese  su  una  linea  d'orizzonte, 
e  sopra,  il  cielo  infinito,  e  sotto,  lo  specchio  del  cielo  infinito:  nul- 
r altro  che  cielo:  perciò  furono  astronomi  e  matematici,  e  |)robabil- 
mente  musici... 

Ma  la  natura  vivente  aveva  potere  di  trasfigurarlo.  Dinanzi  al  pae- 
saggio dilatava  gli  occhi  che  diventavano  luminosi  come  se  concen- 
trassero in  sé  quei  colori  e  quella  luce:  guardavano  così,  al  tramonto, 
il  cielo  grande  che  si  continuava  dentro  lo  specchio  del  Po,  chiuso 
dalle  masse  dei  pioppi:  in  principio  gli  sfuggiva  qualche  monosillabo  : 
ero  ancora  presente  a  lui.  Poi  mi  dimenticava  allatto  :  drizzava  le  sue 
spalle  gracili,  ergeva  il  petto  come  per  levarsi  un'oppressione  e  respi- 
rava a  larghi  sorsi:  non  tornava  a  me  che  all'annerirsi  delle  forme, 
per  ripetermi  con  i-are  frasi,  tirate  fuori  a  stento,  le  sue  solite  tristezze, 
la  sua  inettitudine  ad  un'opera  grande,  la  morte  che  lo  chiamava  con 
voce  sempre  più  insistente. 

Le  piccole  agitazioni  degli  uomini  lo  toccavano  talvolta  jìronta- 
niente  e  vivacemente.  Egli  gironzolava  ])er  la  città,  ruminando  di  con- 
tinuo i  suoi  pensieri  o  «  coiniettendo  a  musaico  »,  com'egli  diceva,  qual- 
che sonetto.  I  moti  soliti  dei  passanti  non  lo  distraevano  punto:  ma 
ogni  più  minuto  incidente  insolito  lo  richiamava  :  e  come  usciva  da 
mi  mondo  di  sogni,  la  cosa  prendeva  un  senso  profondo  e  gli  dava 
subito  cagione  di  risalire  a  idee  generali  o  a  visioni  d'umanità  che  lo 
prendevano  alla  gola:  uso  sempre,  sciupandolo,  il  suo  modo  d'espri- 
mersi. Ricordo  che,  avendolo  incontrato  una  domenica  in  corso  Vittorio 
lutto  in  preda  a'  suoi  pensieri,  non  mi  peritai  di  distramelo,  salutan- 
dolo e  accompagnandomi  con  lui.  Ma  pareva  ch'egli  duiasse  fatica  a 
mantenersi  con  me  nel  mondo  reale.  Ad  un  tratto  una  fanfara  sbocca 
da  un  angolo  di  via  e  parecchie  squadre  di  ragazzi  marciano  dietro 
di  essa. 

I  primi  gonfiavano  le  gote  rosse  sulle  loro  trombe  con  un  misto 
di  letizia  e  di  baldanza:  gli  altri  marciavano  seiii,  ma  baldi  e  lieti 
anch'essi,  come  compresi  della  loio  azione,  che  eia  di  solidarietà  e  di 


GLI   AMMONITORI  27 

Hiinonia,  di  thliicia  verso  l'avvenire.  Egli  li  guardò  passare  con  gli 
occhi  lucidi,  attentissimo,  li  seguì  a  lungo  con  lo  sguardo:  poi  lo  prese 
l'affanno,  aprì  la  bocca  a  respirar  forte  per  non  piangere,  singhiozzò 
dueo  tre  volte,  indi  si  acquetò.  Di  li  a  un  momento:  —  Vedi  !?  -  disse  - 
I  nostri  tigli  quelli...  i  nostri  nipoti!...  Come  sono  belli,  sani!  E  gli 
altri,  i  nostri  fratelli  !  Là,  su  le  soffitte  o  nelle  tane.  I  nostri  fratelli  ! 
Ma  il  mondo  cammina,  caro  Stanga,  domani  camminerà  così,  come 
questi   bimbi...  quando  noi  saremo  sotterra! 

Una  sera  volle  portarmi  ad  ogni  costo  a  vedere  il  Faust.  Fu  per 
entramììi  una  fonte  di  grande  emozione.  Egli  pianse  dal  principio  alla 
tine.  lo  gli  tenevo  una  mano  nella  mia,  premendola  ad  ogni  tratto  for- 
temente quando  temevo  che  scoppiasse  in  singhiozzi  :  ma  il  suo  pianto 
era  piuttosto  calmo.  Eravamo  in  loggione:  egli  appoggiava  la  lesta  sul 
parapetto,  senza  mai  guardare  il  palco:  ed  io  sentivo  con  angoscia 
inesprimibile  ch'egli  faceva  una  tiasposizione  :  ascoltava  la  storia  di 
sua  sorella. 

Ala  io  che  la  musica  occupava  soltanto  ad  intervalli,  poco  avvezzo 
a  lati  spettacoli,  facevo  amare  ritlessioni.  Ecco:  il  pubblico  ama  questi 
quadri:  dei  burattini  ridipinti,  caricature  dell'uomo,  congesti  che  tra- 
discono le  cerniere  nascoste  nelle  giunture,  fanno  grandi  passi,  si  vol- 
tano verso  il  pubblico  ([uando  devono  parlale  coll'amante:  nel  duetti 
i  due  amanti  tanno  perfino  un  mezzo  giro  l'uno  inforno  all'altro  come 
i  giuppi  dei  nuisei  che  hanno  un  perno  sotto  il  [)iedestallo... 

Il  mio  amico  eia  pienamente  afferrato  dall'azione,  o  piuttosto  dalla 
musica  e  dalla  sua  stessa  fantasia,  lo  pensavo  a  quella  Margherita. 
Ecco  che  cosa  è  la  donna  oggidì.  Da  una  jiarfe  il  diavolo  che  la  tira 
per  la  lunga  treccia,  dall'altra  Dio,  che  finisce  col  salvarla  per  far  pia- 
cere agli  spettatori  e  con  lei  l'altra  allegra  vittima  del  diavolo,  Faust. 
Margherita  non  esiste  di  pev  sé:  soffre,  uccide  la  sua  creatura...  Che 
strazio  e  che  ridicolo  insieme  in  (piella  scena  alla  porta  della  chiesa! 
Accanto  a  noi  c'erano  delle  ragazze  che  avevano  veramente  paura.  E 
mi  s'affacciò  irresistibile  la  domanda:  «  Come  si  può  chiamar  conso- 
lante la  religione?...  » 

Dio  finisce  per  trionfare,  ma  che  importa  se  il  diavolo  ha  conti- 
nuato a  torturarmi  durante  quattro  atti  e  mezzo,  cioè  quasi  tutta  la  vita? 

Più  tardi  \'igi  divenne  sempre  più  instabile  e  inquieto.  La  mia 
compagnia  non  gli  bastava  più.  Egli  mi  dimenticava  spesso  quando 
l'accompagnavo:  si  concentrava  e  rimaneva  muto,  non  rispondeva;  non 
udiva,  forse,  il  più  delle  volte.  Io  l'annoiavo,  probabilmente,  e  ricor- 
dando gli  sguardi  su|)pliclievoli  di  sua  sorella,  una  profonda  angoscia 
mi  prendeva.  Mi  sentivo  impotente,  meschino,  nullo  :  in  certi  momenti 
avrei  voluto  stendermi  a'  suoi  piedi,  farmi  calpestare,  perchè  s'accor- 
gesse di  me. 

Talvolta  poi,  all'improvviso,  parlava  e  le  sue  frasi  erano  una  con- 
linuazione  di  un  discorso  inferno  ch'io  non  riuscivo  a  ricostruire.  E 
l'idea  insistente  era  l'amore.  Che  cos'era  quest'amore,  per  cui  sua  so- 
rella aveva  tanto  sofferto  in  silenzio  ed  era  morta  con  tanta  serenità? 

L'amore!  lo  non  ci  ho  mai  pensato.  O  per  dir  meglio:  ho  pen- 
sato moltissimo  alla  donna,  senza  che  potessi  neanche  concepire  di 
aver  mai  una  donna  mia.  una  famiglia  mia.  I  miei  coetanei,  i  miei 
colleghi  di  lavoro  sono  tutti  ammogliati:  ma  si  dibattono  in  tali  dif- 
ficoltà, che  il  far  saltare  sulle  ginocchia  1"  ultimo  marmocchio  e  veder 
gli  alti-i   rotolarsi  nei   prati,  fuori  porta,  seduti  colla  mogliettina  sotto 


28  GLI    AMMONITORI 

la  perKola  di  iiualclie  osteria,  è  loro  Iropjio  scaiso  coiiiiìeiisi).  Alili  non 
vogliono  i-aiii|)olli,  e  sono  i  più  duri,  e  i  più  ciiiiisi,  quelli  che  soiri- 
douo  di  più.  ina  di  un  sorriso  scoraggiante,  niolleggiatore;  tristissimi 
certo,  in  fondo.  Parlate  di  amore  e  di  laniigiia  in  una  società  che  dà 
la  medesima  razione  di  pane  a  chi  è  solo  e  a  chi  ha  moglie  e  bimbi  ! 

Ma  tutto  ciò  non  bastava  a  tenermi  lontano  dal  matrimonio,  in 
fondo  io  ho  un'immensa  nostalgia  della  carezza  femminile  che  non  ri- 
cordo d'aver  sentita  mai.  For.se,  appena  messo  in  luce,  mia  mamma 
|)olè  ancora  stringermi  al  suo  seno  e  baciarmi'?  Non  lo  so.  Ma  mi  [)are 
die  una  donna  (ora  sono  vecchio,  ho  trent'anni),  luia  donna  che  mi 
avesse  amato  come  avevo  bisogno  io  di  essere  amato,  saiebbe  stala 
un  pochino  mia  mamma,  e  avrei  avuto  bisogno,  si.  di  piangere,  quando 
l'avessi  sentita  mia,  quando  avessi  sentito  che  tutto  il  suo  mondo  ero 
io.  io;  di  piangere  nel  suo  seno  tutte  le  lagrime  che  non  ho  pianto 
in  trenfanni;  di  versare  tutta  la  immensa  tristezza  accumulata  giorno 
per  giorno,  da  bimbo  nelle  giornate  fredde  e  senza  pane,  da  ragazzo 
nella  reclusione  priva  sempre  del  conforto  d'una  faccia  femminile,  da 
giovanotto  quando  la  sera  trovavo  sempre  la  mia  soffitta  buia  e  gelida. 
Avevo  una  forza,  accumulata  in  tanti  anni  di  lotta  contro  un  vero 
strato  di  terra  pesante  su  di  me  :  non  sono  uscito  dalla  mia  tomba 
di  creta  come  un  germoglio  in  mezzo  a  un  sentiero  battuto  ?  Non  avevo 
rinunziato  a  quello  che  molti  altri  hanno,  alla  vita  facile,  apparec- 
chiata dinanzi  a  loro  come  una  mensa  imbandita:  rinunziato  perchè 
ero  riuscito  a  non  desiderare,  sebbene  me  ne  sentissi  un  diritto  uguale 
a  quello  di  essi? 

E  avevo  una  debolezza  :  l'infermità,  portata  in  me  sia  dalle  incon- 
scie sofferenze  e  piivazioni  dellinfanzia,  sia  da  quella  rinunzia  terri- 
bile. Una  donna  avrebbe  soddisfatto  a  questo  mio  bisogno  di  proteg- 
gere e  di  essere  protetto. 

Non  venne.  L'attendevo  e  non  la  cercavo.  Non  osavo  cercarla  :  ero 
timidissimo  di  fronte  alla  donna,  ])erchè  conscio  fin  da  ragazzo  del  mio 
aspetto  triste  e  deficiente,  lo  sono  alto,  magro,  giallo,  con  un  torso 
gracile,  gambe  e  braccia  troppo  lunghe:  a  sedici  anni  mi  ricordo  d'aver 
avuto  per  un  periodo  di  tempo  una  fame  da  canniliale:  quando  cessò, 
io  ero  cresciuto  di  trenta  centimetri!  Da  qualche  anno  non  mi  guardo 
più  nelle  vetrine,  e  quando  per  caso  l'occhio  mi  cade  sul  mio  individuo 
ritlesso,  m'esilaro  non  ])oco  :  ma  prima  fui  di  una  suscettibilità  mala- 
ticcia. Avevo  un  orecchio  prodigioso  per  sentir  dietro  di  me  tutte  le 
gaiezze  ch'io  suggerivo  alle  ragazze  che  mi  passavano  accanto,  e  il 
mio  occhio,  che  pare  un  po' uguale  e  muto,  non  si  lasciava  sfuggire  i 
menomi  moti  che  apparivano  su  le  facce  dei  passanti.  A  qualche  mo- 
nello avrei  ben  volontieri  non  poche  volte  tirato  le  orecchie.  Ma  mi 
contenevo:  chiudevo  gelosamente  tidte  queste  ferite  di  spillo:  credo  che 
avevo  una  vera  faccia  di  diplomatico,  tanto  sapevo  di.ssimulare.  Ora 
dicono  invece  che  ho  una  faccia  buona  come  il  pan  caldo.  (Ili  è  che 
vedo  di  quante  piccole  cose  soffrono  gli  uomini  :  e  sono  tanto  indulgente 
verso  il  me  stesso  d'allora,  che  m'intenerisco  stranamente  all'aspetto 
di  tutte  le  ]>iccole  sofferenze  che  gemono  o  tacciono  intorno  a  me. 

Non  avevo  poi  molto  tempo  da  cercarla.  Rra  necessario  eli" io  in- 
contiassi  per  cdfio  una  donna  che  mi  guai'dasse.  mi  trovasse  simpatico, 
mi  parlasse  e  mi  conoscesse:  conosciutomi,  mi  aviobbc  iir61)abilmente 
amato,  perchè  mi  |)are  impossibile,  dio  buonol.il  contrario,  (liascuno 
di  noi  ila  dentro  di  sé  di  che  far  felice  un  altro  essere.  Ma  dov'è  que- 


fi  LI    AMMONITORI  "29 

srullro.'  Kcco  lulto.  Lei  era  forse  ben  lonlana  e  io  slavo  là  noi  mio 
Imco  (li  correttore...  0  era  torse  a  due  passi:  forse  ni' lia  guardato, 
m'avrà  anclie  parlato...  ma  non  m'ha  eonosciuto:  e  neppur  io. 

Dunque  io  scrivo  qui  come  su  una  pietra  sepolcrale  :  io  non  ho 

.\MATO. 

Tutte  queste  riflessioni  e  questi  rimpianti  furono  sollevati  in  me 
dalla  intimità  con  Crastino.  Egli  viveva  così  intensamente  dentro  di 
sé  che  le  sue  parole,  da  cui  ricevevo  delle  momentanee  rivelazioni, 
come  dei  lampi,  di  quella  vita,  mi  riconducevano  immediatamente  alla 
mia  e  mi  sentivo  tutto  rimescolato.  Una  volta  mi  disse,  come  conse- 
guenza d'una  serie  di  suoi  pensieri  : 

—  lo  non  ho  mai  creduto  veramente  a  una  vita  mia  oltre  a  questa, 
ad  una  vita  individuale  :  non  ci  ho  mai  creduto,  ma  ho  vissuto  come 
se  ci  credessi:  vale  a  dire  che,  in  vista  d" un'altra  vita,  non  ho  vis- 
suto questa... 

«  Vero»,  riflettei.  E  pensavo  a  me:  io  ho  fatto  lo  stesso:  anche 
nel  mio  piccolo  avrei  ottenuto  qualche  felicità  se  1'  avessi  voluta  con 
tutte  le  forze.  Credo  che  molti  oggidì  sono  simili  a  me  :  non  ci  si 
rifa  a  nuovo  tanto  facilmente.  Ma  vedo  che  i  nostri  figli  nascono  già 
diversi:  guardano  il  sole  con  maggior  confidenza.  11  sole  è  il  nostro 
vero  bene:  per  ora  non  ce  n'è  uno  maggiore.    Godetelo,   figli  nostri! 

Questa  riflessione  di  Crastino  era  forse  dedotta  da  mie  idee  ante- 
riori che  ero  venuto  quasi  costruendo  e  connettendo  dinanzi  a  lui  : 
a  mano  a  mano  che  le  dicevo,  si  organizzavano  e  diventavano  più 
persuasive,  solide  anche  dinanzi  a  me  stesso.  Io  dimque  ebbi  una 
influenza  sul  suo  pensiero:  ho  paura,  ahimè,  di  averla  avuta  anche 
sulla  sua  vita,  o,  dirò  meglio,  sulla  sua  morte  I  Ala  non  ho  rimorsi. 

11  professor  Lavriano  gli  aveva  trovato  un  im])iego  nel  dazio:  lo 
esortava  a  mantenercisi  per  un  mese,  intanto  ch'egli  avrebbe  cercato 
(|ualcosa  di  piìi  consentaneo  alle  sue  attitudini.  Crastino  ci  si  mise 
(li  buona  volontà.  Tornava  a  casa  parlandomi  dei  carri  pittoreschi 
che  scendevano  dalle  Alpi  ed  entravano  nella  barriera  di  Francia,  dei 
sotterfugi  curiosissimi  a  cui  ricorrevano  i  carrettieri  per  nascondere 
qualche  chilo  di  salume  o  qualche  litro  di  vino.  Ma  ben  presto  il 
lavorìo  dei  calcoli  e  della  contabilità  lo  annoiò,  lo  irritò,  e,  passato 
il  mese,  se  ne  partì,  insalutato  ospite. 

Allora  il  professore  lo  ammise  nella  redazione  d'  una  livista  di 
sociologìa,  affidandogli,  poiché  non  aveva  alcuna  cognizione  speciale 
della  materia,  la  compilazione  dei  fascicoli.  Né  ciò  gli  piaceva  gran 
che.  Pure  tirò  innanzi  quasi  un  anno. 

Un  giorno,  era  di  novembre  e  cadeva  la  prima  neve,  ero  venuto 
a  casa  nel  meriggio,  contro  il  mio  costume,  e  stavo  per  tornare  alla 
tiliografia.  quando  sento  altamente  urlare  fuori.  Mi  pareva  la  voce 
dello  zoppetto.  Xofu.  Infatti  lo  scorgo  sul  tetto  opposto,  aggrappai'si 
agli  spigoli  delle  ardesie,  colle  mani  gonfie.  Nella  soffitta  attigua 
alla  mia  l'ubriaco  urlava,  sporgendosi  dalla  finestra  e  minacciando  di 
tirargli  una  scarpa.  11  ragazzo  si  voltava  con  una  faccia  pavonazza  : 
jiiangeva  e  insieme  gli  faceva  le  beffe.  La  Biondina  aveva  aperto  la 
sua  finestra  e  lo  chiamava,  lanciando  degl'insulti  all'ubriaco.  Ora  il 
ragazzo  si  trovava  sul  crinale,  all'altezza  dell'abbaino  di  Crastino.  D'un 
tratto,  torcendosi  verso  di  noi,  jierdette  presa  colla  mano,  i  piedi 
scivolarono. 


•10  OLI   AMMONITORI 

Dei  tiiidi  (li  terrore  seguirono,  il  ragazzo  era  sceso  l)occoiii  coi 
piedi  innanzi  e  le  mani  uncinate  sulle  ardesie.  Il  canale  di  scolo  io 
arrestò.  Rimase  immobile  un  sec(mdo.  Allora  la  tinestra  di  (Iraslino 
s'apri  e  la  Hiondina  gli  afferrò  un  braccio.  Era  salvo. 

Respirai.  Per  un  momento  ebbi  la  visione  di  un  mucchietto  di 
cenci  sparso  sul  lastricato  del  cortile.  Udii  allora  aprirsi  Tuscio  attiguo 
al  mio  ed  uscir  l'ubriaco.  Lo  seguii.  Egli  andava  senza  dubltio  a  con- 
tinuar la  scenata  nella  stanza  di  Grastino...  Ma  giuntovi,  afferrò  il 
ragazzo  e  se  lo  strinse  al  petto  piangendo  forte.  Noi  lo  guardavamo 
sdegnati  e  inteneriti. 

Io  dovetti  correre  all' ufficio.  Fu  allora  che  s'iniziò  1'  amicizia  fra 
la  Biondina  e  Grastino,  che  doveva  presto  mutarsi  in  amore,  e  togliermi 
per  sempre  quella  dolce  intimità  che  m'era  divenuta  necessaria. 


VI. 

Un  giorno  penetrò  nel  nostro  convento  una  grande  novità.  L'n 
giovanotto,  un  pittore,  venne  al  n.  "11.  Egli  non  vi  dormiva  spesso 
in  principio,  avenda  anche  un'altra  abitazione.  Era  un  bellissimo  tipo, 
un  modello  d"  umanità  :  alto,  proporzionato,  elastico,  con  una  testa 
dalle  fattezze  forse  un  po'  troppo  fine,  ma  resa  maschia  da  due  grossi 
batti  e  da  una  gran  barba  che  si  mescolavano  a  coprirgli  tutta  la 
parte  inferiore  del  viso  d'una  ondulata  seta  color  di  bronzo,  nonché 
da  una  capigliatura  folta  cui  sormontava  un  piccolo  cappello  tondo. 
Un  gran  vocione  dalle  sonorità  di  rame  dava  tale  eco  nel  suo  largo 
|ietto  che  a  qualche  distanza,  quando  l'udivo  nei  corridoi,  non  distin- 
guevo più  le  parole,  e  pareva  talvolta  un  bordone  d'organo.  E  l'udivo 
s]iesso.  perchè  egli,  appena  tornato  dal  lavoro  (era  disegnatore  nella 
fonderia  Nebiolo).  interpellava  tutti  gl'inquilini  delle  soffitte,  provocava 
le  loro  risa  con  facezie  a  freddo,  si  traeva  dietro  tutti  i  bimbi,  a  cui 
gettava  dei  pomi  e  delle  noci  lungo  il  corridoio,  per  farli  ruzzolare  a 
mucchi  e  scompisciar  dalle  risa.  Non  so  quando  dormisse,  perchè  la 
sua  sottltta  era  sempre  illuminata  e  lavorava  moltissimo  di  notte, 
traendosi  dentro  i  modelli;  un  dopo  l'altro  tutti  i  piccoli  scavezzacolli 
(MVaeropoli. 

Aeropoli  è  il  battesimo  ch'egli  aveva  dato  al  nostro  convento,  che 
era,  a  suo  avviso,  il  più  numeroso  e  vasto  di  Torino:  ed  era  il  titolo 
d'un  album  di  acqueforti  die  voleva  eseguire  e  mandare  in  Erancia, 
ad  un  suo  amico  pittore  che  là  veniva  molto  valutato  e  aveva  promesso 
fli  farlo  conoscere  e  chiamarvelo  hen  presto.  Egli  lavorava  la  notte  e 
tutto  il  giorno  di  festa.  Aveva  fatto  subito  conoscenza  con  tutti  gli 
abitanti  della  nostra  piccola  città;  fatto  lo  schizzo  di  tutti.  Di  Grastino, 
di  me  e  della  Biondina  del  4<)  volle  fare  dei  veri  ritratti. 

Non  ho  mai  creduto  d'  aver  una  fisionomia  interessante.  Le  mie 
fattezze  oggi  mi  sono  perfettamente  indifferenti.  Ma  Quibio  (che  nome 
strano!),  altrimenti  detto  Criì/ic !  era  un  mago.  Il  ritratto  di  Grastino 
è  meraviglioso  e  io  non  ho  visto  più  bello  il  mio  amico  nei  suoi  mo- 
menti di  trasfigurazione:  quando  gli  sarà  resa  giustizia  ei  suoi  pochi 
versi  saranno  considerati  come  i  più  significativi  che  abbia  prodotto 
la  poesia  italiana  in  questi  ultimi  venfanni,  questo  ritratto  costituirà 
un  prezioso  ilocumento.  Oia  non  è  che  uno  dei  tipi  più  suggestivi  di 
un'aeropoli  ! 


GLI   AMMONITORI  31 

Il  mio  è  molto  strano  e  non  credo  di  essermi  mai  veduto  con  quel- 
l'espressione, per  quanto  quelli  siano  certo,  ad  uno  ad  uno,  i  miei  tratti, 
rutto  è  alterato  curiosamente;  la  pallidezza  sopiatutto  colpisce  e  un 
senso  di  terrore  che  ho  negli  cechi.  Forse  ciò  proviene  dal  momento  in 
:-\ù  egli  esegui  il  disegno,  un  momento  che  non  dimenticherò  più. 

Ma  andiamo  per  ordine. 

Quibio  aveva  la  pili  buona  indole  del  mondo,  sebbene  la  portinaia, 
jh'era  moglie  d'una  guardia  civica,  lo  guardasse  con  diffidenza.  Il  se- 
gretario era  evidentemente  oi'goglioso  di  tenere  un  simile  inquilino  e 
o  aveva  consultato  a  proposito  di  certe  oleografie  che  voleva  comprare 
ler  il  padrone  di  casa  il  giorno  delle  sue  seconde  nozze,  al  che  Quibio 
ìli  aveva  dato  del  filisteo  e  peggio.  Ma  la  considerazione  e  la  diffi- 
lenza  della  poitinaia  e  del  segretario  provenivano  da  certe  lettere  pro- 
fumate che  gli  pervenivano  e  più  ancora  dal  fatto  straordinario  che 
liù  d'una  signora  (o  era  probabilmente  sempre  la  stessa)  aveva  fel- 
pato la  carrozza  davanti  alla  casa  ed  era  salita  a  veder  lo  studio. 

Per  parecchi  mesi,  Quibio  fu  la  mia  compagnia  nelle  ore  di  libeifà, 
poiché  Vigi  s'era  evidentemente  allontanato  da  me  per  passar  quasi 
e  intere  giornate  solo  o  con  la  Biondina,  verso  la  quale  sentivo  uiui 
specie  di  rancore. 

Una  domenica  Quibio  bussò  al  mio  uscio.  Entrò  tutto  lieto. 

—  Due  notizie,  Martino,  -  cominciò  col  suo  vocione:  -  una,  che  ho 
^'into  il  concorso  della  Calcografìa  di  Roma,  l'altra...  che  gli  abitanti 
li  Mai'te  fanno  segnali  verso  la  Terra. 

—  Tutt'e  due  dello  stesso  valore  queste  notizie"?  -  risposi  io. 

—  Sì  -  riprese.  -  Ecco  qui  l'annunzio  della  Calcografia  e  il  Popolo 
li  stamane  col  telegramma  di  Marte.  Ora  ti  affeiro  con  una  mano,  e 
k'ado  ad  afferrar  Vigi  coU'altra,  poi  partiamo  per  \'alsalice  a  far  festa. 

Non  ci  fu  modo  di  replicare.  Mentre  mi  vestivo,  egli  andò  da  Cra- 
fitino  a  partecipargli  la  doppia  notizia. 

Io  avevo  sentito  d"un  romanzo  inglese  molto  strano  in  cui  si  sup- 
poneva un'invasione  di  Marziani  sulla  Terra.  Ora  l'annunzio  del  glor- 
iale, che  alcuni  punti  luminosi,  supponenti  una  direzione  intelligente, 
fossero  stati  notati  sul  nostro  pianeta  più  affine,  mi  colpì  fortemente, 
fi  mio  cervello,  forse  ])er  mancanza  d'un  organismo  scientifico  com- 
plesso, è  prontissimo  ad  accettare  di  botto  le  cose  pili  straordinarie. 
Questa  concezione  mi  dava  un  singolare  senso  quasi  di  smarrinuMdo, 
:(uasi  sentissi  di  essere  veramente  colia  terra  lanciato  nello  spazio,  lo 
L-redo  che  quando  codesti  pensieri  siano  entrati  profondamente  in  noi. 
potremo  sentir  meglio  la  vertigine  dell'isolamento  nell'infinito.  Dicono 
li  non  so  qual  poeta  francese,  che  avesse  trovato  un  frisson  nouveaii. 
Questo  j)are  invece  a  me  il  brivido  nuovo. 

Uscirono  dal  corridoio  e  mi  attesero  un  momento  sul  pianerottofo. 
scendemmo.  Quibio  era  in  jtreda  alla  sua  allegria  rumorosa  e  rideva 
;'on  tutti  i  suoi  denti  brillanti  in  mezzo  a  quel  bai'b(me  biondo.  Cra- 
■ìtiuo  paieva  invece  un  po'  contrariato.  Da  qualche  tempo  non  lo  vedevo 
più:  lasciato  l'impiego,  s'era  chiuso  nella  sua  soffitta:  lavorava '?■  Kra 
diventato  diafano,  cògli  occhi  cerchiati  e  ardenti,  le  narici  mobilissime 
e  la  bocca  nervosa.  Io  m'ero  inquietato  molto  per  la  sua  salute:  il  suo 
aspetto  ora  mi  aumentava  l'inquietudine. 

Nonostante  la  gaiezza  del  pittore  cui  cercavo  di  tener  dietro,  N'igi 
taceva,  jtur  rimanendo  in  apparenza  sereno  e  un  po'  assorto  in  sé  stesso. 
Quibio  eia  tanto  fefice.  clie  me  ne  sentivo  ancli'io  contentissimo  :  oar- 


;V2  i:i.l    AMMONITORI 

laudo,  tahiilla  in  voce  uli  si  altorava  :  la  tiioia  lo  piciidcxa  ali 
gola.  Ah,  che  gusto  di  sentir  ridere  a  ([iicl  tiiodoi  (Té  chi  nasco  pre 
potentemente  felice. 

Valsalice  era  piena  di  gente:  tutte  le  cantine  risonavano  di  orga 
netti  e  rigui'gitavano  di  borghesi  e  di  operai  indomenicati.  Quibio  i^ 
piaceva  enormemente  dell'allegria  popolare  in  campagna:  e  io  pure  ni 
ne  consolo  lutto:  è  sincera,  larga,  sana.  Ci  sedemmo  sotto  un  pergolato 
e  il  pittore  fece  portare  un  certo  vinetto  frizzante,  che  l' inuzzoli v 
tutto  e  gli  faceva  schioccar  la  lingua.  Crastino  ne  assaggiò  un  sorso 
fece  una  smorfia  :  io  sono  astemio. 

—  Ah  miei  cari!  -  fece  Quibio.  -  Che  bella  cosa  se  la  terra  produ 
cesse  più  vigna  e  meno  ferro  da  cannone.  Che  ne  dite"'  La  vigna  è  i 
segreto  della  pace  universale.  Guardate:  appena  due  uomini  sono  brilli 
subito  si  abbracciano.  Non  è  vero,  Mincan  Crus?  -  disse  alzando  l 
voce  verso  la  padrona  grossa  e  rubiconda  che  si  attannava  a  poita 
bicchieri  qua  e  là...  Si  era  innamorato  di  quel  nome,  e  lo  ripeteva! 
tutte  le  donne. 

Un  organetto  entrò  nel  cortile  e  cominciò  a  suonare.  Tosto  Quihi' 
si  levò  e  afferrò  la  padrona  per  le  braccia:  questa,  girando  pesante 
mente,  rideva  e  oscillava  tutta.  La  lasciò  subito  quando  vide  entrar 
una  ragazza  con  un  gran  cappello  a  piume  di  gallo. 

—  Oh!  -  esclamò.  -  La  principessa  d'Acropoli.  Facciamo  un  giro 
Era  la  Salamandra.  E  senza  lasciarla  rifiatare  la  trascinò   in  ui 

valzer  vertiginoso.  l'olvere  e  ciottoli  sprizzavano  dalle  sue  scarpe  chic 
date.  Quando  non  ne  potè  più  si  fermò  e  trasse  la  ragazza  fino  al  nostn 
tavolo. 

Ella  sedette,  guai'dandoci  con  atto  fra  d'interrogazione  e  di  non 
curanza:  poi  bevve  d'un  fiato  il  bicchiere  che  Quibio  le  porse. 

lo  sentivo  un  leggero  batticuore,  il  .senso  che  ho  sempi'c  di  fronf 
a  una  donna,  di  timidezza  e  insieme  di  dispetto  contro  la  mia  timidità 
—  Ebbene,  come  va  la  salute,   Minchin"?  -  chiese  Quibio  sorri 
dendo. 

—  Sempre  bene  la  mia  -  rispose  la  ragazza  quasi  offesa.  -  Chiaiiiaiii 
Olga  intanto! 

—  Quanti  anni  hai.'  Venti,  non  è  vero? 

—  Ventuno. 

Quibio  rise  fragoiosa mente:  ella  gli  die  del  ventaglio  sul  capo 
Aveva  i  capelli  biondissimi,  radi,  gli  occhi  allungati  agli  angoli  da  un; 
riga  di  bistro,  la  pelle  delle  guancie  disuguale  e  guasta:  la  bocca,  as.sa 
bella,  nelle  mosse  del  discorso  prendeva  sempre  delle  inflessioni  igno 
bili.  Aveva  forse  quell'età  e  poteva  anche  avere  più  di  trenf'anni. 

—  Che  farai  quando  sarai  vecchia.' 

—  lo  veccbia "' -  rise,  e  un'ombra  d'inquietudine  mi  parve  le  pas 
.sasse  un  momento  sul  viso  : 

—  Farò  l'aftittacamere  jiei-  le  ragazze  come  me. 

—  Bene!  Per  vendicarti  di  chi  ti  fa  fare  questa  vita"'  Tu  ti  ripa 
gherai  sulle  disgraziate  come  te  :  la  tua  padrona  fa  lo  stesso  ora,  i 
la  catena  non  finirà  più  -  disse  Quibio  tra  grave  e  ironico. 

Ella  volgeva  gli  occhi  sovente  a  osservai^  Crastino:  d'improvvise 
chiese  a  me,  sommesso,  ma  sì  che  lui  sentisse  : 

—  Sua  sorella  dov'è"? 

—  Morta  -  risposi  subito  sottovoce. 

Crastino  ci  guardò  entrambi  con  un  rimprovero  triste  negli  occhi 


GI,I    AMMONITORI  33 

Ella  diede  un  sospiro,  crollò  il  capo,  poi  percosse  il  pittore  forte  sulla 
spalla  : 

—  Andiamo  a  ballare,  biondo? 

—  No,  grazie.  Troppo  liscio  il  pavimento  e  tu  pesi  troppo,  cara 
Olga  mia,  e  poi...  io  non  voglio  essere  un  rivale  per  nessuno... 

E  accennò  ad  un  giovinotto  che  sedeva  davanti  ad  un  bicchier 
di  birra  tutto  solo  e  guardando  fissamente  il  nostro  gruppo.  La  Sala- 
mandra lo  adocchiò  di  sfuggita  e  arrossì  : 

—  Quello...  sapete  chi  è  quello  là"?  Guai  se  ve  lo  dicessi! 

—  Brr  !  -  fece  Quibio.  -  !']  il  re  dei  gargagnan,  scommettiamo  !  -  e 
vedendo  passare  la  padrona  ordinò  un  altro  mezzo  litro. 

—  Quello  è  il  contino  Raffi:  ha  pochi  soldi  ma  molta  sfacciatag- 
gine, e  mezzi  i  barabba  delle  Ca  neire  gli  fanno  i  servitori. 

Si  volse  a  lui  e  lo  guardò  fisso  atteggiando  la  faccia  a  un  disprezzo 
indicibile,  poi  si  levò,  cercò  collo  sguardo  tutt'intorno,  e  si  sedette  di 
nuovo  rassicurata. 

—  Vuol  che  facciamo  un  giretto,  signor  Crastino"?  Io  posso  con- 
taile  delle  belle  cose...  E  la  Biondina  non  è  venuta"? 

Crastino  arrossì  e  rise  nervosamente,  poi  mise  le  labbra  al  bic- 
cliiere  e  bevve  con  una  smorfia. 

—  Ti  proibisco  di  sedurre  il  poeta!  -  vociò  Quibio.  -  Lui  è  tutto 
scombussolato  perchè  Marte  fa  dei  segni  a  Venere,  cioè  alla  Terra... 
e  non  bisogna  disturbarlo  nelle  sue  meditazioni... 

—  Sì,  si,  lasciamolo  meditare.  Che  vuol  dire  aver  la  testa  nelle 
nuvole  ! 

Poi  si  fece  improvvisamente  seria:  -  Ma  è  malato  il  vostro  amico, 
non  vedete? 

Egli  era  difatti  pallidissimo,  ma  protestò  vivamente. 

La  padrona  si  avvicinava:  depose  il  vino  sul  tavolo  con  una  leg- 
gera smorfia  verso  la  ragazza,  che  si  levava  dando  un  colpo  di  ven- 
taglio a  Quibio. 

—  ^"edi  ([ui  la  donna  onesta  e  si)ietata  -  mi  disse  Quibio  sommesso, 
accennando  alla  padrona. 

—  È  vero.  Non  ha  un'itlea  della  infelicità  di  questa  povera  ra- 
gazza. 

E  tosto  mi  s'affacciò  l'idea  della  orribile  piaga  sociale  che,  riu- 
scendomi inesplicabile  nelle  sue  cause  e  nei  suoi  rimedi,  è  la  sola 
la  quale  mi  faccia  quasi  disperare.  Intanto  seguivo  coli' occhio  la  Sala- 
mandra. Subito  il  giovane  solo  che  dapprima  ci  osservava  fece  una 
mossa  per  seguirla.  Ella  gli  lanciò  un'occhiata  che  l'inchiodò  sulla 
panca,  poi  s'appressò  ad  una  tavola  ove  un  ubriaco  in  mezzo  a  parecchi 
bevitori    urlava  con  quanto  flato  aveva  nei  polmoni: 

Cruce  delissia, 
Criice  delissia, 
Delissia  al  cor! 

E  si  sedette  nel  gruppo  accanto  a  un  giovanotto  mingherlino. 
Quando  ella  gli  accennò  il  contino,  i  due  si  guardarono,  e  il  mingher- 
lino ebbe  un  istante  la  faccia  illuminata  da  un  sorriso  cosi  maligno, 
fino  ed  energico  ch'io  ne  fui  scosso.  Aveva  due  occhi  agilissimi  e 
mutevoli,  che  in  certi  momenti  parevano  quasi  luccicare  fuor  d'una 
guaina  e  ringuainarsì  sotto  le  palpebre  subito.  Io  pensai  che  il  suo 
coltello  doveva  apparire  e  scomparire  bene  spesso  a  quel  modo. 

o  Voi.  evi,  Serie  IV  -  !•  luglio  1903. 


34  OLI    AMMONITORI 

La  sua  fisionomia  non  mVia  nuova.  L'avevo  visto  torse  alle  Cucine. 

C'è  dinique  una  società  sotterranea  dove  la  sopercliieria,  la  lotta, 
la  solidarietà,  sono  praticate  all'insaputa  dell'altra,  ma  con  la  stessa 
intensità.  Qualche  sommovimento  lancia  ogni  tanto  alla  superficie  un 
cadavere.  E  tutto  ciò  viveva  accanto  a  me:  ne  sentivo  le  pulsazioni 
quando  rincasavo  tardi  la  sera  e  udivo  dei  susurri  o  delle  risse  negli 
angiporti:  qualche  volta  avevo  udito  accanto  a  me,  nell'ombra,  due 
parole  che  mi  causavano  un  fremito  di  teri'ore  e  subito  dopo  mi  aveva 
colto  un  moto  di  fiducia  e  quasi  di  compiacenza:  «  No,  è  Stanga!  » 
Mi  conoscevano  dunque:  avevano  una  polizia  anch'essi:  io  ero  nella 
lista  degl'innocui  o  degl'insignificanti...  Tutto  ciò  nelle  tenebre.  Alla 
luce  del  sole  nient'altro  che  uno  sguardo  d'odio,  di  provocazione,  di 
vittoria,  come  quello  che  avevo  veduto  luccicare  un  momento  sulla 
faccia  di  quel  mingherUno... 

Intanto  una  reminiscenza  mi  perseguitava.  Dove  avevo  visto  io 
il  contino"? 

Imbruniva.  Il  cortile  si  riempiva  sempre  più.  Entravano  ora  fa- 
miglie intere  con  marmocchi  e  sedevano  alle  tavole  facendo  preparare 
da  mangiare.  Mangiavamo  anche  noi  in  mezzo  al  tumulto,  ma  tutti 
tre  eravamo  taciturni  ;  l'allegria  del  pittore  era  sparita. 

Ci  levammo  e  movemmo  per  uscire.  Ad  un  tratto  mi  sentii  toc- 
care. Era  il  mingherlino  che  mi  sorrideva  coi  suoi  occhi   aguzzi: 

—  Una  parola. 

—  Dica  -  feci  io  imbarazzato. 

Tacque  lui  momento,  poi  accennò  dall'altra  parte  al  contino. 

—  La  sorella  del  vostro  amico...  Eccolo  là!...  E  ora  lasciate  fare 
a  me.  Nient'altro.  Stia  tranquillo,  monssìi  Stanga! 

E  sparì  nella  folla  che  ingombrava  il  portone.  Noi  ci  avviammo 
verso  la  città. 

Molta  gente  scendeva  per  lo  stradone  battuto  e  bianco.  Le  donne, 
stanche,  si  sospendevano  al  braccio  degli  uomini,  i  bimbi  ruzzolavano 
per  le  chine:  su  tutte  le  facce  era  la  stanchezza  e  rintontimento  delle 
giornate  di  sole  passate  all'aperto  da  gente  che  vive  tutta  la  settimana 
nei  laboratori  e  nelle  case  buie. 

A  un  certo  punto  Quibio  prese  per  mia  via  traversa  : 

—  Allungheremo  un  poco,  ma  saremo  tranquilli. 

Era  un  sentiero  fra  le  vigne:  a  quando  a  quando  si  cingeva  ai 
lati  di  siepi  o  di  muri  a  secco. 

Il  cielo  era  tutto  popolalo  di  nubi  ineguali,  fra  cui  il  sole  spargeva 
i  suoi  colori. 

—  Mi  par  che  il  paesaggio  vada  mutando  -  incominciò  Quibio  -  o 
muto  iof  o  mutiamo  tutti"?  Io  non  so  piìi  come  si  può  dipingere  il 
cielo:  è  molto  più  difficile  che  una  volta,  perchè  bisogna  far  intrave- 
dere qualcosa  di  là. 

—  È  vero  -  aggiunsi  io.  -  I  pittori  dipingono  uno  strato  d' aria 
azzurra  o  un  movimento  di  nuvole.  Questo  non  è  il  cielo,  è  sempli- 
cemente l'atmosfera. 

—  Oh  certo!  -  rispose  Quibio  ridendo.  -Non  vorrai  mica  che  di- 
pingiamo fuori  dell'atmosfera!  Forse  il  hkutco  e  nero  \mò  far  qualche 
cosa  di  più.  II  mio  amico  Chedda  mi  mandò  da  Parigi  delle  fotografie 
di  Odilen  Redon,  da  cui  ho  presentito  quel  che  si  potrebbe  fare  da  uno 
che  tosse  ben  addentro  in  quello  che  mi  hai  mostrato  tu.  Stanga,  coi 
libri  di  Flammarion.  .Ma  non  sarà    un    tentativo   inutile"?  Eppure  mi 


GIÀ   AMMONITORI  35 

attira.  Vedi,  pensavo  poco  fa  di  far  qualcosa  con  quella  ragazza,  ma 
non  ne  ho  piii  voglia.  A  che  scopo  studiare  questi  tipi,  far  della  cri- 
tica anarchica  colla  pittura"?  E  poi  credo  che  non  si  può  andar  più  oltre 
di  quel  che  ottennero  certi  francesi  deir^s.s/e/<e  au  fieurre.  Bisogna 
trovar  del  nuovo. 

—  È  la  letteratura  che  deve  precedere  -  esclamò  Crasi  ino  che  usciva 
un  momento  dalla  sua  distrazione. 

—  È  vero  -  diss'io.  -  La  letteiatiua  d'oggi  mi  fa  pietà.  Dopo  d'aver 
parlato  tanto  di  sé  stesso,  l'uomo  c'insiste  ancora;  eppure  ne  parla  a 
vanvera,  perchè  vede  poco  di  sé  stesso:  si  vede  poco  perchè  non  vede 
pernulla  gli  altri  esseri,  non  si  considera  in  giusto  rapporto  cogli  altri 
esseri.  Dico  l'uomo  letterato...  Infatti  chi  sa  che  cosa  è  l'uomo?  L'uomo 
non  è  altro  che  la  realizzazione  della  coscienza  della  terra,  è  la  terra 
che  sente  sé  stessa.  Che  cosa  è  la  terra?  Un  punto.  È  la  figlia  del  sole, 
un  punto  un  po'  pifi  grande.  11  sole  l'ha  creata.  Il  sole  scalda  l'aria, 
trae  l'atmosfera  dai  poli  all'equatore  e  crea  il  vento;  il  sole  crea  le  cor- 
renti del  mare,  assorhe  i  vapori  e  li  cristallizza  sui  monti  in  ghiacciai 
e  ne  fa  scendere  i  fiumi;  il  sole  solleva  il  mare  come  un  seno  che  re- 
spira. Il  sole  forse  solleva  il  cuor  della  lena,  il  nucleo  plastico  che 
freme  dentro  la  scorza,  e  lo  trae  a  sé  e  lo  farà  esplodere  un  giorno. 
Noi  siamo  figli  del  sole. 

—  Bravo!  -  gridò  Quihio.  -  E  tu  sei  figHo  dei  lihri.  Qual' è  l'ul- 
timo libro  che  hai  letto? 

—  È  vero:  questo  è  un  mio  sunto  dell'ultimo  libro  che  ho  cor- 
retto, la  Geologìa  generale.  E  che  perciò?  La  poesia  sta  tutta  lì. 

—  Sì,  -  inferi'uppe  Crastino  colla  gola  stretta.  -  Questa  è  la  poesia 
nuova  ! 

Sentii  nella  sua  voce  le  lagrime.  Lo  guardai  :  la  luce  del  tramonto 
illuminava  la  pallidezza  della  sua  fronte:  aveva  i  pomelli  accesi  come 
per  febbre. 

—  Chi  la  farà?  -  aggiunse. 

Tacque.  11  cielo  si  chiudeva:  le  nuvole  s'erano  assiepate,  avvici- 
nando i  lor  nuclei  bigi  fra  cui  brillavano  delle  lagune  d'argento. 

—  I  giornali  -  ripresi  io  -  stimano  che  la  notizia  dei  segnali  di 
Marte  sia  una  fantasia  di  un  astronomo  poeta.  Può  darsi.  Che  importa? 
Non  ne  sappiamo  nulla,  ma  intanto  l'ipotesi  che  il  cielo  tutto  sia  vi- 
vente non  ci  stupisce  più:  ne  cresce  la  coscienza  in  noi  senza  chela 
scienza  ci  aiibia  portato  una  sola  prova.  Com'è  ciò?  Forse  tra  i  mondi 
esiste  qualche  nujzzo  di  comunicazione  che  gli  psicologi  direbbero  sub- 
cosciente: forse  domani  questo  sarà  una  certezza.  Avete  notato  come 
le  scoperte  più  strabilianti  si  accettino  con  un'estrema  facilità?  I  raggi 
Roentgen,  le  onde  Marconi,  tutto  questo  era  già  nella  coscienza  del- 
l'umanità. Donde? 

Ma  mi  accorsi  che  i  miei  compagni  non  mi  seguivano  più.  Essi 
erano  entrambi  assorti  in  sé  stessi,  nella  lor  vita  particolare.  Ne  ebbi 
la  sensazione  quando  Crastino  concluse  quasi  un  suo  ragionamento  in- 
teriore, che  pareva  anche  chiudere  il  mio  discorso. 

—  E  dopo  tutto  si  muore. 

—  No,  -  protestai  con  veemenza.  -  La  vita  ha  foise  una  fine  rispetto 
all'eternità.  Per  noi,  per  la  nostra  concezione,  non  ha  né  principio  né 
fine.  Ma  pensate  che  le  cifre  assegnate  dagli  astronomi  alla  vita  dei 
mondi  più  vicini  a  noi  sono  già  una  eternità  per  noi  uomini.  Non  si 
muore  ! 


36  GLI   AMMONITORI 

—  Si  muore,  si  muore!...  -  insistè  egli  quasi  con  angoscia. 

—  Purtroppo,  caro  Stanga!  -  appoggiò  Quibio.  -  E  ciò  non  impe- 
disce cbe  non  me  n'importi  un  fico  secco  !  Io  e  Crastino  abbiamo  la 
stessa  idea  della  vita,  intendo  della  nostra  particolare:  ma  lui  pensa 
alla  fine,  io  penso  al  momento.  Ecco  la  differenza.  Tu  poi  vivi  nelle 
nuvole  e  nei  libri  o,  se  vuoi,  di  là  dalle  nuvole...  Sei  un  uomo  felice! 

Essi  pensavano  infatti  alla  lor  vita  [)articolare.  Il  crepuscolo  li  in- 
teneriva mentre  contemplavano  in  sé  stessi  un'  immagine  d'amore.  Per 
un  momento  io  sentii  acutamente  la  nostalgia  di  questa  accompagna- 
trice esistenza  femminile  che  la  natura  assegna  come  complemento  a 
tutti  gli  uomini. 

.Allora  m'accorsi  d'una  puntura  interna,  come  d'una  di  quelle  ferite 
troppo  rapide  e  dirette  che  non  si  avvertono  subito  e  si  rivelano  al 
bruciore  lentamente. 

Anelai  di  esser  solo  per  interrogarmi  e  sentirmi.  Giunto  a  casa,  mi 
coricai  e  spensi  il  lume  e  m' immersi  in  me  stes.so. 

Fu  prima  un  tumulto  confuso  e  doloroso  che  mi  riemjiiva  il  capo 
e  il  petto,  una  ridondanza  di  amarezza  e  di  calore  da  sottocarmi.  Poi 
divenni  straordinariamente  lucido  e  calmo,  come  se  il  mio  sangue  si 
fosse  sedato  e  tacesse,  e  sola  l'intelligenza  splendesse  come  una  luce 
a  illuminare  il  mio  passato  e  la  mia  miseria  e  la  miseria  di  tutti  i  miei 
simili. 

Amare,  amare,  amare!  Sentirsi  vivo  e  pieno  e  perfetto  nell'amore 
dell'altra  creatura  necessaria,  sentirsi  un  perfetto  individuo  che  tende 
a  una  comunità,  a  una  umanità  piìi  ricca  e  piena.  L'ideale  mi  appariva 
semplice  e  lucido,  e  per  me  lontano,  passato,  morto  forse  con  quella 
povera  morta  cbe  m'aveva  sorriso  nell'agonia.  Ella  era  una  povera 
creatura  :  aveva  seguito  innocentemente  il  suo  istinto  di  felicità  :  la 
pei-tidia  e  la  morte  l'avevano  ghermita. 

E  l'acre  gioia  e  l'angoscia  datami  dalla  scoperta  dell'  infame  che 
l'aveva  tradita,  si  dissiparono.  Potevo  io  vendicarmi  di  cohii?  Chi  era 
egli"?  Forse  nulla:  forse  un  essere  non  ancora  apparso  alla  superfìcie 
ove  respirano  gli  esseri  coscienti.  Aveva  seguito  il  suo  istinto  perver- 
tito dall'  eredità  di  generazioni  oppressive  e  malefiche.  Creature  che 
nascono  senza  doveri,  ricche  di  tutti  i  diritti,  che  possono  fare  se  non 
approfittarne? 

Reagire  su  di  esse!  Reagire  colla  luce! 

Ma  i  malvagi  si  sopprimono  fra  loro.  Quello  era  in  buone  mani 
e  avrei  voluto  potergli  desiderare  che  la  punizione  non  fosse  fatale,  da 
impedirgli  un  ritorno  alla  sua  vera  natura  umana. 

Ma  sono  uomo  e  figlio  d'uomo. 

Io  vorrei  credere  ad  una  legge  inflessibile:  chi  ha  fatto  soffrire. 
soffia  ! 

E  risolsi  di  non  dirne  nulla  a  Vigi.  A  che  prò? 

fContiiniii  . 

Giov.\NXi  Cex.a.. 


IN  FINLANDIA  CON  L'AMICO  COCCHI'^' 


Ti  ricordi,  o  Igino,  le  nostre  passeggiate  della  domenica-  nelle 
verdi  foreste  di  San  Rossore?  Son  più  di  cinquant'anni  che  son  pas- 
sati sul  nostro  capo,  spargendovi  le  nevi  che  nessuna  primavera  è 
capace  di  fondere;  ma  io  le  ricordo  vive  e  care,  come  se  le  avessi 
godute  ieri. 

È  una  bestemmia,  che  pure  è  in  bocca  di  tutti,  quella  di  dire  che 
il  passato  è  morto  per  sempre  e  sepolto  neireternità.  Per  me  almeno 
il  passato  è  vivo,  più  vivo  del  presente  e  sopratutto  più  caro,  perchè 
il  tempo  gli  ha  tolto  le  spine  e  le  ortiche  quotidiane  e  gli  sbadigli 
delle  noie  ufficiali  e  le  menzogne  della  civiltà,  che  si  pettina  e  si  tinge 
più  di  quel  che  si  lavi,  conservandone  solo  il  profilo  nobile  e  piu'o  di  ciò 
che  non  può  jiiù  morire,  perchè  vive  solo  nelle  anime.  11  passato  è 
una  moneta  divenuta  medaglia,  è  un  uomo  grande  senza  le  debolezze 
e  le  vergogne;  il  presente  è  una  moneta  viva,  che  si  spende,  ma  che  è 
anche  sudicia  di  tutti  i  sudori  umani  :  ed  io  preferisco  la  ruggine  al 
sudiciume. 

E  di  certo  le  ricordi  anche  tu  quelle  serene,  gaie  e  gioconde  pas- 
seggiate pisane.  Liberi  per  tutta  una  giornata,  come  operai  della  setti- 
mana universitaria,  ci  lanciavamo  nel  verde  e  verso  il  mare  senz'altro 
bagaglio  che  la  nostra  giovinezza  e  con  una  scatola,  che  doveva  racco- 
gliere il  nostro  bottino,  che  con  ingenua  prosopopea  chiamavamo 
scientifico.  Anche  la  colazione  doveva  essere  una  sorpresa,  una  con- 
quista, e  la  si  trovava  in  una  delle  tante  fattorie,  che  il  buon  granduca 
aveva  sparse  nella  bandita  colla  dolce  illusione  di  fabbricare  in  Toscana 
il  cacio  parmigiano. 

Si  camminava  tutto  il  giorno  e  le  nostre  gambe  non  erano  stanche 
mai.  Si  pescavano  tritoni,  che  per  noi  erano  coccodrilli,  si  acchiappavan 
farfalle,  e  coleopteri  e  ramarri,  si  raccoglievano  pietre,  si  coglievauo  fiori 
e  rami  d'albero,  rispettando  sempre  i  nidi,  che  per  noi  eran  sacri. 
Un  giorno  presi  perfino  un  germano,  che  ferito  in  un'ala  si  era  accovac- 
ciato in  un  cespuglio  di  gine])ri.  Lo  portai  trionfante  nella  città  ancor 
vivo,  dovetti  pagare  mezzo  paolo  di  dazio,  e  lo  diedi  a  cucinare  il  giorno 
dopo  nella  modesta  trattoria,  dove  per  un  paolo  al  giorno  pranzavo 
con  due  piatti  e  un  dessert  e  vino  a  discrezione,  che  io  non  beveva. 

Eran  davvero  deliziose  quelle  nostre  passeggiate!  Anzi  non  erano 
punto  passeggiate,  ma  veri  viaggi  d'esplorazione,  perchè  ci  si  perdeva 
più  d'  una  volta  in  ciuell'  immensa  foresta  e  ci  si  trovava  sulla  spiaggia 

(1)  Prof.  Igino  Cocchi,  Ln  Finlnndìd.  «  Bicordi  e  studi  ».  Firenze,  1902, 
Successori   Le  Monnier. 


38  IN    FINLANDIA    CON    l'AMICO    COCCHi 

del  mare,  quando  meno  lo  si  pensava,  o  chiusi  a  un  (ratto  tra  dm 
lanche  si  dovea  passare  1"  acqua  a  guado,  senza  paura  di  reumi  o  d 
ratt'reddori. 

Fin  da  quei  giorni  ci  sentivamo  viaggiatori  e  sognavamo  vergin 
foreste  e  selvaggi  e  belve  mostruose.  E  abbiam  viaggiato  poi  la  nostri 
parte,  ma  io  anche  in  India,  anche  nel  Brasile,  anche  in  Lapponi^ 
Ilo  sempre  ricordato  i  viaggi  delle  domeniche  fatti  con  te  nella  Banditi 

di  San  Rossore. 

* 
»  * 

Il  lettore  mi  perdoni,  se  volendo  parlare  della  Finlandia,  som 
andato  prima  a  Pisa,  ma  egli  è  ])erciiè  in  Finlandia  sono  andato  ii 
compagnia  dell"  amico  Cocchi,  purtroppo  non  già  colle  mie  gambe 
ma  cogli  occhi,  leggendo  il  bellissimo  libro,  che  ha  dedicato  a  que 
poetico  e  infelice  paese,  ch'egli  ha  percorso  e  studiato. 

Anche  i  più  ignoranti  di  geografia  hanno  dovuto  ai  nostri  temp 
ricordare  e  amare  quella  terra  fredda  e  onesta;  ricca  di  acque  com 
nessun' altra  e  più  ricca  ancora  di  onestà,  dove  ogni  uomo  e  ogn 
donna  sa  leggere  e  scrivere  e  dove  la  cifra  dei  delitti  segna  uno  de 
numeri  più  piccini  e  più  gloriosi  dell'  Europa;  quel  paese  che  la  Russi; 
vuol  abbattere  colla  violenza,  col  peso  enorme  della  sua  mano  vuo 
schiacciare,  colla  prepotenza  vuol  russificare.  Vorrebbe  anche  coli 
lusinghe  corromperla,  ma  a  ciò  non  airiva,  perchè  1"  animo  di  quelli 
gente  è  troppo  nobile  e  puro  e  come  il  granito  si  può  fare  in  polvere 
ma  non  si  può  stemperare.  Non  feste  popolari,  non  stipendi,  non  deco 
l'azioni  possono  piegarli.  Finlandesi  sono  e  finlandesi  resteranno.  Il 
questi  giorni  il  giovane  professore  Yrjo  Hirn,  che  fa  un  corso  di  estetici 
nella  Università  di  Helsingfors,  mi  faceva  una  cara  visita  nel  mi( 
Museo  in  compagnia  della  sua  dotta  signora,  che  lo  aiuta  nei  suo 
studi.  Fa  un  viaggio  di  tre  anni  in  tutta  l' Europa  per  studiare  l'estetica 
come  la  intendono  i  popoli  diversi  e  come  diversamente  la  intesen 
nel  tempo  e  mi  meravigliavo  di  trovarlo  tanto  profondo  conoscitori 
della  nostra  letteratura  antica  e  moderna. 

Dopo  una  certa  esitazione  osai  domandargli  :  Che  cosa  faret- 
contro  l'invasione  russa?  Ed  egli,  serenamente,  senz'  ira.  e  direi  anch 
senz'odio,  rispondeva:  Resister  sempre,  disubbidir  sempre!  In  quelli 
risposta  mi  parve  sentire  la  calma  forte  di  chi  non  si  piega  mai,  d 
sentire  la  forza  del  freddo,  dia  conserva  e  dura.  Intanto,  però,  sotto 
nostri  occhi,  in  piena  luce  di  civiltà  umanitaria,  vediamo  compiers 
due  grandi  iniquità  commesse  fra  popoli  civili:  la  guerra  anglo-boeri 
e  la  distruzione  della  Finlandia.  Ma  l' Inghilterra  vuole  allargare  1 
frontiere  africane  e  la  Russia  vuol  giungere  all'  Oceano.  Volete  voi  torsi 
impedire  il  respiro  a  chi  ha  il  petto  largo:  non  ingrandite  anche  vo 
gli  abiti  ai  figliuoli,  quando  crescono"?  Lasciate  che  i  forti  respirim 
largamente  e  le  membra  gagliarde  si  muovano  liberamente.  11  monde 
è  dei  forti. 

E  ancora  una  volta  il  lettore  mi  jierdoni,  se.  parlando  della  Fin 
landia,  vi  faccio  della  politica  umanitaria,  ma  egli  è  perchè  pensandi 
ad  essa  il  cuore  palpita  irresistibilmente  pili  che  il  pensiero  noi 
ragioni. 

* 
*  * 

Non  so  se  io  abbia  torto,  ma  credo  che  quando  si  voglia  viaggiar* 
in  un  paese  senza  andarvi,  il  miglior  modo  è  quello  di  lasciar  parlare  eh 
vi  è  andato,  e  noi  andremo  in  Finlandia,  a  braccetto  del  nostro  Cocchi 


IN    FINLANDIA   CON   L  AMICO   COCCHI 


39 


La  Finlandia  è  il  regno  delle  acque,  le  quali  si  versano  nel  mare 
limpide  e  chiare  da  25i2  foci,  e  gli  uomini,  congiungendo  fiumi  con 
fiumi  e  laghi  con  laghi,  hanno  ti'acciato  il  paese  più  ricco  di  rive 
acquee  che  si  conosca  e  il  più  variato  per  ampiezza  e  forma  di  hacini 


^ji-^-fc        \ 


1 


'?-N 


y'^ìi 


X 


\ 


/       ,4i 


Tipi  di  douiie  finlandesi. 

lacuali,  dal  Ladoga,  che  oltrepassa  i  4000  chilometri  quadrati  nella 
sola  sua  parte  finlandese,  a  quelli  che  ne  contano  pochi.  Le  acque, 
che  scendono  dalle  alpestri  giogaie,  si  uniscono  a  quelle  che  incontrano 
per  via  e   insieme   riunite   non   si   avviano   alle  foci,   formando   giù 


Tipi  dell'Ostrobiitniil. 


per  le  valli  dei  rigagnoli  come  quelli  dell'  Apennino,  ma  obbedendo 
nella  loro  discesa  alle  depressioni  ed  ai  rialzi  di  suolo,  che  inconti'ano, 
si  adunano  in  larghissime  conche,  formando  laghi,  o  in  ristretti  solchi 
a  modo  di  fiumi  spesso  profondissimi,  gli  uni  agli  altri  l'iuniti  come 
maglie  di  una  medesima  rete  e  lontani  o  prossimi  al  mare,  vanno 
a  scaricarsi  tutti  nel  mare. 


4(J  IN    FINLANDIA   CON   l'AMICO    COCCHI 

Il  movimento  di  discesa  però  non  è  sempre  conforme  e  tranquillo. 
Le  acque  incontrano  dislivelli  improvvisi,  che  le  obbligano  ad  allar- 
garsi o  a  lesti'ingersi  o  a  Italzare  di  roccia  in  roccia,  da  un  piano  a 
un  altro,  in  forma  di  rapide  correnti  e  di  cascate.  Un  lago  piii  alto 
si  precipita  in  uno  più  basso  a  pochi  metri  di  distanza,  rumoroso, 
spumante,  e  l'acqua,  riducendosi  in  un  pulviscolo  minuto  come  nebbia, 
i-icade  in  pioggia  sui  lati  dopo  aver  fatto  brillare  i  colori  dell'arco- 
baleno. 

Imatra  è  la  più  celebrata  fra  tutte  le  cascate,  ammirata  da  ogni 
buon  finlandese  e  visitata  dagli  stranieri.  Enorme  è  la  massa  d'acqua, 
che  con  sbalzi  vertiginosi  precipita  dal  lago  alto  nel  basso.  E  vastis- 
sime piu'e  sono  le  cascate  di  Valinkoslci,  di  Kyriskoski  e  tante  altre. 

Tutte  queste  acque  vanno  a  riposare  nel  Baltico,  mare  di  un'acqua 
poco  salata  e  che  è  in  gran  parte  mare  finlandese  e  che  coi  suoi  410,000 
chilometri  quadrati  di  superficie  tempeia  il  rigore  del  freddo.  Mare 
dolce,  ma  terribile  ai  navigatori  per  le  sue  fitte  nebbie,  pei  suoi 
ghiacci  impenetrabili  nelF  inverno,  terribili  quando  li  rompe  la  pri- 
mavera; mare  che  genera  i  più  abili  e  coraggiosi  marinai  del  mondo, 
che  combattono  lotte  di  vita  e  di  morte  colla  furia  delle  tempeste, 
coir  impeto  delle  correnti,  col  prodigioso  sollevarsi  della  marea,  che 
si  caccia  dentro  gli  stretti  con  onde  di  40,  50  e  più  piedi  d'  altezza. 
E  il  Cocchi,  parlando  del  Baltico  tormentoso,  richiama  al  pensiero  lo 
splendido  inno  al  mare  di  Basilio  il  Grande,  più  eloquente  del  grido 
di  Orazio  contro  le  navi. 

E  le  rive  di  quel  mare  si  frastagliano  all'  infinito  con  seni  e  baie 
fantastiche,  con  isolette  innumerevoli  tutte  coperte  di  cupe  foreste  di 
pini  e  di  betule  sorridenti  nella  loro  veste  argentina;  scene  che  per 
la  loro  pittoresca  freddezza  si  possono  mettere  al  polo  opposto  delle 
foreste  policrome,  feconde,  esuberanti  di  fecondità,  che  in  queste  stesse 
pagine  abbiam  percorso  in  compagnia  del  nostro  Beccari. 

Il  clima  della  Finlandia  è  rigido,  ma  non  quanto  si  dovrebbe 
aspettare  dall'alta  latitudine.  Dei  dodici  mesi  dell'anno,  l'inverno 
se  ne  prende  sei.  cioè  dal  novembre  all'aprile,  e  non  ne  restano  che 
due  per  la  primavera,  due  per  1'  estate  e  due  per  1"  autunno.  Si  può 
dire  che  questo  paese  gode  di  un  clima  quasi  marittimo,  dacché 
neir  estate  la  temperatura  sorpassa  di  raro  i  30°C  e  nell'  inverno  la 
temperatura  più  bassa  fu  di  — 48°C. 

11  clima  finlandese  tende  a  migliorarsi,  dacché  il  suolo  si  va 
progressivamente  innalzando  e  così  riceverà  più  direttamente  i  raggi 
solari;  non  unico  esempio  di  climi,  che  anche  in  tempi  moderni  si 
sono  cambiati  di  bene  in  meglio  o  di  bene  in  peggio. 


L'inverno  in  Finlandia  è  lungo  e  forte.  Tutta  la  terra  è  sepolta 
sotto  la  neve  gelata,  i  fiumi  son  ghiacciati,  gli  albeii  delle  foreste  si 
piegano  sotto  la  neve  e  i  porti  son  chiusi.  Ad  Abo  però  e  in  qualche 
altro  poi'to  entra  il  postale,  ma  solo  rompendo  il  ghiaccio  con  potenti 
ordegni. 

Nell'inverno  però  i  finlandesi  lavorano  e  si  divertono.  11  lavoro, 
che  più  si  adatta  a  questa  stagione,  è  il  taglio  dei  boschi,  e  i  tronchi 
tagliati  scorrono  facilmente  sul  suolo  ghiacciato  e  si  accatastano, 
preparando   nello   stesso  tempo  le  zattere,  che   porteranno  tutti  quei 


rio  in  Finlandia. 


42  IX    f^IXLAXDIA    CON    l'aMICO    COCCHI 

poveri  morti  della  foresta  al  mare.  Si  cambieraniio  poi  in  case,  in 
barche,  in  carta. 

Né  solo  al  bosco  si  riduce  il  lavoro  invernale.  Si  dissodano  i 
campi,  si  scavano  canali,  si  lavora  nelle  cave,  e  celebri  sono  quelle 
di  granito  rosso  e  di  porfido.  E  chi  può  rinunziare  ai  rudi  lavori  del 
povero,  esercita  i  muscoli  nelle  slitte,  nelle  partite  di  caccia  e  di 
pesca,  nelle  gare  di  pattinaggio  o  nelle  corse  sui  siiksit.  La  pesca  è 
una  delle  industrie  più  ricche  della  Finlandia,  ricca  com'è  di  acque 
dolci  e  salate,  ed  è  interessante  assai  l'assistere  alla  gran  fiera  del 
pesce,  che  si  fa  in  ottobre  nell'Esplanade  di  Helsingfors,  e  vi  accorrono 
a  comprarvi  i  pesci  salati  o  altrimenti  conservati  dalla  Svezia,  dalla 
Danimarca,  dalla  Russia  e  dalla  Germania.  E  col  pe.sce  in  quell'occa- 
sione si  fa  mercato  di  animali  domestici,  di  selvaggina,  di  pelli,  di 
granaglie  e  persino  di  stoffe.  Le  trote  e  i  salmoni  formano  la  delizia 
dei  pescatori  appassionati  che,  come  avviene  in  Norvegia,  vengono 
dall'Inghilterra  ed  anche  dall'America,  prendendo  in  affitto  una  por- 
zione d'un  illune  per  dedicarsi  allo  sport  dell'amo.  Per  la  pesca  com- 
merciale più  della  canna  serve  il  Loliipato,  specie  di  laberinto  o  di 
trappola,  che  si  prepara  in  vicinanza  di  rapidi  corsi  o  di  cadute 
d'acqua,  dove  il  pesce  si  sofferma  a  riposare  per  jirender  lena  a 
risalire  la  corrente  e  dove  invece  trova  la  morte. 

La  pesca  non  è  impedita  neppure  dal  ghiacciarsi  dell'acqua.  Il 
pescatore  nel  più  crudo  inverno,  quando  l'aria  è  così  fredda  da  far 
gelare  il  mercurio,  prende  la  sua  slitta  e  con  essa  va  al  mare  o  al 
fiume,  dove  vuol  pescare.  Rompe  il  ghiaccio,  facendovi  a  viva  forza 
un  pertugio,  che  poi  allarga  faticosamente.  Il  pesce  curioso  accorre 
al  nuovo  spiraglio  e  là  diviene  preda  dell'amo  e  della  fiocina. 

Quella  della  foca  (descriviamola  colle  stesse  parole  del  nostro 
compagno  di  viaggio)  è  piuttosto  caccia  che  pesca  e  vieii  fatta  in 
comitive.  Non  una  slitta,  ma  una  barca  di  forma  speciale,  è  trascinata 
sul  ghiaccio  per  servir  di  riparo  e  per  imbarco  in  qualche  tratto  di 
mare  libero  o  di  ghiaccio  non  resistente  e  sempre  poi  per  l'accolta  delle 
provvigioni  da  bocca  e  da  caccia  non  meno  che  per  il  trasporto  della 
preda  al  ritorno.  Si  usa  farla  quando  per  la  stagione  o  per  burrasche, 
rottosi  il  mantello  di  ghiaccio,  che  copre  il  mare,  vi  sono  ghiacci 
galleggianti  sull'acque.  Alle  foche  di  lago,  considerate  nocive  alla 
piscicoltura,  si  dà  la  caccia  in  qualunque  stagione  dell'anno. 

Giunta  in  luogo  propizio  la  comitiva  e  montata  la  vedetta,  si 
fanno  i  prejiaiativi  d'uso.  I  tiratori,  indossate  lunghe  cappe  bianche, 
imbracciano  spingarde  e  carabine  e  si  distendono  bocconi  sul  ghiaccio, 
tenendo  fra  corpo  e  ghiaccio  un'asse  sottile  e  leggera,  che  ne  sorpassa 
la  testa;  ivi  è  imperniata  un'altra  assicella  verticale,  la  quale  ha  due 
fori,  che  permettono  al  cacciatore  di  vedere  davanti  a  sé  e  può  pas- 
sarvi al  momento  voluto  la  bocca  dell'arma;  i  suoi  forti  stivali 
hanno  armate  le  punte  di  uncini  di  ferro,  coi  quali  aiutandosi  egli 
può  spingersi  davanti  in  qualunque  direzione,  senza  mutar  di  positura, 
coll'assicella  sotto  a  sé,  il  paratesta  in  avanti.  Se  la  foca  non  scopie 
l'insidia  o  se  scoprendola  non  ha  vicino  qualche  tratto  di  mare  libero, 
presto  cade  vittima  della  palla  micidiale.  Non  di  raro  però  cacciatore 
ed  apparecchio  cadono  nell'acqua  gelata  e  i  compagni  devono  farne 
il  salvataggio. 


IN    FINLANDIA   CON    l/ AMICO    COCCHI  -  43 


Anche  la  terra  dà  al  finlandese  non  troppo  avari  frutti.  Egli  coltiva 
il  grano,  la  segala,  Forzo,  l'avena,  le  patate,  le  rape  e  le  carote  e  da 
poco  tempo  nel  mezzogiorno  coltiva  il  grano  saraceno.  Antichissima 
è  la  coltura  della  canapa  e  del  lino. 

Il  lavoro  cainpestre  in  Finlandia  è  legolato  con  criteri  e  con 
sistemi  diversi  dai  nostri.  11  lavoi'atore  è  proprietario  o  affittuario 
{arentimies)  della  terra  che  coltiva  e  dove  non  sia  né  Funo  né  l'altro 
è  locatore  dell'opera  propria.  Locano  la  loro  opera  i  nullatenenti, 
la  locano  quei  piccoli  possidenti,  che  hanno  famiglia  e  tempo  esube- 
rante ai  bisogni  della  loro  piccola  azienda.  Locazioni  di  questa  natura 
le  fanno  ad  anni  o  per  determinati  lavori  -  a<l  esempio,  per  la  mietitura, 
per  il  taglio  di  un  bosco,  per  lo  scasso  e  il  dissodamento  d'un  terieno. 
Le  condizioni  variano  secondo  la  natura  e  la  durata  degli  obblighi 
contratti.  Generalmente  hanno  salari  con  alloggio  in  comune  e  vitto 
gli  opeiai  fissi,  scapoli  i  i»iù. 

L'istruzione  agraria  tiene  in  Finlandia  il  primo  posto  nell'inse- 
gnamento e  vi  è  dettata  nell'Università  di  Helsingfors  come  nella  più 
modesta  scuola  di  villaggio.  Le  scuole  rurali  d'agricoltura  sono  divise 
in  primarie,  in  superiori  e  in  professionali.  Alcune  delle  professionali 
sono  destinate  ad  istruire  i  giovani  nella  custodia  e  guardia  del  be- 
stiame, altre  a  formar  lavoratori  e  lavoratrici  nell'arte  del  caseificio, 
altre  mirano  a  dar  nozioni  meccaniche  e  fisiche  per  certe  arti  e  indu- 
strie rurali.  Nel  1897  delle  scuole  rurali  se  ne  noveravano  una  per 
ogni  1050  fanciulli  sotto  i  quindici  anni  e  fin  d'allora  fu  deliberato 
di  triplicarle.  Per  esservi  ammessi  i  fanciulli  devono  dare  esame  di 
leggere  e  scrivere. 

Una  società  fondatasi  fin  dal  1797  col  modesto  nome  di  Società 
di  economia  domestica  prosperò  con  piena  libertà  di  azione  e  col  con- 
corso di  uomini  distinti  per  nascita,  censo  e  dottrina  e  impresse  uno 
straordinario  movimento  ai  diversi  rami  dell'agricoltura.  Il  suo  primo 
successo  fu  la  creazione  nel  1809  di  un  gi'ande  istituto  agronomico, 
che  lo  Staio  «loto  subito  di  una  vasta  tenuta  di  ben  60011  ettari  di 
terreno.  È  questo  l'Istituto  di  Mustiala.  che  ha  lo  scopo  di  diffondere 
i  buoni  metodi  nell'agricoltura,  nella  pastorizia  e  nella  silvicoltura, 
di  sjterimentare  nuove  razze  di  animali  domestici  e  i  relativi  incro- 
ciamenti. 

Tutto  l'organismo  economico  e  educativo  è  in  Finlandia  fatto  in 
modo  da  accrescere  sempre  il  numero  dei  piccoli  proprietari  di  terre, 
ed  è  evidente  che  questo  è  il  mezzo  più  sicuro  per  sciogliere  i  più 
ardui  problemi  della  felicità  collettiva.  La  legge  vuole  che  sianvi  in 
ogni  provincia  agronomi  provinciali  coadiuvati  da  ingegneri  agricoli; 
Consigli  speciali  in  ogni  provincia  per  le  diverse  branche,  e  per  citarne 
taluni,  vi  sono  Consigli  e  consiglieri  per  l'arte  delle  latterie,  consi- 
glieri per  l'allevamento  del  bestiame  in  genere,  mentre  ve  ne  sono 
altri  per  l'ippica,  per  la  veterinaria  e  altri  per  la  coltivazione 
del  lino. 


La  scuola  è  in  Finlandia  l'organo  più  robusto  e  a  questo  forse  si 
deve,  che  sia  uno  dei  paesi  più  morali  e  più  colti  d'Europa,  tfno  scet- 
tico maligno  potrebbe  dire,  che  si  deve  invertire  la  frase  e  che  la  Fin- 


44 


IN    FINLANDIA   CON   L  AMICO    COCCHI 


landia,  appunto  perchè  per  natura  onesta  e  operosa,  lia  dato  alla  scuola 
il  più  grande  dei  suoi  amori.  Lasciamo  che  lo  scettico  rumini  il  tiele 
della  sua  malignità  e  t)attiamo  le  mani  airorganisnio  scolastico  tin- 
landese.  In  Finlandia  abbiamo  licei  moderni  e  licei  classici.  Nei  primi 
si  insegnano  le  lingue  vive  invece  delle  morte,  che  si  studiano  nei 
licei  classici.  Il  russo,  l'inglese  e  il  tedesco  sono  obbligatorii  e  il  fran- 
cese è  facoltativo.  Tutti  sanno  che  in   quel    paese  si  ])arlano  lo  sve- 


-;ala  interna  di- 


dese  e  il  fìnno.  Anche  nei  licei  moderni  però  si  può  imparare  il  greco 
invece  del  russo  da  quegli  scolari,  che  vogliono  dedicarsi  a  studi  filo- 
logi o  teologici. 

Le  scuole  si  aprono  di  settembre  e  si  chiudono  col  31  maggio.  Alle 
vacanze  estive  si  aggiungono  venticinque  giorni  a  Natale  e  alcuni  altri 
pochi  a  Pasqua  e  a  Pentecoste  e  un  giorno  di  riposo  obbligatorio 
ogni  mese. 

Qualunque  studente  di  liceo  classico  o  moderno,  che  ripete  due 
volte  vni  corso  senza  poter  passare  a  un  corso  superiore,  è  radiato  per 
sempre  dalla  scuola. 


IN    FINLANDIA    CON    I/AMICO   COCCHI  45 

L'istruzione  primaria  è  urbana  e  rurale  e  vi  sono  anche  scuole 
ambulanti,  che  portano  nei  luoghi  deserti  l'alfabeto  della  scienza.  In 
qualunque  luogo,  dove  sieno  trenta  fanciulli  in  età  da  frequentare  la 
scuola,  il  Comune  ha  l'obbligo  di  creare  il  distretto  scolastico  e  nessun 
maestro  può  avere  contemporaneamente  sotto  di  sé  più  di  cinquanta 
scolari,  i  quali  jiagano  pochissimo,  quando  non  ne  siano  dispensati 
per  povertà,  e  quel  poco  va  a  benefìzio  dei  maestri.  I  locali  di  queste 
scuole  rurali  sono  spaziosi  e  ben  aereati,  con  jiiccoli  quartieri  per  il 
maestro,  che  maschio  o  femmina,  deve  aver  fatto  gli  studi  in  una 
scuola  normale,  e  se  studiò  nel  solo  liceo,  deve  però  essere  approvato 
da  una  scuola  normale.  Le  scuole  urbane  si  distinguono  in  popolari 
elementari  e  in  popolari  propriamente  dette;  le  prime  frequentate  da 
bambini  dai  sei  ai  dieci  anni  di  età,  le  seconde  da  ragazzi  dai  dieci 
ai  quattordici  anni.  Ciascun  sesso  ha  le  proprie.  Ai  giovanetti,  che 
devono  imparare  un  mestiere  e  passare  la  giornata  nell'officina,  sono 
aperte  le  scuole  serali. 

In  questi  ullimi  tempi  si  sono  fondate  alcune  scuole  speciali,  che 
si  chiamano  priinuri.e  superiori  e  che  sono  aperte  da  novembre  ad 
aprile.  Vi  si  ammettono  studenti  d'ambo  i  sessi  dai  diciotto  ai  venti 
anni,  e  che  pagano  dalle  quindici  alle  venti  lire  all'anno.  Queste 
scuole,  mantenute  da  privati,  danno  un'istruzione  più  larga  a  quelli 
che,  volendo  dedicarsi  all'agricoltura,  vogliono  una  coltura  più  pro- 
fonda di  quella  che  si  dà  nelle  scuole  agrarie. 

L'Università  finlandese,  fondata  in  Abo  da  Per  Brahd,  fu  distrutta 
nel  1827  da  un  terribile  incendio  che  ridusse  in  cenere  tutto  un  tesoro 
<ii  libri,  di  manoscritti  e  di  cimelii  preziosissimi.  E  fu  allora  che  se 
ne  costrusse  una  nuova  in  Helsingfors.  che  riunisce  in  sé  l'osserva- 
toilo.  la  biblioteca,  le  cliniche,  il  manicomio  modello.  Essa  è  auto- 
noma ed  è  amministrata  da  un  Consiglio  che  ha  per  capo  un  rettore  di 
turno.  Conferisce  i  gradi  accademici  e  le  lauree  con  solennità  antica, 
nell'aula  magna,  in  forma  pubblica  alla  presenza  dei  dignitari,  con 
imposizione  del  berrettone,  della  toga,  con  l'anello  e  la  corona  d'alloro. 
Essa  conta  quaranta  professori  ordinari,  venti  straordinarii  e  sessanta 
professori  aggiunti  o  docenti,  oltre  un  gian  numero  di  lettori,  di 
assistenti  e  di  conservatori  di  musei,  ecc.;  tutto  un  esercito  di  grandi 
operai  delle  scienze. 

Accanto  all' università,  che  è  di  un'architettura  solenne  e  gran- 
diosa, troviamo  il  palazzo  o  la  casa  degli  studenti,  magnifica  anch'essa, 
e  che  è  una  specie  di  club  o  di  casino  per  uso  esclusivo  degli  studenti, 
che  vi  si  radunano  per  studiare  e  per  conversare. 

L'Università  finlandese  fra  le  sue  dipendenze  ha  anche  delle  sta- 
zioni polari  per  studiarvi  il  magnetismo  terrestre,  l'induzione  elettro- 
magnetica del  sole  sulla  terra,  le  aurore  boreali  e  tutti  quei  grandi 
fenomeni,  che  non  si  possono  studiare  che  nelle  regioni  misteriose 
del  jiolo. 

*  * 

11  nostro  Cocchi  ha  toccato  di  volo  l'arte  finlandese  e  di  certo  non 
:si  potrebbe  pretendere  da  lui,  che  con  un  soggiorno  breve  e  in  un 
sol  volume  egli  potesse  dare  fondo  a  tutta  una  monografia  della  Fin- 
landia. Egli  però  si  è  soffermato  con  amore  all'esame  della  poesia  e 
specialmente  di  quel  grande  poema,  Kalei^ala,  che  fu  cosi  profonda- 
mente studiato  dal  nostro  Compa retti  e  clie  si  ])otrebbe  battezzare  per 
la  Bibbia  dei  Finni. 


46  I.V   FINLANDIA    CON    l/ Ali  ICO    COCCHI 

In  un'appendife  eyli  ce  ne  dà  alcuni  brani  tradotti  la  italiano  e 
che  vorrei  almeno  in  parte  riportare  in  questa  breve  rivista,  se  lo 
spazio  me  lo  consentisse.  Meglio  sarà  che  i  lettori  della  Xttoua  Anto- 
logia li  ricerchino  coi  propri  occhi  e  ne  avranno  un  grande  diletto, 
spaziando  in  un  mondo  mistico,  tanto  lontano  da  noi  nello  spazio  e 
nel  tempo:  ma  che  è  pieno  di  una  jìoesia  nebbiosa,  evanescente,  grande 
come  i  misteri  del  polo  e  affascinante  ai)punto,  perchè  piena  di  fan- 
tasmi giganteschi,  ma  pur  sempre  umani.  E  i  fantasmi  in  ogni  tempo 
e  in  ogni  terra  scrissero  poesie  e  poemi  piii  delle  storie,  e  se  la  Bibbia 
e  la  Divina  Commedia  non  fossei'o  piene  di  fantasmi,  non  sarebbero 
i  due  più  grandi  libri  della  biblioteca  umana. 


Ciò  che  sorpicnde  un  lettore  di  lazza  latina  nel  leggere  il  libro 
del  Cocchi,  nel  cercai'  di  vedere  in  quelle  pagine  il  profilo  dei  fin- 
landesi, è  il  contemplarne  la  serena  onestà. 

Case  di  ricchi  e  capanne  di  poveri  son  sempre  aperte  di  giorno 
e  di  notte  e  qua  e  là  la  gruccia  e  il  saliscendi  tengono  il  posto  delle 
toppe  di  sicurezza  e  delle  nostre  complicate  serrature.  E  voi  vedete 
ville  signorili  campate  in  campagne  deserte,  senza  cancelli  dalle  punte 
crudeli  e  senza  porte  ferrate  per  difenderle  da  ladri  che  non  esistono. 
E  il  Cocchi  percorre  solo  campagne  e  boschi,  senza  aver  bisogno  di 
armi  o  di  coraggio,  perchè  sapeva  di  trovarsi  in  un  paese  tutto  di 
onesti  e  dove  non  si  incontra  mai,  come  tra  noi,  un  odioso,  ma  pur 
tanto  necessario  rappresentante  della  forza.  E  il  nostro  autore  vide 
nelle  case  dei  contadini,  degli  ojierai,  da  per  tutto,  scene  di  famiglia 
tenerissime,  bambini  cullati  o  imboccati  da  vecchi  e  fanciulli  che  bal- 
bettavano il  sillabario  fra  le  ginocchia  del  babbo.  Non  è  senza  orgo- 
glio che  ogni  cittadino  della  Finlandia  vi  dice:  noi  non  abbiamo  anal- 
fabeti, ed  è  con  tristezza  profonda  e  invidia  grandissima  che  leggo 
nelle  statistiche,  che  il  suicidio  è  in  Finlandia  rarissimo  (1  per  10(),(X)0) 
e  vedo  cosi  bianche  le  pagine,  che  devono  registrare  le  cifre  del  delitto. 
Triste  davvero  questa  fisica  sociale,  che  c'insegna  che  il  freddo  è  un 
educatore  del  cuore,  un  calmante  delle  passioni,  un  preventivo  del 
delitto  !  Il  ghiaccio  è  dunque  miglior  maestro  di  morale  del  prete  e 
del  carabiniere  e  per  non  peccare  conviene  mettere  la  co.scienza  in  un 
refrigerante  e  le  mani  sotto  la  neve.  Ma  è  proprio  così.  Il  freddo 
rallenta  la  vita  e  può  anche  spegnerla,  e  il  delitto,  come  l'amore,  come 
il  genio,  è  una  forma  della  vita,  che  suda  o  si  arroventa.  Forse  la 
civiltà  futura  troverà  modo  di  farci  onesti  senza  metterci  in  ghiaccio. 

Paolo  Mantegazza. 


MATERNITÀ 


DRAMMA     IX     QUATTRO     ATTI    Hi 


PERSONAGGI. 

Marchesa  Claudia  di  Montefranco.  Suor  Filomena. 

Marchese  Alfredo  di  Montbfrani'o  Olghina. 

Maurizio  Dorixi.  Filippo. 

Il  Duca  di  Vigen.\.  Decio,  domestico  di  Maurizio   Dorini. 

Rosalia.  Un  servo  del  March,  di  Montefranco. 

Teresa.  Tre  bimbi. 

EPOCA  ATTUALE  —  A  XAPOLI  E  PRESSO  NAPOLI. 


ATTO  PRIMO. 

Un  salotto  da  celibe  in  casa  di  Maurizio  Dorini.  —  Una  porta  in  fondo. 
Una  porta  laterale.  —  Una  Bnestra.  —  Alla  porta  in  fondo  una  pesante  portiera 
a  guisa  di  cortina. 

SCENA  I. 
Olghina,  Decio,  la  voce  di  Maurizio. 

Olghina  —  {entra  dalla  porta  laterale  con  hi  capo  il  cappello,  ab- 
bottonandosi l'abito.  Apre  la  finestra.  Bespira  giocondamente).  Ah  ! 
che  bella  giornata!  (Tocca  il  bottone  del  catnpancllo  elettrico). 

La  voce  di  Maurizio.  —  Non  tare  complimenti,  Olghina.  Comanda 
qnello  che  vuoi. 

Olghina.  —  Non  faccio  complimenti.  Grazie. 

Decio  —  (entrando  dal  fondo).  Caffè  nero?  Caffè  e  latte '^  Cioccolata? 
Tè"?  Burro?  Confettura? 

Olghina  —  (timida).  Del  caffè  e  latte  e  del  burro. 

Decio  —  (esce). 

Olghina  —  (siede  dinanzi  a  un  tavolino  e  aspetta). 

La  voce  di  Maurizio.  —  Olghina.  hai  dimenticato  i  guanti. 

il)  Siamo  grati  all'Autore  di  questo  lavoro,  che  ebbe  sì  favorevole  accoglienza 
sulle  scene  italiane,  per  aver  consentito  ad  attenuare  il  verismo  di  alcuni  punti 
ed  a  modificare  certi  brani  nel  testo  che  pubblichiamo  sulla  nostra  Rivista,  seb- 
bene le  modificazioni  fatte  rendano,  secondo  lui.  qua  e  là,  meno  snello  ed  efficace 
il  dialogo.  Il  testo  autentico  sarà  pubblicato  in  volume. 

{.V.  II.  D.) 


48  MATERNITÀ 

Olghixa.  —  Portameli  tu  se  tiai  fatto  il  tuo  bagno.  Mi  manderesl  i 
via  senza  salutarmi  ? 

La  voce  di  Maurizio.  —  No.  cara.  Mi  vesto  e  vengo. 

Decio  —  (ritorna.  Porta  e  mette  sul  tavolino  un  vassoio  co)i  tuffn 
Voccorrente).  Faccio  io"? 

Olghi.xa.  —  Fate  voi. 

Decio  —  {servendo).  Basta  zucchero? 

Olghina.  —  Basta. 

Decio.  —  Basta  latte? 

Olghina.  —  Basta. 

Decio.  —  Basta  caffè  "? 

Olghina.  —  Basta. 

Decio  —  (ind'cando).  Basta  pane  e  burro? 

Olghina.  —  Sì,  basta. 

Decio.  —  Tutto  a  discrezione.  Questi  sono  gli  ordini  che  ho  ricevuti. 

Olghina  —  {cerimoniosa).  Troppa  cortesia!...  {Chiamando)   Maurizid! 

La  voce  di  Maurizio.  —  Amore  mio  ! 

Olghina.  —  E  tu  non  pigli  niente? 

La  voce  di  Maurizio.  —  A  quest'ora,  mai.  Sarebl)e  come  un  veleno 
per  il  mio  stomaco. 

Decio.  —  Fa  colazione  ogni  giorno  alle  dodici  precise.  E  alle  dodici 
meno  un  minuto  beve  un  bicchierino  di  aperitivo.  Questa  è  la 
regola.  Ah  !  Lui  è  un  orologio.  Vi  ci  troverete  bene.  Tutto  sta  a 
capire  le  sue  abitudini,  lo  mi  ci  trovo  bene  perchè  le  ho  capite.  È 
vero  che  una  cosa  è  fare  il  domestico  è  un'altra  è  fare...  quello 
che  fate  voi.  Ma  abbiamo  dei  doveri  tutt'e  due... 

Olghina.  —  Io  spero  di  accontentarlo.  È  cosi  buono  ! 

Decio  —  {confidensiabnenté).  E  poi  le  tratta  bene  le  donne.  Nessuna 
si  è  mai  lamentata. 

Olghina.  —  Ne  cambia  spesso? 

Decio.  —  No.  ' 

Olghina.  —  Si  vede  che  è  molto  delicato. 

Decio.  —  Le  tratta,  vi  dico,  come  se  fossero  sua  moglie. 

Olghina.  —  Difatti,  me  ne  sono  accorta.  Non  mi  ha  dato  quasi  nes- 
suna noia. 

Decio.  —  Avete  dormito  bene? 

Olghina.  —  Benissimo. 

La  voce  di  Maurizio.  —  Decio!  Decio!  Prepara  i  manubri. 

Decio  —  {da  un  angolo  della  camera,  prende  i  manubri,  il  porta  nel 
mezzo  e  li  spolcera). 

Olghina.  —  A  che  servono  ? 

Decio.  —  Fa  la  ginnastica  per  riscaldarsi. 


SGENA  II. 
Maurizio,  Olghina,  Decio. 

Maurizio  —  (entra  dalla  porta  laterale  fregandosi  le  mani.  Cava  di 

tasca  un  paio  di  guanti  e  li  porge  a  Olghina).  I  tuoi  guanti. 
Olghina.  —  Come  sei  gentile  ! 
Maurizio.  —  Chi  è  che  ha  aperto  quella  finestra? 
Olghjna.  —  lo. 
Maurizio  —  (rabbrividendo).  No,  bambina!  Non  lo  fare  più.  Dopo  il 


MATERNITÀ  49 

bapno  freddo  una  tinenlra  spalancala  è  la  morie.   Chiudi.  Decio! 

Chiudi. 
Decio  —  {esegue). 
Oi.GiiiNA.  —  Scusami.  Non  sapevo. 
Maurizio  —  {cominciando  le  snc  esercitazioni  con  i  manuhri).  Mi  jier- 

metti,  eh  f 
Olghina  —  {bevendo  l'ultimo  sorso).  Ti  prego. 

Maurizio.  —  Ho  dei  brividi  addosso   e  hisogna   che   affretti   la  rea- 
zione, altrimenti  mi  busco  un  malanno.  Già,  è  così  :  se  non  dormo 

le  mie  otto  ore  di  seguito,  resto  sconcertato.  Sbarazza,  Decio. 
Decio  —  (a  Olghina).  Basta  zucchero"?  Basta  caffè"?  Basta  latte?  Basta 

pane  e  burro 'i? 
Olghina.  —  Non  desidero  altro.  Sbarazzate. 
Decio  —  (esegue). 

Maurizio  —  (a  Decio  die  sta  per  uscire).  Ehi!  alle  dodici... 
Decio.  —  Colazione. 

Maurizio.  —  Alle  dodici  meno  un  minuto... 
Decio.  —  Aperitivo.  (Via  dal  fondo). 

{Un  silenzio). 
Maurizio  —  (è  tutto  intento  alle  esercitazioni  ginnastiche). 
Olghina.  —  Ne  hai  per  un  pezzo"? 
Maurizio.  —  Ancora  un  poco.   Ma  hi   parla  pure 
Olghina.  —  Volevo  domandarti... 
ìMaurizio.  —  Domanda,  caia. 
Olghina.  —  Non  hai  da  lamentarti  di  me"? 
Maurizio.  —  No.  cara. 
Olghina.  —  Temevo  che... 
ìMaurizio.  —  Ma  no. 

Olghina.  —  Hai  detto  di  non  aver  riposato  al)l)aslanza. 
Maurizio.  —  Su  questo  ci  accomoderemo. 
Olghina.  —  Certo. 

Maurizio.  —  La  cosa  che  m'impensierisce  un  pochino  è  uiraltra. 
Olghina.  —  Dimmela  subito. 

Maurizio.  —  Noi  non  ci  vediamo  che  tre  volle  la  settimana. 
Olghina.  —  L'hai  voluto  tu. 
Maurizio.  —  E  così  dev'essere.   Chi   tocca    la    (luai-anlina   deve    fare 

economia  di  emozioni... 
Olghina.  —  E  dunque"? 

Maurizio.  —  Ma  probabilmente  tutti  gli  altri  giorni  non  resterai...  sola. 
Olghina.  —  Sei  geloso"? 
M.^urizio.  —  Neanche  per  sogno.  Senonchè,  io  vorrei  sapeie  chi  è  che 

li  terrà  compagnia.  Con  certe  cose,  non  si  scherza. 
Olghina.  —  Quando  qualcuno  mi  farà  la  corte,  io  te  ne  informerò.  E 

se  egli  non  ti  garba,  lo  manderò  al  diavolo. 
Maurizio.  —  Questo  significa  essere  una  ragazza  a  modo. 
Olghina.  —  Che  se  poi  è  di  tuo  gusto... 

Maurizio.  —  lo  chiuderò  un  occhio,  ed  egli  ne  chiuderà  un  altro. 
Olghina.  —  Però...  pensavo... 
Maurizio.  —  Tu  pensavi  "?  È  un  bel  fenomeno  ! 
Olghina.  —  Sujiponiamo    che    ciascuno    chiuderà    l'occhio    che   deve 

chiudere. 
Maurizio.  —  Supponiamolo. 
Olghina.  —  Potrà  darsi  il  caso  che  io... 

4  Voi.  evi,  Serie  IV  .  1°  IngUo  1903. 


r^  MATERNITÀ 

Maurizio.  —  Che  tu...'.' 

Oi-GHiNA.  —  TjO  dicono  tutti  fhe  somiglio  a  mia   madre    quando   era 

giovane  ! 
Maurizio.  —  Brava! 

Olohina.  —  Mia  madre  alla  mia  età  cominciò  ad  aver  figliuoli. 
Maurizio  —  {lasciando  d' mi  colpo  i  matitthri  die  cascano  rumorosa- 
mente). Eh"? 
OlCtHINA.  —  Se  ne  ho  uno  io.  olii  sarà  il  padre"? 
Maurizio.  —  Nessuno! 
Oi.ohina.  —  Come  nessutto  ? 

Maurizio.  —  Ma  che  idee  malinconiche  adesso  ti  passano  per  la  mente"? 
Mi  sentivo  meglio,  ed  ecco  che  il  sangue  mi  è  affluito  alla  testa. 
Avrò  l'emicrania  tutta  la  giornata. 
Olghina.  —  No.  non  temere,  lo  non  sarei  una  di  quelle  che.  col  pre- 
testo dei  bimbi,  si  aggrappano  agli  uomini  e  diventano  un    eni- 
piastro.  Non  te  ne  darei  mai  dei  fastidii. 
{Pausa). 
Maurizio  —  {preoccupato).  Non  è  questione  di  fastidii.    (Mettendo   a 
posto  i  manubri)    Ciò  che  hai  detto,  bambina  mia.    è    più    serio 
che  tu  non  creda,  perchè,  in  sostanza,  se  quel  caso  si  desse,  non 
ci  saiebbe  nemmeno  da  seguire...  l'impulso  della  propria  coscienza  ! 
Come  diavolo  si  potrebbe  appurare  la  verità"? 
Olohina.  —  Appunto.  Hai  ragione  tu.  Nessuno  sarebbe  il  padre. 
Maurizio.  —  Senti,  visto  che  ci  sono  di  queste  probabilità,  lasciamo 

andare.  Meglio  non  vederci  pili. 
OuGHiNA.  —  Sei  cattivo! 

Maurizio.  —  Se  fossi  cattivo,  farei  il  comodo  mio!  Invece  no.  lo  mi 
conosco.  Con  un  tale  pensiero  nella  testa,  io  non  vivrei  più  in 
pace.  Ne.  piglierei  una  malattia.  Senza  dire  poi  che  diventerei... 
inabile  a  qualunque  pratica  galante!  No.  no!  Non  ci  dobbiamo 
più  vedere. 
Oi.GHiXA.  —  lo  mi  ci  sono  affezionata  a  te. 
M.U'Rizio.  —  Di  già"?! 

Olghixa.  —  Stiamo  insieme  da  undici  oie... 
Maurizio.  —  Hai  l'affetto  galoppante! 

OuGHiNA.  —  E  non  voglio  finirla.  Tu  mi  tratti  bene.  Mi  tratti   come 
una  signora...  come    una  moglie...  E  piuttosto  che  finirla,  prefe- 
risco... che  nessun  altro  mi  faccia  la  corte. 
Maurizio.  —  Io  ti  ringrazio  del  gentile  pensiero,  ma  con  questo  non 

si  risolve  il  problema. 
Olghina.  —  Al  resto  penserò  io. 
Maurizio.  —  A  che  cosa  vuoi  pensare  tu  '? 

Olghina  —  {dopo  un  istante  di  riflessione,  decide).  Allora...  te  lo  pro- 
metto :  non  farò  come  mia  madre. 
Maurizio.  —  Ora  sì  che  possiamo  intenderci.  Sei  veramente  una  l'a- 

gazza  a  modo.  Qui,  qui,  un  bacetto,  e  a  rivederci. 
Olghina  —  {gli  dà  un  bacio).  A  domani  sera? 
Maurizio.  —  A  domani  sera,   carina. 
Olghina  —  [esce  dal  fondo). 

Maurizio  —  {toccandosi  le  tempie).  Ahi,  ahi,  ahi!  L'emicrania!...  un 
poco  di  riposo  mi  gioverà.  {Si  stende  sopra  il  canapè). 


MATERNITÀ  51 


SCENA    III. 

Maukizio.  Decio.  donna  Claudia. 

Decio  —  {entra  lemme  lemme  con  la  sua  aria  stupida). 

Maurizio.  —  Non   disturbarmi,    Decio.   Ho  l' emicrania.    Finché  non 

viene  il  marcliese  di  Monlefranco,  lasciami  liposare. 
Dkcio.  —  Non  posso.  Di  là,  ce  n'è  un'altra. 
.Maurizio.  —  Ce  n'è  un'altra!? 
Decio.  —  Un'altra   donna.    Per  un    punto   non    si    sono    incontiale 

tutt'e  due  ! 
Maurizio.  —  E  chi  è  '? 

Decio.  —  Non  ha  voluto  dire  il  suo  nome,   io  non    volevo  riceverla, 
perchè  sapevo  che...  essendoci  stata  quella  lì...  era  pei  lettamente 
inutile...  imjìortunarvi.  Ma  ha  insistito. 
Maurizio.  —  Che  aspetto  ha  ? 
Decio.  —  Buono. 

Maurizio.  —  Che  vuoi  dire  buono? 
Decio.  —  Belloccia...  Elefante... 
Maurizio.  —  Una...  delle  solite"? 
Decio  —  (fìlosofìramente).  Chi  io  sa!  A  me  come  me  non  c'è  nessuna 

donna  che  non  sembri  una  delle  solite. 
Maurizio.  —  Giacché  ti  sei  preso  1'  incarico  di   annunziarla,  la   devo 

ricevere  per  forza.  Falla  passare. 
Decio  —  {via). 
Maurizio  —  {tra  s'è).  Santo  cielo!  Chi  è  che  viene  a  seccaimi  a  (pic- 

st'ora  "? 
Claudia  —  (entra  dal  fondo). 

Maurizio  —  {scatta  in  piedi  in  un  sussulto  di  meravifilia).  \'oi.  mar- 
chesa ! 
(Claudia.  —  Vi  sembra  strano  che  io  vi  faccia  una  visita  "? 
Maurizio  —  {confuso).  Non  lo  nego...  Mi  sembra  stranissimo...  lo  non 
ho  mai  sperato  d'avere  quest'onore...  E  poi...  alle  undici  del  mat- 
tino... Non  so...  Non  intendo...  E  vi  chiedo  peidono.  marchesa... 
della  mia...  delle  mie...  dei  miei... 
Claudia.  —  Dei  vostri? 

Maurizio.  —  No.  Del  mio  imbarazzo,  ecco.  Accomodatevi  ;  vi   prego, 
accomodatevi...  lo  sono  mortificato  di  dovervi  ricevere  in   (piesto 
disordine,  in  questo  piccolo  salotto...  Se  l'avessi  saputo... 
Claudia.  —  L'avreste  fatto  ingrandire? 

Maurizio.  —  Sì  !...  Cioè...  Forse...  Scusatemi,  marchesa,  io  sono  emo- 
zionato ! 
Claudia.  —  Ma  non  c'è  di  che.  Calmatevi.  Prendete  fiato. 
Maurizio.  —  Non  vi  è  accaduto  nulla  di  grave  ? 
Claudia.  —  Nulla,  nulla.  Non  vedete  che  sono  sorridente? 
Maurizio.  —  Lo  vedo.  Siete  molto  sorridente.   E   allora...  io  non  mi 
spiego  la  vostra...  preziosa...  inaspettata...  inverosimile  presenza 
in  casa  mia.  Certo,  io  sono  un  vostro  antico  e  devoto  servo,  sono 
l'amico  più  intimo  di  vostro  marito  ;  ma  sono  anche... 
Claudia.  —  Lino  scapolo. 
Maurizio.  —  Uno  scapolo.  È  la  verità. 


.^"2  MATHHNITA 

Ci.vi'DiA.  —  R  una  signoia  che  alle  umlici  del  niaUiiio  l)iissa  alla  pnita 
(li  imo  scapolo  è  una  si<j:uoia...  Aiutatemi  a  dire... 

Maliuzio.  —  Dite,  dite  voi. 

Clai'dia.   —  È  una  signora...  iiiuttoslo  bizzarra. 

MALiHizro.  —  E  piuttosto  imprudente,  mi  permetterei  di  agginn<iere 

Claudia.  —  Aggiungete  senza  cerimcmie. 

Maurizio.  —  Imprudente,  intendiamoci,  dal  punto  di  vista  delle  con- 
venienze sociali.  La  marchesa  di  Montefranco  -  questo  è  asso- 
dato -  è  tale  donna  da  costringere  al  rispetto  i  più  audaci;  e  io 
sono  tale  uomo  da  rispettare... 

(Claudia.  —  Anche  le  signore  che  vengono  a  vedervi  alle  undici  del 
mattino  f 

.M.vuRrzTO.  —  Marchesa...  luia  donna  come  voi  è  rispettabile  a  tulle 
le  ore. 

Claudia.  —  Resta  a  sapei-e  se  a  tutte  le  ore  è  rispettoso  un  uomo 
come  voi. 

Maurizio.  —  Certamente. 

Claudia.  —  Mi  fa  piacere  di  appienderlo.  E  poiché  avete  di  me  e  di 
voi  questa  magnifica  opinione,  io  ne  profitto  e  vi  chiedo  un  i»)' 
di  ospitalità.  {Siede). 

M.VURiziO  —  {sempre  più  confuso).  \'oi,  marchesa  di  Montefranco,  chii'- 
dete  ospitalità  a  questo  misero  mortale"? 

Claudia.  —  Vorreste...  indorale  la  i)illola  della  paura. 

Maurizio.  —  lo  non  indoro  niente. 

Claudia.  —  Ma  che  abbiate  paura,  si  vede  a  occhio  nudo. 

Maurizio.  —  Tutt'altro  !  Soltanto  io  supplico  la  vostra  cortesia  di  uoii 
tacermi  più  oltre  il  motivo  per  cui  vi  de.miate  di  chiedermi  ospi- 
talità. 

Claudia.  —  Se  io  fossi  nei  vostri  |)aiini,  la  concederei  subito  e  illi- 
mitatamente. (Cow-  grazia  umoristica)  È  vero  die  voi  siete  ri- 
spettoso e  io  sono  rispettabile:  ma  la  rispettabilità  d"  una  donna 
non  è  che  un  pallone  di  carta.  Un  vento  lo  dirige  di  là.  un  altro 
lo  dirige  di  qua...  Poi  a  un  tratto  si  brucia  in  aria  o  si  sgonfia 
e...  cade  do\e  meno  lo  credett'. 

Maurizio  —  (sudando  freddo).    Marchesa  !... 

Claudia.  —  Dio  buono,  non  vi  turbate  di  nuovo.  Vi  pare  forse  che 
la  caduta  sia  imminente  1 

Maurizio.  —  Marchesa!... 

Claudia.  —  Parola  d'onure.  se  tutti  i  mariti  avessero  degli  amici  in- 
timi come  voi,  le  povere  mogli  mi  farebbero  pietà!  Ma  rassicu- 
ratevi. Il  pallone  di  carta  è  ancora  gonfio.  È  ancora  su.  Non  sono 
qui  per  offrirvi  la  mia  mano  sinistra. 

Maurizio.  —  Ne  ho  la  profonda  convinzione. 

Claudia.  —  Io  sono  qui,  a  quest'ora,  esclusivamente  perchè  so  che 
a  quest'ora,  di  solito,  ci  viene  mio  marito. 

Maurizio.  —  E  appunto  perciò  mi  par  d'essere  sui  carboni  ardenti. 
E  indiscutibile  che  se  egli  vi  trova  in  casa  mia,  sarà  un  fatto  or- 
ribile !  lo  non  saprò  come  regolarmi,  non  saprò  come  salvarvi... 

Claudia.  —  Siete  d'una  esperienza  commovente  !  Quando  verrà  Ini, 
io  mi  nasconderò.  Si  capisce. 

Maurizio.  —  Vi  nai;conderete  ";"  ! 

Claudia.  —  E  ascolterò,  dalla  prima  alluUima  parola,  la  vostra  con- 
versazione. 


MATERNITÀ  53 

Maurizio  —  (cominchindn  a  mccapeszarsi).  Ah  !...  Questo  è  il  vostro 

progetto  ? 
(Ii.AUDiA.  —  Voi  siete  il  confidente  di  mio  marito.  Egli  è  con  voi  come 
con  un  fratello.  V'i  racconta  tutto.  \'ì  la  i  suoi  sfoghi.  Vi  rivela 
(luel  che  pensa,  quel  che  sente,  quel  che  desidera,  quel  che  vuole, 
quel  che  gli  passa  pel  capo  anche  fugacemente,  quel  che  per  la 
pigrizia  della  sua  coscienza  non  rivelerebbe  forse  neppure  a  se 
stesso  ;ed  io.  nascondendomi  dietro  un  uscio  di  casa  vostra  quando 
egli  è  qui.  apprenderò  tutto  ciò  che  non  potrei  apprendere  altri- 
menti. Né  più,  né  meno.  Che  ve  ne  pare  ? 
.Macrizio.  —  Un  agguato  ! 

CiAiDiA.  —  Un  po'  di  fotografia  istantanea  che  una   moglie  applica 
al  cervello  di  suo  marito.  Il  congegno  è  nuovo,  semplice,  carino, 
e  di  successo  sicuro. 
Maurizio.  —  Ci  vorrebbe  poco  a  guastarlo,  per  altro. 
Claudia.  —  Lo  so.  Basterebbe  che  avvertiste  in  tempo  il  vostro  amico, 
dicendogli:  «Attento  che  tua  moglie  è  qui:  è  dietro  quell" uscio, 
ti  ascolta...  »  Ma  voi  non  glielo  direte. 
Maurizio.  —  Glielo  dirò! 
/^.laudia.  —  E  avrete  poi  il  modo  di  provare  j)ositivamente  che  la  mia 
^'       venuta  in  casa  vostra  non  sia  stata  un"  im])rudenza   di    amante"? 
La  vostra  denunzia  parrebbe  un  espediente  trovato  con  soverchia 
furberia  per  iscansare  l'eventuale  pericolo  della  scoperta:  e  ogni 
sforzo  per  dimostrargli  la  \erità    parrebbe,    viceversa,    artificio  e 
menzogna.  Voi  com])rometlereste  me.  lo  comprometterei  voi.  Tutt'e 
due  comprometteremmo  lui.  E  vi  avverto  che  ci  metterei  tutta  la 
mia  buona  volontà  a  compromettervi  per  vendicarmi  della  vostra 
denunzia. 
.Maurizio.  —  Sicché? 

Claudia.  ^  0  passare  per  il  mio  amante  senza  esserlo  e  subire  tutte 
le  conseguenze  della    compromissione,  o  rassegnarvi,  almeno  pei- 
una  volta,  a  essere  più  ^mico  mio  die  di  mio  marito. 
Maurizio.  —  0  la  borsa  o  la  vita?! 
Claudia.  —  Precisamente. 
ìMaurizio.  —  Ma  passare  per  il  vostro  amante  senza  nemmeno  esserlo. 

sarebbe  d'una  gravità  eccezionale  ! 
Claudia.  —  Pettegolezzi,  responsabilità,  duelli,  processi  1  E,  per  giunta. 

una  figura  alquanto  odiosa  al  cospetto  della  società... 
Maurizio.  —  Alquanto  ridicola  al  cospetto  mio! 
Claudia.  —  Scegliete. 

Maurizio.  —  Sarò  il  vostro  conqilice.  marchesa! 
Claudia.  —  E  farete  una  buona  azione. 

Maurizio.  —  Credo  nondimeno  che  la  mia  complicità  non  approderà 
a  niente.  La  vostra  fantasia  di  moglie  diftìdenfe  immagina  chi  sa 
quali  conversazioni  sovversive  fra  me  e  lui.  Sì,  di  tanto  in  tanto, 
è  possibile  ch'egli  mi  faccia  delle  confidenze,  che  mi  chieda  o  mi 
dia  dei  consigli,  che  mi  apra  l'animo  suo:  ma  dai  nostri  colloqui 
non  vengono  mai  fuori  rivelazioni  o  indizi  di  cui  voi,  che  avete 
molto  spirito  e  poche  rosee  illusoni,  vi  potreste  meravigliare  o 
d(jlei-e.  D'altronde,  stamane  egli  potrebbe  parlarmi  di  cavalli,  di 
autoM'.obili,  dei  sospetti  che  desta  la  vena  di  Mario  Corlini  ;  po- 
ti('bl>e  parlarmi,  non  so.  di  tutto,  fuoichè  di  ciò  clic  v'interessa, 
fuorché  di   ciò   che  é  oiigctlo  dei    xoslil   (lul)bii  ;  e  in    lai   caso   io 


54  MATRKNITÀ 

avrei  tnuiito  ramicizia  senza  neaiii'he  la  sotldislazioiif  d'avervi 
reso  un  servigio.  Via.  marchesa,  rinunziate. 
("-i.Ai'DiA.  —  Mio  carissimo  amico  di  mio  marito,  se  i  miei  calcoli  non 
sono  sbagliati,  egli,  stamane,  non  vi  parlerà  ne  di  cavalli,  né  di 
automobili,  né  di  baccarat.  \'edrete.  L'uomo  più  scaltro  è  sempre 
un  po'  un  fantoccio  nelle  mani  di  una  donna,  sia  pur  essa  la  più 
ingenua.  Io  non  sono  ingenua,  e  mio  marito  non  è  scaltro.  R 
convinto  di  esserlo,  ma  non  è.  (Confondere  lo  scetticismo  con  la 
scaltrezza  è  un  ei'rore.  Io  ho  data  la  corda  al  mio  fantoccio,  e  per 
oggi  egli  non  vi  parlerà  di  cose  futili.  Del  resto,  gliel'  ho  data 
senza  nessuna  maligna  premeditazione.  Ho  compiuto  anzi  un  mio 
dovere,  annunziandogli  un  fatto  molto  serio  e  per  me  anche  molto 
bello  !  Il  suo  contegno  mi  ha  paralizzata.  Ho  sentito  il  bisogno 
di  conoscere  tutto  infero  il  suo  pensiero.  Ne  ho  sentito  il  diritto. 
P^i'a  breve,  lo  conoscerò.  E  non  c'è  altro. 
Maurizio.  —  Tutto  questo,  marchesa,  è  d'una  solennità  che  m'im- 
pensierisce, che  mi  sconvolge. 
Claudia.  —  Io  vi  assicuro,  mio  buon  Maurizio,  che.  mentre  vi  parlo, 
nessuna  donna  è  più  felice  di  me. 

Maurizio.  —  lo  participerei  volentieri  alla  vostra  felicità  se  mi  fosse 

consentito  di  non  trovarmi  qui.  vicino  a  voi. 
Claudia.  —  th-edele  dunque  pro|)rio  che  stia  per  cascare  il  mondo? 

Maurizio.  —  11  mondo,  no  ;  ma  una  tegola  sul  mio  capo,  si.  Io  ne 
ho  il  presentimento. 

Claudia  —  (alandosi}.  Guardatemi  in  faccia  e  avrete  invece  il  pre- 
sentimento più  lieto  che  si  possa  avere. 

Maurizio.  —  Ma  è  permesso  almeno  di  saper  la  ragione  della  vostra 
insuperabile  felicità  .' 

Claudia  —  {con  (ili  ocelli  pieni  di  luce).  Una  ragione  grande  grande 
grande  ! 

Maurizio.  —  Che  non  volete  ilii'ini  .' 

Claudia.  —  Ve  la  dirà  lui,  non  dubitate. 

Maurizio  —  {solibahondu).  A  proposito!...  Egli  può  capitarci  addosso 
da  un  momento  all'  altro.  Entra  spesso  senza  farsi  anmmziaie. 
Per  carità,  marchesa,  non  ci  lasciamo  .sorprendere  !  Avete  defini- 
tivamente deciso  di  aspettarlo? 

Claudia.  —  Ne  dubitate  ancora  ? 

Maurizio.  —  Ebbene,  se  siete  irremovibile,  nascondetevi  subito,  e  che 
Dio  mi  protegga  !    {Indicando  f  uscio  laterale)  Qui,  qui... 

Claudia  —  {prima  di  aprire,  maliziosamente).  Che  camera  è  questa? 

Maurizio  —  {i mìiarazzatissimo) .  Marchesa,  è  la  mia  camera...  da  letto. 
Ne  sono  dolente,  ma  è  cosi.  È  la  .sola  che  sia  attigua  al  mio  salotto. 

Claudia.  —  Meglio!  È  la  camera  più  conqirometteiite.  Ciò  mi  garantisce 
la  vostra  complicità.  {Apre.  Guarda).  C.amera  da  letto...  per  due? 

Maurizio.  —  Io...  di  notte...  ho  l'abitudine  di... 

Claudia.  —  Di  raddoppiarvi  ? 

Maurizio.  —  Press'a  poco,  marchesa. 

Claudia.  —  Meraviglioso  ! 

Maurizio.  —  Mah  ! 

Claudia  —  {uscendo).  Vi  raccomando,  Maurizio.  Lasciatelo  parlare. 

Maurizio.  —  Io  ne  piglio  una  malattia  ! 

Claudia  —  (chiude). 


MATERNITÀ 


SCENA  y\\ 

Maluizio.  Decuo.  indi  Au'kkdu. 

Maiirizio  —  [in  (jrande  orgasmo,  tocca  due,  tre.  quatlro  vuìfe  urgente- 
mente il  fiottone  del  campanello  elettrico). 

Decio  —  (entrando,  assume  il  suo  aspetto  di  serco  esperto). 

Maurizio.  —  Decio...  la  signora  di  poco  fa  se  n'è  andata. 

IJecio.  —  Diciamo  così,  la  seconda  signora. 

Maurizio.  —  La  seconda  signora. 

Decio.  —  lo,  non  1"  ho  vi-sta  uscire. 

Maurizio.  —  Perchè  sei  uno  stordito.  {Martellando  le  parole}  Se  ne  è 
andata  ! 

Decio  —  {ride}.  Eh,  eh,  eh! 

Maurizio.  —  Non  ridere  ([iiando  ti  do  degli  ordini. 

Decio.  —  Se  ne  è  andata. 

Maurizio. — Se  viene  il  marchese  di  Montetianco.  \n\ò  entrare  libera- 
mente come  al  solito. 

Decio.  —  11  marchese  è  venuto  un  minuto  tii. 

Maurizio  —  {spaventato}.  Santi  numi!  E  che  gli  hai  (h'tloV 

Decio.  —  L'ho  pregato  di  aspettare  un  momentino. 

Maurizio.  —  Non  gli  hai  detto  altro".' 

Decio.  —  Non  una  parola  di  più.  Conosco  i  miei  doveri. 

Maurizio.  —  \'a!  Presto!  Chiamalo!  Presto!  Decio!  Muoviti!  Muovili! 

Decio  —  (esce  correndo). 

Maurizio.  —  Io  ne  piglio  una  malattia  ! 

Alfredo  —  (entrando).  Come!  Sei  solo'.' 

Maurizio.  —  0  perchè  non  dovrei  essere  solo";? 

Alfredo.  —  11  tuo  servo  mi  ha  fatto  aspettare. 

]\1aurizio.  —  Ti  domando  mille  scuse.  È  stato  un  ecpiivoco. 

Alfredo.  —  Egli  aveva  una  certa  faccia! 

Maurizio  —  (accalorandosi).  Ma  che  faccia  si  è  [M'iiucsso  di  avere  ([uel- 
r  animale?! 

Alfredo.  —  La  faccia  del  servo  di  un  padrone  che  è  in  buona  com- 
pagnia. 

Maurizio.  —  Io  mi  meraviglio  di  te  che  stai  a  guardare  la  faccia  del 
mio  servo!  Queir  uomo  è  un  bugiardo. 

Alfredo.  —  Se  non  ha  parlato  ! 

Maurizio.  —  È  un  bugiardo  sopratutto  quando  tace.  Io  non  ero  né  in 
buona  né  in  cattiva  compagnia.  E  ti  prego  di  credermi.  Domando  e 
dico:  perchè  non  dovi'ei  esser  solo"? 

Alfredo.  —  Ma  tini.scila.  .\vevo  creduto  che  non  ti  fossi  ancora  libe- 
rato dalla  piccola  Olga. 

yi.\.vsR.uio  —  (rasserenandosi).  Ah!  Dalla  piccola  Olga:'...  Difatti... 

Alfredo.  —  Ma  guarda  che  gesuita!  Ci  scommetto  che  per  non  far- 
mela incontrare  1'  hai  mandata  via,  alla  chetichella,  per  la  porla 
di  servizio  ! 

Maurizio.  —  R  probabile. 

.\lfredo. — Come  se  io  pi)i  non  fossi  al  corrente  di  tutto!  Tre  volte 
la  settimana!  Lunedì,  mercoledì  e  venerdì.  Oh!  Hai  fatto  un  buon 
contratto.  Olghina  è  un'oca,  ma  ha  delle  attrattive.  Quasi  inedita, 
salute  eccellente... 


ó(j  '       MATERNITÀ 

Maurizio.  —  Ottima  salute,  questo  si. 

Alfredo.  —  Ieri  sera  mi  fece  ridere  tanto  l'Elvira  Melfi,  curi  cui  Olsi-hina 
si  era  consigliata.  tJià,  il  salotto  della  Metti  è  diventalo  di\erten- 
tissimo:  una  specie  di   Borsa  in  cui... 

Maurizio  —  (dando  uìi'occhiafd  alla  porta  a  destra  e  interrompendo 
vivacemente).  Hai  visto  il  l'isultato  della  gara  Parifii-Vienna"'  Il 
trionfo  delle  Mercedes!  Ma  le  Panhard  si  sono  battute  bene!  lo, 
per  me,  sono  sempre  per  le  F^anbaid.  p]  vero  clie  non  possederò- 
mai  un  automobile,  ])erchè  l'automobile  è  decisamente  il  meno 
igienico  dei  veicoli.  Chi  ci  sta  dentro  non  ha  come  respirare.  Clii 
non  ci  sta  dentro  ne  è  investito.  L'uno  crepa  d'asfissia,  l'altro  si 
rompe  la  nuca,  quando  non  se  la  rompono  l'uno  e  l'altro.  Tutto 
ciò  non  è  igienico...  Ma  non  importa.  Io  sono  per  le  Panhard.  Se 
mi  si  condanna  ad  andare  in  un  automobile,  io  vado  in  una  Pan- 
hard.  È  inidile!  La  sento  così.  Le  corse  non  provano  niente.  Mi 
dirai:  la  velocità,  l'er  conto  mio,  potrei  rispondere:  io  della  velo- 
cità me  ne  impipo.  Ma  comprendo  che  i  miei  gusti  nOn  faiuio 
legge!  E  neppure  1" igiene  fa  legge!  La  migliore  igiene,  del  resto,  è 
((nella  di  scomodarsi  il  meno  possibile.  La  questione  della  velocità 
è  ritenuta  di  iJiimaria  importanza '.'  Ebbene,  ragioniamone  un  po'!... 

Alfredo.  —  Ma  che  diamine  hai  con  gli  automobili'? 

Maurizio.  —  No,  volevo  assodare  che... 

Alfredo.  —  Mi  sembri  uno  scimunito  stamane.  La  buona  salute  della 
piccola  Olga  ti  ha  dato  alla  testa.  Si  vede  che  invecchi.  Lascia 
stare  gli  automobili,  e  dammi  retta,  pei'chè  ln)  da  parlarti  di  cose 
molto  stabili. 

Maurizio  —  (paurosamente).  Parla,  parla. 

Alfredo.  —  Dunque... 

Maurizio.  —  Scusa  però  una  bi'eve  sospensiva  |)er  soddisfare  una  cu- 
riosità. Come  è  andata  Jeri  sera  la  partita"?  Che  giuoco  ha  fatto 
quel  buon  Gorlini"?  Bada  che  io  sono  uno  di  quelli  che  lo  mande- 
rebbero dritto  in  Corte  d'assise.  Mi  dirai:  la  fortuna  !  Nix!  Altro  che 
fortuna!  S'intende  che  avrà  guadagnato  anche  jer  sera,  e  tu  sarai 
stato  una  delle  vittime... 

Alfredo.  —  Ma  no.  ma  no,  non.  ci  stetti  iei'i  sei-a  al  Club.  Fui  seque- 
strato dalla  Melfi  e  capirai... 

Maurizio  —  {subito,  a  voce  alta),  lo  sono  uno  di  quelli  che  lo  mande- 
rebbero dritto  alle  Assise.  Abbi  pazienza:  come  mi  spieghi... 

Alfredo  —  {interrompendo).  Vuoi  sentire  si  o  no  ciò  che  lio  da  dirti"? 

Maurizio.  —  Sono  qui  ])er  ascoltarti. 

Ai,FREDO.  —  E  cerca  di  essere  chiaroveggente  perchè  è  pi'obabile  che 
tu  debba  un  po'  aiutarmi.  {Siede). 

Maurizio  —  {perplesso).  Figurati!  A  tua  disposizione.  {Siede  anche  lui). 

Alfredo.  —  Mio  caro  Ma  inizio,  io  sono  ini  gi'and'  nomo. 

Maurizio.  —  Questa  è  una  lenona  notizia. 

Alfredo.  —  Ieri,  io  avevo  dei  debiti...  molti  debiti!   K  oggi... 

Maurizio.  —  Non  ne  hai  più"?! 

Alfredo.  —  Ne  ho  sempre.  Ma  posso  farne  degli  altri. 

Maurizio.  —  Non  mi  pare  eccessivamente  facile! 

Alfredo.  —  Ti  pari'à  facilissinio  (piando  salirai  che  sono  riirscito  a  far 
la  pace  con  mio  zio. 

Maurizio.  —  Pei'liacco!  K  iirr  miracolo!  K  come  (■  accaduto  ciò"?  Come 


MATERNITÀ  ■.)! 

hai  potuto  calmare  il  suo  sdej>no  anuoso?  Aveva  giurato  di  iiou 
darti  quartiere.  Ti  aveva  diseredato  cosi  <-i)rdialiiieiite.  Aveva  testato 
in  favore  di  cincjue  ospedali. 

Alfredo.  —  Gli  ospedali,  amico  mio,  sono  spacciati  ! 

Maukizio  —  (levando  molto  la  voce).  Immaoino  la  conlentezza  di  tua 
moglie! 

.Alfredo.  —  tUaudia  non  ne  sa  ancoia  nulla.  La  pace  è  stata  falla 
mezz'ora  la,  e  uscendo  di  casa  non  le  lio  voluto  comunicare  il  mio 
disegno.  Oh!  Un  disegno  estemporaneo!  Un  momento  di   genio! 

Malrizio  —  (titiiha)ìfe).  -  -]je  farai...  una  hella  sorpresa! 

.\lkredo.  —  K  sarà  per  lei  una  i-agione  di  legittima  fierezza,  percliè. 
bada  che.  in  fondo,  questo  miracolo  è  proprio  a  lei  che  lo  devo. 

Maurizio  —  {interroga  con  gli  sguardi). 

Alfredo.  —  Non  inclovini? 

Maurizio.  —  No. 

Alfredo.  —  Claudia  mi  lui  rejialato  un  tìglio. 

Maurizio.  —  All'impensata.'! 

Alfredo  —  Repentinamente! 

Maurizio.  —  Aspetta...  tu  mi  fai  ammattire...  Rei>entinamente  t'è  ve- 
nuto fuori  un  tiglio.' 

Alfredo.  —  Non  è  ancora  venuto,  ila  verrà.  Questa  mattina  ne  ho 
avuto  da  lei  il  preannunzio  uftìciale. 

Maurizio  —  (ricorda  le  parole  di  Claudia).  Ah.  ecco!  Ora  intendo 
tutto!...  0,  meglio...  non  intendo  quasi  nulla.  Tua  moghe  ti  dà 
un  tìglio  e  tu  fai  la  pace  con  tuo  zio"/ 

Alfredo.  —  Sei  ottuso.  Non  era  solamente  per  la  mia  vitaccia  che  lo 
zio  mi  aveva  abbandonato.  Che  cosa  lo  aveva  reso  addiiittura  im- 
placabile' La  sterilità  di  mia  moglie...  o  la  mia:  quella  della  nostra 
unione,  insomma.  Avere  un  pronipotino  era  stato  il  suo  sogno,  e, 
dopo  le  mie  prime  scapataggini  di  marito,  era  sfata  la  sua  formale 
imposizione.  Gli  premeva  |)ure  che  la  stirpe  continuasse,  capisci.  Lo 
desiderava  maschio,  naturalmente,  il  continuatore:  ma  in  via  transi- 
toria si  sarebbe  accontentato  anche  d'una  femmina.  Lui  me  lo  aveva 
detto  a  chiare  note:  «  Se  avrai  un  bam))ino.  io  ti  perdonerò  senza 
restrizioni:  se  avrai  una  bambina,  io  ti  perdonerò  a  metà  ».  Era 
evidente  che  il  perdono,  tiadotto  in  cifre,  sarebbe  stato  un  ama- 
bile accomodamento  tinanziario  durante  la  sua  vita  e  avrebbe  as- 
sicurato per  lo  meno  l'eredità  alla  jirole  e  l'usufrutto  a  me.  Come 
vedi,  mio  zio  aveva  avuto  un  modo  molto  jìiatico  d'incoraggiare 
la  fecondità.  E  ti  accerto  che  mi  bastava  di  pensare  alla  sua  pro- 
messa per  sentirmi... 

Maurizio.  —  Non  dire  sciocchezze  se  vuoi  che  io  ti  ascolti. 

.\i,FREbo.  —  Hai  torto  di  chiamarle  sciocchezze.  Mio  zio,  con  la  sua 
imposizione,  aveva  mostiato  di  essere  un  psicologo  e  un  fisiologo 
di  prim'ordine.  Egli  avea  compreso  bene  che  la  sua  promessa  mi 
avrebbe  fatto  finalmente  amare  mia  moglie. 

Maurizio  —  {ostentando,  a  voce  alta,  un  tono  di  convincimento).  Ma 
se  l'hai  sempre  amata  tua  moglie!  Senza  averne  l'aria,  non  hai 
amata  che  lei.  Non  ti  sei  innamorato  che  di  lei  ! 

Alfredo.  —  Va  là  che  non  è  vero. 

Maurizio  —  {riscaldandosi,  come  per  suggestionarlo),  lo  ti  garantisco 
che,  in  qualche  momento  di  es])ansione  siuceia.  in  (pialche  mo- 
mento di  franchezza,  tu  me  l'hai  confidato. 


58  MATERNITÀ 

Ai.KHKDO.  —  Mai.  mai.  mai  !  Xoii  fi  ho  mai  rietto  una  corbelleria  simile! 
Del  resto,  questo  è  un  dettaglio  che  non  ha  importanza.  La  verità 
è  che  il  mio  amore  fu.  per  cosi  dire,  tiafo  sprecato,  e  la  .seconda 
luna  di  miele  non  fu  più  produttiva  fiella  iirinia.  Mi  scoraggiai. 
Mi  rassegnai,  lo  e  lei,  (li  comune  accordo...  tacemmo.  E  mia  moglie 
mi  pareva  così  abituata...  al  silenzio,  che  quando  poi,  fatta  che 
ebbe  una  cura  di  bagni  a  l.schia.  nell'isola  dei  tremuoti.  mi  ritornò 
in  casa  con  delle  velleità  affettuose  e  fece  sorgere  la  terza  luna  di 
miele,  io  non  potetti  a  meno  di  sospettare  di  lei  e  di  manifestare 
a  te,  come  a  un  fratello,  i  miei  dubbi. 

M.\LiR[Zio  —  {vivissimamente),  lo  non  mi  ricordo  di  nulla,  e  non  te 
ne  ricordi  neanche  tu  ! 

.Vi.KKKDO.  —  Ma  io  me  ne  ricordo  perfettamente,  ed  è  per  questo  che 
mi  do  la  pena  di  raccontarti  i  fatti  miei.  In  uno  di  quei  tali  mo- 
menti di  franchezza,  in  uno  di  quei  tali  momenti  di  espansione, 
che  poc'anzi  mi  citavi  a  sproposito,  io  ti  dissi  di  sospettare  che 
il  non  breve  soggiorno  di  tllaudia  nell'  isola  vulcanica  l'avesse  de- 
cisa a  fare  il  gran  passo.  Mi  pento  ora  dello  sfogo:  ma  tant'è.  te 
lo  feci;  e  non  c"è  nulla  di  strano  che  io  mi  sia  aperto  con  te,  che 
sei  la  sola  persona  innanzi  alla  quale  non  mi  .sono  mai  messa  la 
maschera.  Tu  potresti  attestare  d'altronde  che,  nel  dubbio,  o  nella 
quasi  certezza,  ero  giusto  vei'so  di  lei.  La  trovavo  colpevole  ''  No. 
Le  movevo  rimprovero"?  No.  Anche  perchè,  poi,  se  lei  non  comin- 
ciava ad  essermi  infedele  che  dopo  dieci  anni  di  costante  infedeltii 
mia,  me  l'ero  cavata  bene  ! 

Maurizio.  —    Alfredo!  Alfredo!  Ti  prego!... 

Ai.KUKDO.  —  lo  vorrei  sapere  come  ti  vengono  oggi  queste  smanie  ila 
|iuritano? 

Mal'rizio.  —  Anzitutto,  io  non  sono  mai  stato  un  pervertito!... 

.Vi.FREDO.  —  Questo  è  vero,  ma  per  misura  igienica  ! 

Maurizio.  —  E  poi,  puritano  o  no.  non  ti  permetto  di  parlare  con  tanta 
leggerezza  di  tua  moglie  !  E  tengo  a  dichiararti  che  io  come  io 
ho  sempre  ritenuto  che  ella  fosse  insospettabile  e  invulnerabile  ! 

Ai.KREDO.  —  Di"  la  verità  :  le  hai  fatto  la  corte  e  ti  ha  detto  di  no. 

Maurizio.  —  Ti  proibisco  di  continuare  su  questo  tono  ! 

Alfredo  —  {celiando).  Se  ti  scaldi  così,  e"  è  quasi  quasi  da  pensare 
che.... 

Maurizio.  —  Sei  noioso  ! 

Alfredo.  —  Evvia  !  Rammollito  !  So  quali  riguardi  bai  per  quella 
donna  :  e  te  ne  ringrazio. 

Maurizio.  —  Ma  devi  conveniie  cun  me  che  il  tuo  sospetto  era  cam- 
pato in  aria. 

Alfredo.  —  Campato  in  aria,  no  !  Quando  una  moglie,  che  abbia  da 
un  pezzo  esonerate^  suo  marito  da  certi  doveri,  ricomincia  un  bel 
giorno  a  coltivarlo,  la  faccenda  può  non  esser  liscia.  Tanto  piii 
che  la  contemporaneità  del  marito  e  dell'amante  non  guasta  nem- 
meno la  poesia  d'un  convincimento,  in  cui  s'incontrano  tutte  le 
donne.  Il  loro  convincimento  è  che  se  ci  sono  delle...  conseguenze, 
queste  son  sempre  dovute  all'amante.  .\1  marito,  mai!  Una  illu- 
sione di  più  !  Ma  intanto  il  brutto  è  che  il  lìovero  marito  è  co- 
stretto a  subire  dei  rit(»rni  intempestivi  per  far  piacere  a  quell'altro. 
Questo,  per  esempio,  è  immorale  !  lo  non  l'ammetto.  Ed  ecco 
perchè,  impensierito  del  ritorno  di  mia  moglie,  mi  projiosi  di  sin- 


MATERNITÀ  59 

cerarmi.  In  fin  dei  conti,  c"pra  o  non  c'era  l'amanle?  E  se  c'era. 
(•Ili  era  ? 

,M AiKiz[o.  —  Ma  |iercliè  le  dici  a  me  (|uesle  cose? 

Ai.iiìEno.  —  Per  concludere  che  ho  avuto  torto  marcio  di  sospettare 
e  per  confessarlo  a  te.  a  cui  ebbi  la  (leb(dezza  di  esprimere  i  miei 
dubbi  e  nel  cui  animo  essi  avevano  potuto  lasciare  un  qualche 
verme  roditore. 

Maurizio.  —  Nessun  verme,  credimi. 

Alfredo.  —  E  sai  com'  è  che  oramai  sono  certo  di  avere  avuto  torto"? 

Maurizio.  —  Dimmelo. 

Alfredo.  —  Da  più  d'un  mese  io  faccio  pedinare  mia  moglie. 

Maurizio  —  (spalanca  gli  occhi).  Benissimo  ! 

Alfredo.  —  Quel  degno  personaggio  di  Filippo,  che  mi  è  devoto  perchè 
gli  debbo  dei  quattrini,  la  segue  scrupolosamente,  e  giorno  per 
giorno  mi  riferisce  a  che  ora  esce,  dove  va.  quello  che  fa... 

Maurizio  —  (cercando  di  celare  il  suo  turbamento).  Benissimo  ! 

.Vi.FREDo.  —  E  sino  a  jeri,  neanche  la  più  lieve  traccia  di  un  amante. 
Modiste,  sarte,  medici,  delle  visite  innocue,  delle  passeggiate... 

JIaurizio.  —  Sino  a  jeri?... 

.\lfredo.  —  Ma  giacché  un  mese  d' indagini  basta  e  ne  avanza,  sta- 
sera ordinerò  al  mio  lido  esploratore  di  smettere  l' inutile  spio- 
naggio... 

Maurizio  —  (stentando  a  mostrarsi  calmo).  Dopo  che  ti  avrà  fatto  l'ul- 
timo resoconto,  beninteso... 

Alfredo.  —  R  siccome  sarà  insignificante  come  gli  altri... 

Maurizio  —  (alliinto).  Naturale  ! 

Alfredo.  —  lo  potrò  vantarmi  domani,  mio  caro  Maurizio,  di  essere 
completamente  padre  ! 

.Maurizio.  —  Che  gio.ja  ! 

■\lkredo.  —  Una  gio.ja  immensa!  Quando  slamane  mia  moglie,  tutta 
commossa  e  timida,  mi  ha  data  1'  inattesa  notizia,  io,  non  te  lo 
nego,  sono  limasto  un  110'  male.  Non  accade  s]iesso  di  mettere  al 
mondo  il  primo  figlio  dopo  dieci  ainii  di  matrimonio.  Ma  ajipena 
r  immagine  di  mio  zio,  cioè  di  due  milioni,  è  appai'sa  dinanzi  a 
me,  l'orizzonte  mi  si  è  rischiarati),  e  la  maternità  di  mia  moglie 
mi  è  sembrata  una  delle  opere  più  grandiose  compiute  dalla  mo- 
derna civiltà  ! 

.M.\irizio  —  {con  iiìì  fìl  di  (Hìce).  E  adesso  che  ci  dovrei  fai'e  io  in  tutto 
questo  idillio  ? 

Alfredo.  —  Tu,  col  tuo  tatto,  col  tuo  garho,  dovrai  affrettare  gli  av- 
venimenti. 

Maurizio.  —  Quali  ? 

Alfredo.  —  Mio  zio  si  è  lamentato  della  tua  lunga  assenza.  Ha  do- 
mandato di  te  con  tenerezza. 

Maurizio.  —  Troppo  buono,  tuo  zio  ! 

Alfredo.  —  E  quindi  tu  andrai  da  lui  col  pretesto  di  congiatularti 
della  pace  fatta.  Gli  parlerai  di  me  diffusamente.  Gli  dirai  clie  io 
mi  sono  ti'asformato.  che  sono  diventato  un  marito  esemplare,  un 
liadre  ifiijìareggiabile. . . 

Maurizio.  —  Prima  che  sia  nato  il  tiglio? 

Alfredo.  —  Ma  si.  Il  buon  padre  si  dislingue  anclie  |)rima  che  il  figlio 
nasca.  Si  vede  subito.  Tu  lo  iiai  già  visto  in  me.  E  con  rajuto 
della  tua   perorazione   i()   indurrò   mio   zio.  il   (piale  non  ha   (die 


(io  MATERNITÀ 

seflaiifanni,  a  una  emissione  finanziaria  provvisoria,  per  cui,  al 
postutto,  egli  nvih  il  vantap-gio  di  potersi  godere  la  sua  longevità  .. 
senza  clie  alcuno  gliene  serbi  rancore.  Ti  va? 

.Maiuizio.  —  Non  mi  \a  molto;  ma  tu  lo  hai  stabilito  e  cosi  sia.  Sa- 
ranno menzogne  dell'altro  mondo  ! 

Ali'kedo.  —  Non  c'è  che  la  menzogna  per  fare  un  po'  di  bene  all'uma- 
nità. {Alzandosi)  E  con  questa  piofonda  sentenza  tilosotica.  me  ne 
vado.  Vieni  a  colazione  con  me"? 

Maurizio  —  {sodduurdaìido  l'uscio  a  destra).  No!...  no!...  a  colazione 
con  te,  non  posso... 

.Vlfhedo.  —  E  allora  ti  saluto.  Mia  moglie  mi  asi)efta,  e  io  voglio  es- 
sere gentilissimo  con  lei:  pieno  di  delicatezze,  pieno  di  pensieri 
carini... 

Maurizio.  —  Va',  va'.  Se  ti  aspetta,  non  ritardare. 

Alfredo.  —  Ma  perchè  non  vieni"?  Un  po' di  platea  mi  piacereld»^ 
tanto  !  Fammi  questo  favore. 

Maurizio.  —  T'  ho  detto  che  non  è  possibile.  Anzitutto,  non  mi  sento 
bene.  Ho  un  peso  alla  testa...  un  altro  al  cuore...  un  altro  allo 
stomaco... 

.Vlpredo.  —  Dil'atti,  sei  pallido. 

Maurizio  —  (con  siiì>ita)iea  preoccupazione).  Sono  pallido"?! 

.Vi. PREDO.  —  Si,  abba.stanza.  (lerca  di  non  ammalarti  pi()|)rio  oggi.  Più 
tardi  devi  andare  da  lui.  E  stasera  poi,  a  ))ranzo  con  me  tutfe 
due.  E  senza  fallo!  Mettiti  un  pochino  a  letto  ora. 

Maurizio  —  (guardando  di  nuovo,  più  che  mai  allarniato,  la  porla  a 
destra).  No!  A  letto,  no!  (Ihe  esagerazione! 

Alfredo.  —  Ma  cura  la  tua  salute,  i)erdinci!  Tu  non  ti  curi  come 
dovresti.  E  grazie,  eh"?...  Grazie  anticipate!  (Gii  sfrini/r  la  maim). 

Maurizio.  —  Carissimo  Alfredo! 

.ALFREDO  —  (s'avvia  per  uscire:  indi  a  un  Iratlo  .sv'  rolla).  Ti  senti 
meglio  "? 

Maurizio.  —  Meglio,  meglio!  Sta"  trancpiillo,  mi  senio  meglio! 

Alfredo.  —  Addio.  (Esce). 


SCENA  V. 
Maurizio  e  Claudia. 

Maurizio  —  (ansiosamente  va  alla  porla  in  fondo  per  assicurarsi 
che  Alfredo  sia  partilo  :  quiìidi  corre  alla  porla  laterale,  come  per 
chiamar  Claudia). 

Claudia  —  (senza  aspettare  che  etili  la  chiami,  entra.  Viso  calmo,  di 
una  calma  disdegnosa  fatta  di  profondo  disgusto  e  di  fierezza.  Il 
sarcasmo  acre  è  sulle  sue  labbra,  atteggiate  a  un  sorriso  amaro). 

Maurizio  —  (agitatissimo  e  disfatto).  Avete  udito!"? 

Claudia.  —  Ero  qui  per  questo. 

Maurizio.  —  La  persona  da  cui  vi  ha  latta  seguire  gli  dirà  ceitamente 
che  siete  venuta  da  me. 

Claudia  —  (fredda).  Glielo  dirà. 

.Maurizio.  —  Tutto  sommato,  sarà  meglio  che  glielo  dica  subilo  io 
stesso. 

Claudia.  —  Non  sarà    uè   meglio   né   peggio,   perchè    risulterà   chiaro 


MATERNITÀ  61 

clic  voi  s:lielo  avrete  detto,  in  mancanza  di  iiilii  espedienti,  dopo 
di  avere  appreso  che  io  sono  stata  pedinata  anclie  stamane. 

Mai  itizio.  —  E  allora"?...  Che  cosa  facciamo?...  In  che  modo  ci  sal- 
veremo ?. . . 

Claldia.  —  Cioè:  in  che  modo  vi  salverete "?  Quanto  a  me,  non  sento 
punto  la  necessità  di  salvarmi.  E  non  sarebbe  neppure  possibile 
il  salvataggio.  Per  mio  marito,  con  o  senza  di  voi,  io  sono  già 
una  donna  che  ha  un  amante.  Spero  che  la  vostra  perspicacia  vi 
abl)ia  permesso  di  com]ìrendere  ch'egli  mi  crede  la  più  furba  delle 
adultere  e  che  dal  momento  che  io  gli  rendo  il  servigio  di  for- 
nirgli il  bamboccio  per  cui  suo  zio  gli  riapre  le  braccia  e  la  borsa, 
egli  vuole  perfino  evitare  il  fastidio  di  sapere  da  che  parte  gli 
venga  la  fortuna.  Chi  si  deve  salvare,  dunque,  siete  voi,  non 
sono  io. 

Mal'kizio.  —  Donna  Cllaudia.  io  lo  avevo  presentito  che  un  grosso 
guajo  sarebbe  accaduto  ! 

Claudia  —  (sempre  fredda,  con  una  punta  di  grazioso  umorismo). 
Vi  dispiacerebbe  proprio  molto  di  passare  per  il  mio  amante  ? 

^Ialrizio.  —  Voi  avete  il  coraggio  di  burlarvi  di  me  quando  io  mi 
sento  morire... 

Claudia.  —  Rispondete,  intanto. 

iJAURizio.  —  Al  «"onspetto  di  vostro  marito,  certo  che  mi  dispiacerebbe! 

Claudia.  —  E  al  conspetto  degli  altri,  no? 

Maurizio.  —  Al  conspetto  degli  altri  me  ne  vergognerei  ! 

Claudia.  —  Grazie  del  complimento  ! 

Maurizio.  —  Ma  no!  Voi  fraintendete....  lo  ne  avrei  vergogna  e  ne 
sarei  orgoglioso...  Voi  siete  una  donna  per  la  quale  un  uomo... 
Basta,  non  divaghiamo,  ve  ne  prego...  Datemi  almeno  un  consi- 
glio... .\jutatemi...  Non  mi  lasciate  solo  in  questa  terriiiile  situa- 
zione... 

Cl.vl  dia.  —  Mio  buon  Maurizio,  io  sono  diventata  un  ])o' egoista.  Ho 
sajiuto  ciò  che  desideravo  di  sapere.  Ho  saputo  che  mio  marito  «^ 
molto  più  vile,  è  molto  più  volgare,  è  molto  più  spregevole  di 
(|uanto  m'era  parso  sinoia.  Io  vi  sono  riconoscente  della  vostra  cor- 
lese  condiscendenza  e  di  tutto  quanto,  nel  colloquio  con  lui,  avete 
rivelato  di  veramente  gentile  per  me.  .Ma  non  contate  sul  mio  aiuto, 
e,  per  quel  che  può  riguardare  la  mia  esistenza,  non  abbiate  ne 
scrupoli  né  paure.  Io  mi  preparo  a  vivere  della  mia  felicità,  d'una  feli- 
cità che  è  soltanto  mia.  sempre  più  distaccata  da  lui  -  lo  spero  -. 
sempre  più  attaccata  al  grande  bene  che  tinalmente  ho  ottenuto  da 
me  stessa  !  lo  non  so,  ora,  con  precisione,  che  cosa  avverrà  :  ma 
so  che.  dato  il  vostro  temperamento,  io  vi  ho  piocuiata  qualche 
noja...  Perdonatemi.  E.  non  ostante  il  mio  egoismo,  iiermettete  ch<' 
da  oggi  in  poi  io  vi  chiami:  amico.  \'olete  darmi  as.sai  cordial- 
mente la  vostra  mano? 

Maurizio  —  {mi  po'  commosso).  Marchesa...  (Le  porge   la  mano). 

Cl.audi.v  —  (ffliela  stringe  con  effusione). 

Maurizio.  —  Siete...  una  santa  donna! 

Claudia.  —  Santa,  è  troppo.  Sono  una  donna...  che  è  madre.  .\  ri- 
vederci . 

Maurizio.  —  A  rivederci. 


02  MATERNITÀ 

SCENA  VI. 
Decio,  Maurizio,  Claudia. 

Decio  —  {entra  difilato  portando  mi  vassoio  con  tino,  hottUfliu  e  un 
hiccìiierino).  Aperitivo!   {Vedendo  Claudia)  Oh!? 

.Maurizio.  —  Idiota! 

Decio.  —  Mi  avevate  ordinato  di  eredere  clie  la  signora  non  ci 
era  più. 

Maurizio.  —  E  ve  l'ordino  ancora  ! 

Decio.  —  Posso  annunziare  ciie  la  colazione  è  |)ronta  ".' 

Claudia  —  (sorridendo).  Potete. 

Decio.  —  Pronta...  per  uno.  (Serio  e  dignitoso,  sogguard<tndn  Clau- 
dia, attraversa  la  camera  e  poggia  il  vassoio  sul  tavolino). 

Maurizio  —  {pianissimo  e  rapidamente,  a  Claudia).  Adesso,  è  neces- 
.sario  che  io  vi  tratti  come  una  cocotte. 

Claudia  —  {con  un  moto  istintivo  di  sorpresa).  Cosa? 

Maurizio.  —  State  accorta!  Bisogna  far  deviare  la  curiosità  di  questo 
imbecille.  La  sua  testimonianza  potiebbe  toglierci  ogni  speranza 
di  salvezza!  (A  Decio,  che  sta  2><'>'  svignarsela)  Restate  li.  voi! 
Tenete  su  quella  jiortiera.  {A  Claudia  che  .s'arria  per  ii.'icire) 
Addio.  Nini  ! 

(Claudia  —  (si  rotta  con  caricata  civetteria  inesperta). 

Maurizio  —  {le  manda  un  bacio  sulle  dita). 

Claudia.  —  Addio.  Nunù  (imitandolo  graziosamente,  gli  ricamhia  il 
bacio).  E  tanti  saluti... 

Maurizio.  —  A  chi? 

Claudia.  —  A  Olghina. 

Maurizio  —  (con  un  soprassalto),  (ila! 

Claui)l\  —  (esce). 

SIPARIO. 


MATERNITÀ 


63 


ATTO  SECONDO. 


Salotto  ol'unii  fine  elesanzii  iiol>ilf>8eii  in  casa  del  maiflios.-  ili  Montefranco. - 
Una  porta  in  fondo.  Una  a  destra.  Una  a  sinistra.  —  A  una  parete.  Tapparec 
chio  del  telefono.  —  È  sera.  Ijumi  accesi. 

SCENA    I. 

Un  servo,  Filippo,  indi  .\LKHEno. 

(La  scena  è  vuota). 
II.  .-^ERVO  —  (entra  dalla  porta  a  destra,  affacceìidato.  Va  al  telefono. 
Gira  la  manovella.  -  Tintinnio  di  risposta).  Coniunicazioue  col  VHt:3. 
(Dopo  un  istante,  altro  tintinnio).  Con  chi  parlo"?  {Pan.'sa).  .Vile 
dieci,  la  carrozza  del  signor  duca.  (Pausa).  No,  non  al  Circolo 
del  Whist.  Qui.  qui.  Sono  il  cameriere  del  marchese  di  Mcmtefraiico. 
Il  signor  duca  ha  pranzato  qui.  (Pausa).  SI,  va  bene,  il  landau 
chiuso.  (Gira  la  manovella  e  toglie  la  comunicazione).  {Va  alla 
porta  in  fondo  e  introduce  Filippo).  Favorite.  Il  signor  marchese 
viene  a  momenti.  Ha  finito  di  pranzare  e  gli  ho  potuto  far  Tam- 
basciata  senza  che  gli  altri  se  ne  accorgessero.  (Esce). 

Filippo  —  (ha  l'aspetto  d'un  cameriere  al  riposo.  Faccia  losca.  Fedine 
hreoi.  Niente  baffi.   Grosse   anella  alle  dita.  È  entrato  rispettosa- 
mente, con  in  mano  il  cappello.   Ora  che  è  solo  guarda  un  po'  alle  ' 
porte  curiosaìtdo.  Come  vede  avvicinare  il  marchese  di  Montefranco 
assume  un'aria  umile  e  misteriosa). 

Alfreoo  —  (in  frack  e  cravatta  Inanca,  entra  dalla  destra).  Che  c'è, 
Filippo?  Avresti  dovuto  venire  al  Circolo  verso  la  mezzanotte, 
come  al  solito.  Non  qui.  Sai  bene  che  mi  annoia  che  ti  si  veda 
bazzicare  in  casa  mia. 

Filippo  —  (sottovoce,  accostandosi  al  marchese).  Col  dovuto  rispetto 
a  Vostra  Eccellenza,  ho  anticipato  perchè  ci  sono  delle  novità. 

Alfredo.  —  Delle  novità? 

Filippo.  —  11  servizio,  finalmente,  è  stato  fatto. 

Alfredo  —  (scosso).  Davvero?! 

FiLiPPja.  —  Credo  che  ci  siamo,  Eccellenza. 

Alfredo.  —  Tu  non  devi  credere  nulla.  Devi  solamente  raccontare. 
E  presto,  perchè  ho  di  là  degli  invitati. 

Filippo.  —  Racconto,  Eccellenza.  Stamattina  la  signora  marchesa  è 
uscita  di  casa  alle  dieci  e  trentacinque  minuti. 

Alfredo.  —  Beh,  sbrighiamoci.  Dove  è  andata? 

Filippo.  —  La  signora  marchesa  era  vestita  magnificamente... 

Alfredo.  —  Questo  non  mi  riguarda.  Tira  via. 

Filippo.  —  No,  ecco,  voleva  dire  a  Vostra  Eccellenza  che  così  vestita 
non  l'avevo  mai  vista  a  quell'ora... 

Alfredo.  —  Abbrevia,  santodio!  Dove  è  andata? 

Filippo.  —  Eccellenza,  è  andata  alla  Riviera  di  Chiaia,  trecentoven- 
tiselte. 


B4  MATKHMTA 

.Vi-KKKi>o  —  {situsulUtndo).  Non  è  possiljiie! 

Filippo.  —  Treceiifoventiselte,  Eccellenza. 
(Breve  jja»sa). 

Alfredo.  —  Garantisci?! 

Fn-ippo.  —  Garantisco. 

ÀLfREDO  —  {con  una  certa  reticenza).  E...  a  (iiiale  piano  è  salita? 

Filippo.  —  Col  dovuto  rispetto  a  \'ostra  Eccellenza,  la  signora  mar- 
chesa è  entrata  in  casa  del  signor  Maurizio  Dorini. 

Altredo  —  (stranamente  impacciato).  Sta  bene.  (Indi,  pensando  alla 
sinriolarità  del  caso,  abbozza  un  sogghigno  eli  beffe  per  sé  stesso. 
E,  tosto,  agilmente  s'infìnge  e  prende  un  tono  di  tranquillità  in- 
differente). Non  c'è  altro? 

Filippo.  —  Non  c'è  altro,  Eccellenza. 

Alfredo.  —  E  a  te  sembra  d'avere  scoperto  qualche  cosa  d'impor- 
tante? 

Filippo  —  (rispettosamente).  Se...  non  seinlìia  importante  a  Vostra 
Eccellenza...  non  sembra  importante  neanche  a  me. 

Alfredo.  —  Chi  ti  ha  riferito  che  la  marchesa  si  è  recala  in  casa 
di...  quel  signore  ? 

Filippo.  —  Ho  date  venti  lire  di  mancia  al  jiortinaio  per  sapere  la 
verità. 

Alfredo.  —  Hai  fatto  malissimo! 

Filippo.  —  Come  piace  a  Vostra  Eccellenza. 

Alfredo.  —  Le  mance  troppo  grosse  non  servono  che  a  pagare  delle 
menzogne  !  Ti  sia  di  regola.  (Cava  del  danaro  dal  portafogli  e 
glielo  porge).  Prendi.  Ce  n'è  anche  per  te. 

Filippo.  —  Ma  no...  non  voglio  che  Vostra  Eccellenza  s'incomodi  ora. 
Abbiamo  tanti  conti  pendenti... 
.  Alfredo.  —  E  penderanno  per   un    |)ezzo.    Prendi    questo,  provviso- 
riamente. 

Filippo.  —  Per  obbedire  (iìifasca). 

Alfredo  —  (soccorso  ad  un  tratto  da  una  idea).  E  di'  :  quanto 
tempo  la  marchesa  si  sareblìe  trattenuta  in  quel  palazzo? 

Filippo.  —  La  signora  marchesa  è  montata  alle  undici  precise.  A  che 
ora  sia  scésa,  in  coscienza,  non  lo  so.  lo  sono  stato  ad  aspettare 
una  ventina  di  minuti.  Ma  poi  ho  detto  fra  me  e  me:  —  Qui,  col 
dovuto  rispetto  a  Sua  Eccellenza,  le  cose  vanno  per  le  lunghe... 

Alfredo  —  (interrompendo  severamente).  Non  ti  ho  chiesto  confo  dei 
tuoi  soliloqui  !  Il  certo  è  che  non  hai  aspettato  abbastanza.  Se  avessi 
aspettato  un  poco  di  più,  avresti  veduto  entrare  anche  me  in  quel 
palazzo.  Il  che  dice  con  chiarezza  che  proprio  lì  io  avevo  un  ap- 
puntamento con  mia  moglie.  Te  l'ho  taciuto  poc'anzi  per  control- 
lare la  tua  puntualità.  Sono  indignato  della  improntitudine  con 
cui  vieni  a  raccontarmi  delle  fandonie  ! 

Filippo.  —  Eccellenza  ! 

Afredo.  —  Basta  così  !  Da  oggi  in  poi  ti  è  assolutamente  proibito  di 
seguire  e  sorvegliare  mia  moglie.  Si  trattava  di  una  semplice  cu- 
riosità, e  l'ho  soddisfatta  altrimenti.  La  marchesa  -  ricordatelo 
bene  -  è  una  signora  a  cui  bisogna  fai-  tanto  di  cappello. 

Filippo.  —  Como  piace  a  Vostra  Eccellenza. 


.MATKKNITÀ  (>5 


SCENA  11. 
[|,  Duca  di  Vhìena,  Claudia,  Ai.fuedo,  Filippo,  Maurizio. 

Il  Dltca  —  {di  dentro).  Eccolo  lì  il  disertore. 

Al!'redo  —  {in  fono  disinvolto).  Andate,  Filipjio. 

{Sulla  soglia  della  porta  a  destra,  si  fermano  il  Duca  in  frak 
e  cravatta  bianca,  e  Claudia  appoggiata  al  hraccio  di  lui). 

FiiJPi'O  —  {inchinandosi  ad  Alfredo).  Servo.  {Ed.  esce  dal  fondo). 

Alfreoo.  —  Dico,  zietto:  mi  rapite  la  moglie'? 

Il  Duca.  —  Te  la  conduco,  invece.  Si  annoiava  cosi  lealmente 
con  me  ! 

Alfredo.  --  Non  ti  difendi,  (Uaudia? 

Claudia  -  {freddamente,  lasciando  il  hraccio  del  Duca).  Il  Duca  mi 
perdona. 

Alfredo.  --  Tutte  le  mie  s(;use,  zio,  per  lei  che  non  è  brillantissima, 
e  per  me  che  mi  sono  allontanato.  Ma  gli  è  che  avevo  da  fare 
delle  comunicazioni  interessanti  al  mio  segretario  e  i)erciò... 

Il  Duca  —  {avanzandosi).  Hai  un  segi'etario"? 

Alfredo.  —  Sì...  per  il  disbrigo  di  qualche  affare  urgente...  {Mutando 
subito  dixorso)    Questa  poltrona,  zio,  è  per  voi. 

Il  Duca  —  {■'fedendo).  Grazie. 

Alfredo.  —  E  Miurizio  dov'è?  Dov'è  Maurizio':?  Dov'è  (piel  caro 
Maurizi'j'.' 

Il  Duca.  --  Passeggia. 

Alfredo.  —  Ah,  toso.  Lui  |)asseggia.  Dopo  pranzo,  doviin(|ue  si  trovi, 
passeggia  un;',  mezz'ora  per  digeriie.  K  la  sua  igiene.  Ma  non  è 
una  ragione  per  privarci  della  sua  compagnia.  (  Va  alla  porta  in 
fondo  e  chiama:)   Maurizio!  Maurizio!  {Al  Duca)  E  lauto  buono! 

Il  Duca.  —  Mi  è  simpaticissimo  ! 

Alfredo.  —  Per  noi  è  come  una  |)ersona  di  famiglia.  LTii  amico 
d'oro.  Anche  Claudia  permette  a  lui  (piel  che  non  ha  mai  per- 
messo a  nessuno  ! 

Claudia.  —  A  nessuno. 

Maurizio  —  {come  gli  altri,  in  abito  nero  e  craralta  liianca.  -  En- 
trando, he.  uiito).  Che  cos'è  che  permettete  soltanto  a  me  donna 
Claudia  ? 

Claudia  —  {sedendo  lontano  dal  Duca).  Per  lo  meno  di  farmi  la  corte. 

Maurizio  —  {ha  una  smorfia  d' impazienza;  e  comincia  a  passeggiare 
con  passo  piuttosto  affrettato  intorno  intorno  la  camera). 

Ai^FREDO.  —  Ah  no  !  lo  ti  smentisco.  {Al  Duca)  È  una  blnguc,  zio. 
{Accostandìsi  a  Claudia  e  tenendole  le  mani  alle  spalle)  Questa 
qui  è  una  donnina  eccezionale  :  una  moglie  come  non  se  ne  tro- 
vano più. 

Il  Duca.  —  Dev'essere  difatti  una  eroina  del  matrimonio,  per  aver 
saputo  rinuamorare  un  marito  quando  questi  più  correva  la  ca- 
vallina. 

Alfredo.  —  I*]  oramai  ci  sono  dentro  fino  ai  capelli,  zio.  {Le  carezza 
il  collo). 

Claudia  —  {dominando  il  disdegno,  cerca  di  scansarsi). 

Il  Duca.  —  Bravo  ! 

5  VoL  evi,  Serie  IV  -  l->  luglio  1903. 


66  MATERNITÀ 

Alfredo.  —  Ho  preso  una  colta  come  si  può.  prendere  a  vent'anni  ! 

Maurizio  —  {sema  volerlo,  gli  getta  litio  sguardo  di  stupore). 

Alfredo  —  {andando  verso  il  nuca).  \^edete,  io  vi  potrei  raccontale 
dei  particolari  da  farvi  intontire. 

Il  Duca.  —  Raccontami  tutto.  Intontirò  con  molto  piacere. 

Alfredo  —  {sedendogli  accanto).  Ve  ne  dico  uno,  ma  all'orecchio. 

Maurizio  —  {ancora  passeggiando).  Perciiè  poi  all'oreccliio"?  Piacerebbe 
molto  anche  a  me  d'intontire. 

Alfredo.  —  Scusami,  ma  ho  due  jiudori  da  rispettare  :  il  mio  e  quello 
di  mia  moglie. 

Claudia.  —  Del  mio  non  te  ne  preoccupare. 

Maurizio  —  {ad  Alfredo).  Sei  d'una  correttezza  irreprensibile! 

Alfredo  —  {al  Duca).  Dunque,  .sentite...  {Gli  parla  all'orecchio  con 
dimestichezza  gaja). 

Il  Duca  —  {lo  ascolta  or  sorridendo  di  maraviglia  ed  or  di  compia- 
cimento). 

Claudia.  —  Mentre  mio  marito  rispetta  i  due  pudori,  Maurizio,  sacri- 
ficatemi un  po'  della  vostra  digestione.  Abl)iate  la  cortesia  di  se- 
dere. Mi  fate  venire  il  mal  di  mare. 

Maurizio.  —  Sarà  un  disastro  per  il  mio  stomaco  :  ma  eccovi  servita. 
{Siede). 

Claudia.  —  Non  cosi  lontano!  Dcno  diivi  più  chiaramente  clie  vi  vo- 
glio vicino  a  me? 

Il  Duca  —  {ascoltando  Alfredo).   Vii  là  !  Non  è  possibile  ! 

Alfredo.  —  Sì,  sì,  ve  lo  confesso  :  è  la  verità  !...  {Continìia  a  [jarlargli 
.  empre  piìi  confidensialmente). 

Maurizio  —  {malvolentieri  prende  posto  accanto  a  Claudia.  Impacciato. 
Pianissimo).  State  attenta  :   mi   conqtromettete  anche  (iinanzi   al 
vecchio,  adesso. 
{Parlano  sommessamente). 

Claudia.  —  Gli  siete  estremamente  simpatico. 

Maurizio.  —  Lo  so  bene  :  è  vostro  maiito  che  mi  fa  la  reclame  per 
appiccicarmelo  addosso. 

Claudl\.  -  -  Avete  visto  l'uomo  che  è  uscito  di  cpii  poco  fa"? 

Maurizio.  —  No. 

Claudia.  —  Era  il  traftichino  di  mio  marito. 

Maurizio.  —  L'uomo  che  vi  lia  spiata "i? 

Claudia.  —  Il  fido  esploratore. 

Maurizio.  —  Ne  siete  sicura"? 

Claui)l\.  —  A  me  è  parso  di  ricordarmi  d'averlo  spesso  incontrato  per 
istrada  da  un  mese  in  qua.  Ha  una  lisonomia  che  non  si  dimen- 
tica. K  poi  mio  marito  lo  ha  chiainato  Filippo  !... 

Maurizio.  —  E  dunque  era  lui  ! 

Claudia.  —  Era  lui  certamente. 

Il  Duca  —  {con  gioconda  soddisfazione,  ad  Alfredo).  Ma  è  enorme  ! 

Alfredo.  —  Sentite  ancora,  zio!... 

Maurizio  —  {a  Claudia,  iìKinicto).  Sicché,  itoco  fa  saiehbe  accaduto 
ciò  che  io  prevedevo"? 

Claudia.    -  Non  ne  dubito. 

Maurizio.  —  V^ostro  marito  avrebbe  appieso  che  voi  ipiesta  mattina, 
di  nasco.sto.  siete  venufit  da  me  ? 

Claudia.  —  Non  ne  duhilo. 

Maurizio.  —  A  conti  fatti,  noliebbe  essere  già  convinto  che  io  sono... 


MATERNITÀ  07 

Claudia.  —  Il  mio  amante. 

Maurizio.  —  Io  ne  piglio  una  malattia  ! 

Claudia.  —  Ed  io  sarò  felicissima  di  curarvela.  Così  almeno  ])otrò  fli- 
sobbligarmi. 

Maurizio.  —  Voi  siete  la  mia  perdizione,  donna  Claudia  ! 

Claudi.^.  —  Purché  voi  siate  la  mia  buona  stella,  che  importa'!? 

Maurizio.  —  Ecco:  il  sangue  mi  affluisce  alla  testa...  Mi  permettete, 
se  non  altro,  di  passeggiare  "ì 

Claudia.  —  Passeggiate. 

M.URIZIO  —  {si  alza.  Si  tocca  le  tempie.  Si  tocca  lo  stomaco). 

Il  Duca  —  (n  cui  il  racconto  di  Alfredo  ìia  procurato  uìi  crescendo 
di  buon  umore,  prorompe  ora  in  una  gran  risata).  .\  questo  punto, 
abbi  pazienza,  mi  \  ien  voglia  di  congratularmi  più  con  lei  che  con  te! 

Claudi.a.  —  Di  che  cosa  vorreste  congratularvi  con  me.  caro  Duca"' 

Il  Duca.  —  Dei  prodigi  della  vo.stra  novella  luna  di  miele. 

Claudia.  —  Pare  che  sieno  specialmente  i  segreti  di  alcova  che  risve- 
gliano il  vostro  affetto  di  zio  ! 

Aj.fredo  —  (si  alza  annoiato). 

Maurizio  —  {passeggiando,  lo  sogguarda  con  trepida  curiosità). 

Il  Duca  —  {risentito).  L'affetto  di  zio  è  risvegliato  in  me  in  tutto 
(pianto  mi  conferma  d'aver  ritrovato  in  questa  casa  l'organismo 
(l'una  famiglia.  Quando  dico /"aoi/^/to,  dico  anzitutto  owes^à  coniu- 
gale. E  questa  onestà,  donna  Claudia,  se  non  vi  dispiace,  comincia 
l)recisamente  dall'alcova. 

Claudia.  —  Peccato  che  la  storia  veridica  delle  alcove  non  si  scri- 
vei'à  mai  ! 

Alfredo.  —  Lo  storiografo  della  situazione,  dovendo  esseie  un  testi- 
mone oculare,  si  troverebbe  in  un  beli'  imliarazzo  ! 

Il  Duca.  —  lo  ho  voluto  soltanto  giustificarmi,  marchesa,  di  avere 
ascoltate  volentieri  le  confidenze  di  vostio  marito. 

Alfredo.  —  Ma  sì,  zio.  Claudia  scherza.  Nessuno  meglio  di  lei  intende 
(pianta  bontà  sia  nella  vostra  compiacenza:  e  nessuno  jiiù  di  lei, 
credetemi,  ve  n'è  grato. 

Il  Duca.  —  Se  ci  sia  della  bontà,  non  so.  È  probabile  che  ci  sia  sopra 
lutto  dell'egoismo.  Non  lo  nascondo.  Ero  stanco  di  solitudine.  E 
il  dolore  che  il  mio  unico  nipote  fosse  imyieritevole  della  mia 
liducia  e  non  mi  avesse  nemmeno  dato  un  erede,  condannandomi 

j       a  guardare  con  malinconia  i  parecchi  chilometri  quadrati  di  terre 

r  che  per  volontà  di  Dio  mi  sono  stati  trasmessi  insieme  con  un 
nome  immacolato,  s'era  così  inasprito  che  quasi  andava  mutandosi 
in  rancore  verso  me  stesso  e  quasi  mi  faceva  pentire  d'aver  vissuto 
troppo  sobriamente  la  mia  vita  di  vedovo. 

Claudia.  —  Pote\'ate  pensare  a  costruirvelo  voi  un  erede. 

Il  Duca.  —  In  che  maniera f 

Claudia.  — Non  avrete  avuto  sempre  settant'anni  ! 

Il  Duca.  —  Ne  avevo  venticinque,  cara  signora,  quando  amai  e  sposai 
la  donna  più  eletta  che  io  mi  abbia  conosciuta.  La  morte  me  la 
rapì  ben  presto,  ed  io  giurai  che  le  sarei  stato  fedele. 

tii.AUDiA.  —  \'eramente,  un  vedovo,  che  non  vuol  tradire  la  sua  prima 
moglie,  se  ne  piglia  subito  un'altra.  È  il  solo  preservativo  per  amar 
sempre  quella  che  è  morta. 

Il  Duca.  -  Intorno  all'amore  e  alla  fedeltà  ho  i  miei  criteri,  e  li  pre- 
ferisco. 


68  MATERNITÀ 

Gj^AUDiA.    —  Rohii  iraltri  liMn|)i. 

II.  Duca.  —  Io  penso  e  spero  che  certi  sentimenti  possano  essere  di 
tutu  i  tempi,  li  sentimento  ehe  lia  guidato  me  è  in  (piesle  parole  : 
avendo  amato  una  volta  sola,  non  Iio  saputo  sposare  due    volle. 

(iLAuniA.  —  Ma  il  matrimonio  non  serve  soltanto  a  ini|)iefraie  il  propiio 
amore.  Serve  anche  a  impie<i:are  i  propri  capitali,  quando  se  ne 
hanno  come  voi.  Se  vi  foste  i-iammoglia)o,  avreste  avuto  prolta- 
hilmente  il  piacere  di  produrre  illegittimo  destinatario  di  tutti 
quei  chilometri  quadrali  che  vi  hanno  messo  di  cattivo  umore. 

li.  Duca  —  {con  eìiercfia).  Non  sarà  un  erede  meno  legittimo,  donna 
Claudia,  quello  che  aspettiamo. 

CI1..UJDIA.  —  Per  una  transazione! 

II.  Duca  —  {scattando).  Non  c'è  nessuna  transazione,  marchesa,  in  ciò 
che  è  un  atto  spontaneo  del  mio  cuore  ! 

Alfredo — ■  {urgentemente,  piano,  a  Maurizio).  F\unmi  la  grazia:  cerca 
di  troncare... 

Maurizio.  —  Che  c'entro  io? 

Claudia.  —  Del  vostro  generoso  proposito,  io  vi  ringrazio.  Ma  la  velila 
è  che  io  non  vedo  e  non  c'è  eftettivamente  nulla  di  comune  fra 
il  figlio  che  faccio  e  le  ricchezze  che  avete  voi  ! 

Alkrkdo  —  {pianissimo,  sospingendo   Maurizio).   Ti'onca  !   Tronca  !... 

Il  Duca  —  {alzandosi  fieramente).  In  altii  termini,   voi  disdegnale... 

Maurizio  —  {costretto,  interrompe).  Ma  no.  non  disdegna  nulla!... 

Alfredo.  —  Non  di.^degna  nulla,  zio.  Se  ve  l'ho  avvertito  che  scherza! 
Lo  fa  ap]iosta  per  stuzzicai-vi.  Fa  così  con  tutte  le  persone  a  ciu 
vuole  molto  bene.  Ne  sa  (|ualche  cosa  Maurizio,  poveretto,  che  è 
il  suo  bersaglio.  .Non  è  vero,  Maurizio,  che  sei  il  suo  bersaglio'? 

Maurizio.  —  11  suo  bersaglio,  io?! 

Alfredo.  —  Appunto  perchè  te  ne  vuole  del  bene. 

Maurizio. — Cioè,  distinguiamo... 

Alfredo.  —  Non  ti  allarmare,  che  non  ti  pie|>aro  mica  una  scena  di 
gelosia.  Pusillanime  ! 

Maurizio.  —  Pusillanime,  no! 

Alfredo  —  {ostentando  un  brio  motteggiatore  e  mtaffeitnosUà  csitan- 
sica).  Taci  là  che  ti  conosco!  {Indi  a  Cliulia)  E  conosco  anche 
te,  sai!  angelo  caro!  {E  rivolgendosi  al  Duca)  Nelle  sue  celie  e 
nei  suoi  paradossi,  che  sembrano  amari,  c'è  sempre  invece  un  fondo 
di  gentilezza  e  di  poesia.  (Di  nuoro  a  Claudia,  avvicinandosi  a 
lei)  Vuoi  scommettere  che  t'indovino?  Tu  avevi  destinati  i  tuoi 
piccoli  risparmi,  la  tua  piccola  dote,  salvata  a  stento  dal  naufragio, 
dal  mio  naufragio,  all'educazione  del  bimbo:  e  ades.so.  sapendo 
che  lo  zio  ha  stabilito  di  educarlo  a  sue  spese  con  la  larghezza 
che  i  suoi  mezzi  gli  permettono,  tu  sei...  un  tantino  gelosa.  In- 
dovino, si  o  no? 

Claudia  —  {invelenita,  si  comprime  e  si  chiiide  nel  silenzio). 

Alfredo.  — Ma  sei  una  bambinona,  vedi!  Che  sarebbero  tutti  i  mi- 
lioni di  Rothschild  senza  le  tue  cure,  senza  le  tue  carezze,  senza 
il  tuo  soffio? 

Il  Duca.  —  Mi  pare  che  Alfredo  dica  benissimo. 

Alfredo.  —  Nessuno  oserà  usurpare  il  tuo  posto.  Io  mi  propongo  di 
essere  un  babbo  tenerissimo.  Va  bene.  Lo  zio  si  propone  d'assu- 
mere la  parte  del  nonno,  e  sarà  un  nonno  incantevole.  Ma  per 
lui  e  per  me  nulla  parrà  più  bello  e   più    rassicurante  di   questa 


MATERNITÀ  (19 

iiianimiiia  tutta  assorta  nel  suo  compito  e  spadioneggiaiite  presso 
la  culla  che  ci  deve  tenere  insieme.  Quanto  poi  a  quel  signore  che 
fa  l'indiano  {indicando  scherzosamente  Maìirisio),  visto  che  siamo 
abituati  a  vedercelo  tra  i  piedi,  dovremo  pine  annnetterlo  qualche 
volta  al  circolo  domestico.  A  una  sola  condizione  però:  che  non 
si  dolga  più  di  sentirsi  dire  che  gli  si  vuol  bene. 

II.   I)uc.\  —  (ride). 

Maukizio.  —  lo  non  me  ne  sono  doluto,  ma... 

Ai.i'HEDo  —  {con  solennifù  comica).  Chiedete  scusa  a  doinia  Claudia 
della  vostra  inconsulta  protesta.  Sconoscente!  lo  offro  intanto  da 
fumare  allo  zio.  (Prende  la  scatola  dei  sigari). 

Il  Duca.  —  Dopo  pranzo,  o  un  avana  o  niente. 

Alfredo  —  (porgendogli  la  scatola).  Me  ne  ricordavo  e  ne  avevo  com- 
perati apposta. 

Il,  Duca  —  (scegliendo  un  sigaro).  Sì,  un  avana  e  una  ]iarti1a  a  scacchi. 
Ecco  quello  che  ti  scroccherò  spesso  e  volentieri.  Olfi'e  il  pranzo. 
l)en  inteso. 

Alfredo.  —  Una  partita  a  scacchi?  Maurizio,  hai  sentito?  Una  fortuna 
per  te! 

Maurizio.  —  Cosa? 

Alfredo.  —  Lo  zio  è  un  forte  giuocatore  di  scacchi. 

Maurizio.  —  Beh  ? 

Alfredo.  —  Sei  un  accanito  giuocatore  anche  tu. 

Maurizio.  —  Io! 

Alfredo.  —  Tu  !  tu  ! 

Il  Duca.  —  Pei-  bacco!  Un  accanito  scacchista?  Siiii]iaiicissimo!  Ci 
misureremo. 

AiJ'KEDO.  —  Egli  non  chiede  che  di  misurarsi.  Su,  su.  Maurizio!  Co- 
raggio e  all'opera!  (Al  Duca)  Potrete  giuocare  agli  scaccili  lullc 
le  sere,  zio. 

Maurizio.  —  Con  me? 

Ai.FREDO.  —  Con  me  certamente  no.  perchè  non  li  so  giuocare. 

Maurizio  —  (sperando  ancora  di  sottrarsi).  Ma  io  li  giuo<-avo  una 
volta...  Adesso  non  sono  più  in  esercizio...  Non  potrei. 

Alfredo.  —  Zio,  non  gli  credete.  È  una  civetteria. 

Il  Duca  —  (che  si  è  già  seduto  presso  la  scacchiera).  Qua.  (|ua.  mio 
degno  avversario. 

Alfredo  —  (a  Maurizio).  E  tu  non  fumi?  Prendi  tu  pure  un  axaiia. 
(Mettendogli  la  scatola  fra  le  mani,  sottovoce,  in  fretta)  Non  li  litiii- 
tare,  te  ne  prego.  Devo  dire  due  jiarole  a  mia  moglie.  Se  non  mi 
aiuti  tu,  chi  vuoi  che  m'iiiuVil  {Indi,  lecando  la  roce  come  .<ie  con- 
tinuasse un  discorso)  E  io...  sempre  fedele  alle  mie  sigaielle.  [(Uiint 
di  tasca  il  portasigarette). 

Il  Duca.  —  Un  po'  di  fuoco,  Alfredo. 

Alfredo.  —  Immediatamente. 

(vLAUDiA.  —  Me  ne  duole  assai,  ma  sono  costretta  a  pregarvi  di  non 
fumare.  Sento  che  il  fumo  mi  farebbe  un  po'  male. 

Il  Duca.  —  Per  conto  mio.  ci  rinunzio  subito,  donna  Claudia. 

Alfredo.  —  Ma  no,  ma  no.  Piuttosto  andate  a  giuocare  nel  fumoir. 
Starete  più  raccolti.   (Tocca  il  hnttone  del  campanello). 

Il  Duca.  —  Ah  si!  Questo  è  un  benedetto  giuoco  per  cui  non  ci  si 
raccoglie  mai  abbastanza. 

Maurizio  —  (sospirando  di  pazienza).  Haccogliamoci. 


70  MATERNITÀ 

11,  SKRVO  —  {entra  dal  fondo). 

Alfredo.  —  Accendete  nel  fumoir.  E  portaU'  li  (infila  scacchiera. 

Il,  SERVO  —  (esce  a  siìiislra,  portando  via  la  scacchiera). 

Il  Duca  —  {alzandosi).  Siamo  noi  intanto,  donna  (llavulia,  che  (loh- 

hiamo  chiedere  ()eidono  a  voi.  Avremmo  dovuto  pensare  che  nelle 

vostre  condizioni... 
Alfredo.  —  È  la  prima  volta,  per  altro,  che  ella  avverta  di   non  i)oter 

tollerare  il  fumo.  Da  oggi  in  poi,  ci  baderò.  {A  Claudia)  in  casa, 

mia  bella  mammina,  non  fumei'ò  più. 
Il  Duca.  —  Molto  galante! 
Ai,i'REDO  —  {abbreviando).  Buon  giuoco,  zio  !  Buon  divcrtiiuenlo,  Mau- 

lizio  ! 
Maurizio.  —  Grazie  tante! 

Il,  Duca  —  {presso  la  porta,  a  Maurizio).  Prego,  caro   avversario!... 
Maurizio.  —  Prego,  prego,  Duca... 
Il  Duca   —  {via  a  sinistra). 

Alfredo  —  {sottovoce,  in  fretta).  Ti  laccomando:  fammelo  vincere. 
Maurizio.    -  Ma  tu  lo  sai  che  lo  star  seduto  dopo  pranzo  per  me  è 

una  catastrofe. 
Alfredo.  --  Giuoca  all'impiedi. 
Maurizio.  —  lo  non  voglio,  cai)isci,  non  voglio! 
Alfredo.  ~  Ed  è  questa  ramicizia  die  hai  per  me  e  per  mia  moglie"? 
Il  Duca  —  {di  dentro,  iinpazievte).  Signor  Maurizio!  Signor  Maurizio  ! 
M.^URizio.  —  Uhm  !  {Dando  un  pM(jno  in  aria,  esce). 

SCENA  111. 
Alfredo  e  Claudia. 

Alfredo  ^  (dopo  un  silenzio).  Desideravo  di  aver  subito  un  colloquio 
con  te.  {Cerca  di  tenere  un  fono  gentile,  mte,  cordiale).  Lo  desi- 
deravo, perchè  il  tuo  contegno,  mia  buona  Claudia,  mi  crea  una 
posizione  diflicile.  In  tutto  ciò  che  fai  e  che  dici  dinanzi  a  mio 
zio  e  specialmente  in  tutte  le  parole  che  rivolgi  a  lui  e'  è  sempre 
un  non  so  che  d'ironico,  di  acre,  e  perfino  d'insolente  che  è...  inop- 
poituno.  Mio  zio  non  è  un  rimbambito.  Egli  si  è  ravvicinato  a  noi 
per  partecipare  alla  festa  della  nostra  famiglia,  e  questo  ravvici- 
namento è  iier  noi  -  tu  ne  sei  persuasa  -  un  bene,  sotto  tutti  i 
rapporti.  L'avvenire  della  nostra  creatura  è  assicurato.  Noi  po- 
tremo vivere  con  essa  e  per  essa  nella  sicin-ezza  della  sua  prospe- 
rità. Ma  viceversa,  se  mio  zio  dubitasse  della  nostra  gratitudine, 
se  non  vedesse  in  questa  casa  mi  perfetto  accordo,  dovuto  appunto 
alla  più  dolce  delle  aspettazioni,  noi  saremmo  liquidati. 

Claudia  —  (siede,  in  silenzio.  Il  suo  volto  dice  tutta  V amarezza  dcl- 
l'anima  sua  e  l'estremo  sforzo  della  sua  prudenza). 

Alfredo  —  (accostandosi  a  lei).  D'altronde,  perchè  non  dovremmo  mo- 
strargli ciò  che  è  vero?  Dopo  la  mia  jìrima  sensazione  di  sorpresa, 
che  stamane  ti  è  giustamente  dispiaciuta,  a  poco  a  ])Oco  io  ho 
ritrovato  quello  che  s'era  per  un  pezzo  nascosto  nel  fondo  del  mio 
cuore.  La  tua  dignità  severa  aveva,  apiiarentemente,  mutato  in 
rispetto  profondo  Tamoie  die  In  mi  avevi  ispirato.  Ma  esso  è  ri- 
masto sempre  vigile  dentro  di  me  per  avvertirmi,  se  non  altro,  di 
lutto  ciò  che  vi  era  di  efimero  in  qualche  mia  momentanea...  di- 


MATERNITÀ  / 1 

vagazione.  E  se  tu  sapessi  quante  volte  io  ho  sentita  la  nostalgia 
d'una  unione  più  intima  fra  me  e  te!  Pei-  dare  impulso  al  mio 
affetto,  io  avevo  bisogno  di  un  tìglio,  sì,  di  un  figlio,  il  solo  vin- 
colo che  possa  davvero  far  combaciare  fra  loro  due  volontà,  due 
temperamenti  diversi.  Ed  è  per  questo  che  adesso  1"  accordo  e'  è. 
E  tu  che  non  hai  mai  cessato  di  essere  la  più  nobile,  la  più  fedele 
delle  mogli,  puoi  stringerti  a  me  e  prepararti,  insieme  con  me,  a 
una  vita  tutta  bella.  {La  circonda  delicatamente  col  braccio).  Via, 
Claudia  !  Non  ti  accorgi  che  oramai  non  so  più  stare  vicino  a  te 
senza  darti  la  prova...  del  mio  affetto"?  (La  bacia). 

Claudia  —  (levandosi  con  atto  di  ribresso).  Ah,  no  ! 

Alfredo.  —  Claudia!... 

Claudia.  —  No!  no!  no!  Questa  sozza  commedia  mi  fa  schifo  ! 

Alfredo.  —  Silenzio,  per  carità!  E  rientra  in  te,  Claudia,  rientra 
in  te! 

Claudia.  —  lo  avrei  voluto  parlarti  con  tranquillità,  avrei  voluto  an- 
nunziarti pacificamente  la  risoluzione  ferma  e  irrevocabile  di  se- 
pararmi da  te  e  d'andare  a  vivere  sola,  lontana  da  tutti... 

Alfredo.  —  Tu  sei  un'insensata  ! 

Claudia.  —  Ma,  in  poche  ore,  mi  si  è  così  appesantita  addosso  que- 
st'afa pestifera  di  transazioni,  di  finzioni  e  d'infamia  che  non  mi  è 
più  possibile  nemmeno  di  serbare  una  calma  relativa,  non  mi  è  più 
possibile  di  tacerti  ancora  quanto  ti  disprezzo,  lo  mi  sento  .sotto- 
care  !  Io  mi  sento  morire  d'asfissia!  Aria!  aria! 

Alfredo.  —  Abbassa  la  voce,  maledizione!  (Citi ade  in  fretta  l' uscio 
a  destra,  e  torna  a  lei).  Abbassa  la  voce! 

Claudia  —  {in  tono  piii  sommesso,  come  per  una  concessione).  È  com- 
pletamente inutile,  dunque,  che  tu  ti  dia  la  pena  di  fingere  e  di 
mentire.  Io  ho  deciso  di  scavare  un  abisso  fra  me  e  te.  E  Io  farò  ! 

Alfredo  —  (padroneggiandosi).  Senti.  Claudia,  non  è  questo  il  mo- 
mento di  discutere  la  tua  risoluzione.  Ciò  che  per  ora  devo  chie- 
dere alla  tua...  cortesia  è  che  tu  mi  risparmi  adesso  l'imbarazzo 
grave  d'uno  scandalo,  che,  tutto  sommato,  tu  non  puoi  temere 
meno  di  me  !  Andiamo  di  là,  Claudia...  Parleremo  a  nostro  agio 
quando  saremo  soli  in  casa...  Andiamo  di  là... 

Claudia.  —  E  tu,  senza  pensarci  su  due  volte,  fidi  nella  certezza  che  io 
tema  Io  scandalo? 

Alfredo  —  (tentando  di  parer  sempre  mite  e  remissivo).  Forse  non 
lo  temi.  Non  hai  ragione  di  temerlo.  Sta  bene.  Ma  una  cosa  è  non 
temerlo  e  un'altra  è  invocarlo  addiiittura. 

Claudia.  —  Orbene,  è  proprio  così.  Io  lo  invoco  !  Io  lo  voglio  ! 

Alfredo.  —  Ma  nella  tua  ribellione,  vedi,  ci  dev'essere  un  errore  di 
fatto,  ci  dev'essere  un  equivoco. 

Claudia.  —  Nella  mia  ribellione  c'è  l'idea  chiara  ed  esatta  di  ciò  che 
è  stato  e  di  ciò  che  .sarà. 

Alfredo.  —  Appunto  di  ciò  ragioneremo. 

Claudia.  —  Ciò  che  è  stato,  te  Io  dico  subito.  (Parla  rapido  e  con- 
citata). Non  erano  trascorsi  pochi  giorni  dalle  nostre  nozze  e  io 
comprendevo  già  che  mi  avevi  spesata  per  una  capricciosa  osti- 
nazione di  uomo  corrotto  dal  quale  una  fanciulla  non  s' era. la- 
sciata prendere.  La  percezione  della  realtà  incenerì  a  un  tratto  il 
mio  amore  o  quel  sentimento  che  avevo  creduto  amore.  Eppure 
rimasi  al  mio  posto.  Non  per  omaggio  alle  convenienze  sociali  e 


nemmeno  per  rispetto  al  tuo  nome  clie  tu  per  il  primo  non  ri- 
spettavi :  no,  no!;  ma  percliè  ron  volevo  rinunziare  a  un"aiflente 
speranza,  non  \olevo  linunziare  a  un'ambizione  che  tutta  mi  te- 
neva, lo  ero  presa,  ero  dominata  da  un  singolare  istinto  di  ma- 
ternità, che  andava  assumendo  le  proporzioni  d'una  necessità  im- 
prescindibile della  mia  vita  e  che  era  sempre  stata  la  guida,  la 
luce,  la  fiamma  della  mia  esistenza  !  {Più  dolce)  Quando  ero  bam- 
hina,  carezzando  le  mie  bambole,  io  costruivo  nella  mia  inco- 
scienza qualche  cosa  che  era  assai  più  della  tenerezza  infantil';, 
di  cui.  a  quella  età,  si  circonda  la  marionetta  graziosa.  E  più  tardi, 
mano  mano  che  la  mia  indole  si  è  sviluppata,  mano  mano  che 
il  tuiiudto  vario  del  mondo  mi  ha  investita,  una  sola  voce  ho  ben 
distinta,  una  sola  voce  m'è  parsa  limpida  e  convincente,  quella 
che  mi  parlava  della  t.irza,  della  gioia  e  della  gloria  di  sentirsi  ma- 
dre! Io  porto  oramai  nel  mio  seno  l'oggetto  di  lutili  miei  sogni, 
di  tutte  le  mie  aspirazioni.  Ho  trionfato  !  Ho  trionlalo  I  Posso  de- 
nunziare la  tua  indegnità  !  Fosso  respingerti  come  un  intruso  ! 
lo  basto  a  n)e  stessa.  Dio,  te  ne  ringrazio  !  E  non  devo  chiedere 
più  nidla  a  nessuno  !  Vallone. 

Alfredo  —  (con-elile  iiii'eire  contro  'li  lei.  ro, rebbe  metterle  un  ba- 
vaglio per  costringerla  a  tacere;  ma  k  lui  che  è  costretto  a  frenarsi 
e  ad  ingoiare  la  rabbia  che  gli  sale  alla  bocca).  (Una  pausa).  (Indi 
con  un  sorriso  bieco)  Dopo  tutto,  mia  cara  Claudia,  questo  figlio, 
che  già  prima  di  nascere  li  rende  così  orgogliosa  e  così  battagliera, 
è  anche  mio. 

Claudia  —  {seccamente).  Tu  non  lo  credi  che  sia  tuo. 

Alfredo.  —  Ti  ho  detto  io  di  non  crederlo  ".' 

Claudia.  —  Non  lo  credi  ! 

Alfredo.  —  E  re  ])ure  io  non  lo  credessi  o  se  appena  ne  dubitassi, 
non  ti  affrelleiesli  tu  a  protestare  per  il  tuo  decoro  ' 

Claudia.  —  Il  fatto  è  che  io  so  ((uello  che  tu  i)ensi,  e  non  piotesto! 

Alfredo.  — •  La  tua  audacia  è  un  lusso  inutile. 

(Claudia.  —  Non  protesto  ! 

.■ALFREDO.  --  11  mio  convincimento  è  già  formalo! 

Claudia.  --  Formato  o  no,  la  verità  vera  non  può  essere  che  il  mio 
segi'eto  ! 

A],FRED0.  —  Ma  dove  vuoi  arrivare  tu''  Quale  scopo  ti  prefiggi".' Quale 
altra  illusione  nascondi  nella  tua  fatua  spudoratezza'? 

Claudia.  —  Non  è  un'ir.usione.  È  il  diritto  di  salvaguardare  la  mia 
creatura  dalle  ingiurie  della  tua  falsità  ! 

Alfredo.  —  K  un  diritto  fantastico,  condannato  a  resfare  nel  mondo 
della  tua  immaginazione. 

Claudia.  -  lo  saprò  gridare  a  tutti  che  non  sei  il  padre  di  mio 
figlio! 

Alfred(j.  —  Il  Codice  non  attribuisct^  alcun  valore  alle  confessioni  di 
tal  genere. 

Claudia.  —  E  ti  rassegnerai  tu  allo  scandalo  che  poc'anzi  temevi'.' 
E  il  tuo  nome,  la  tua  stirpe,  il  tuo...  il  tuo  onore  ti  permette- 
lanno  di  rassegnarli  e  di  covrirli  di  ridicolo,  negando  quello  che 
io  affermerò  '?  E  anche  ammesso  che  tutto  questo  non  ti  spaventi, 
che  importanza  lia  la  legge  nel  caso  nostro";'  Tu  hai  bisogno  della 
paternità  j)er  carjiire  del  denaro  a  un  parente  milionario.  Sei  tu 
sicuro  che  la  mia  confessione  non  basterà  a  l'aiti  perdere  la  partita''^ 


MATERNITÀ  73 

i^r.FREDO  —  {offuscato  daìl'ira).  Non  insistere,  per  Dio,    perchè  se  tu 

ti  ostinassi  a  volermi  rovinare,  io  non  so   che   cosa  accadrebbe. 

Un  uomo,  che  è  giunto  dove  sono  giunto  io,  non  ha  e  non  deve 

più  avere  scrupoli  di  coscienza  ! 
jLAUDIA  —  {hrvasa  dalla  paura,  sharra>ic1o  gli  occhi).  Alti'edo! 
U,KREDO.  —  Sì,  io  potrei  essere  capace  di  tutto!... 
ìi.AUDiA  —  (indietreyfjiando).  Di  percuotermi,  anche!'? 
ILFREDO.  —  Taci,  te  ne  supplico! 
Il.'VUDia  —  {serrando   al   corpo  le   braccia  incrociate  per  difendersi, 

grida:)  Sarebl)e  la  distruzione!  Portatemi  via!   Portatemi  via! 
{Il   Duca  e  Maurizio  accorrono). 

SCENA  IV. 
Il  Dica,  MArRizio,  Claudia  e  Alfredo. 

ALFREDO.  —  No...  nidla  di  grave,  zio.  Non  vi  spaventate.  Una  crisi 
nervosa  che... 

jLaudia.  —  Non  è  vero  !  Egli  mi  ha  minacciata  di  violenze  inaudite! 

L  Duca  —  [ad  Alfredo).  Tu!? 

u.FREDO.  —  Zio,  io  conto  sul  vostro  buon  senso.  Questa  donna  è  in 
preda  a  un  accesso  di  follia,  di  cui  mi  sfugge  la  causa.  Ella  vi 
dice  e  vi  dirà  delle  cose  enormi.  Ma  sono  certo  che  voi  non  le 
presterete  fede. 

jLAUdia  —  {affannosamente,  assorgendo,  esaltandosi).  Duca  di  Vigena, 
voi  siete  tornato  tra  noi  per  amore  di  pace  e  di  concordia".'...  Vi 
hanno  ingannato,  lo  vi  giuro  che  detesto  mio  marito  e  che  egli 
mi  detesta!  Voi  avete  scelto  a  erede  mio  tiglio  come  continua- 
tore della  famiglia  illustre  a  cui  mio  marito  a|ìpartiene  "'...  Eb- 
bene, avete  scelto  male,  ])erchè  egli  stesso  è  convinto  che  questo 
tìglio  non  è  suo  I 

I-  Duca  —  (impetuosamente,  a  Claudia).  Un'accusa  orribile  che  voi 
respingete  !  1? 

ÙLAUDIA.  —  (con  frenesia).  Se  avessi  voluto  lespingerla,  non  l'avrei 
rivelata  a  voi.  lo  sono  qui  per  confermarla,  e  nessuno  la  sosterrà 
con  pilli  fervore  di  me. 

ALFREDO  —  (con  energia  audace).  Non  bisogna  crederle,  zio  lo  non 
ho  mai  sospettato  di  lei. 

J.AUDiA.  —  Fino  a  stamane,  mentre  cercava  di  riconquistare  il  vostro 
affetto,  l'accontandovi  i  suoi  ravvedimenti  e  le  mie  virtù,  egli  mi 
faceva  seguire,  mi  faceva  spiare  da  una  persona  di  sua  fiducia;  e  un'ora 
fa...  un'orafa  ha  dovuto  avere  la  certezza  che  appunto  stamane  mi 
sono  recata  di  nascosto  in  casa  d'un  uomo!  (Siede  affranta). 

i.  Duca  —  (ad  Alfredo).  Dunque,  ti  rassegnavi  a  tutto!? 

Maurizio.  —  Ah!  Vivaddio,  io  non  devo  permettere  che  la  signora 
marchesa  si  lasci  andare  al  capriccio  di  accusarsi  così  ingiusta- 
mente. Ella  conta  sulla  mia  timidità?  Ella  conta  sulla  mia  pru- 
denza egoistica?  Ma  io  parlerò,  perbacco!  Io  parlerò!  Anche  perchè, 
dopo  di  aver  parlato,  mi  sentirò  meglio!  È  proprio  in  casa  mia 
che  ella  si  è  recata  stamane.  Se  la  spia  è  stata  diligente,  Al- 
fredo non  ))uò  ignorare  ciò.  Questa  mattina,  sì.  la  marchesa  di 
Montefranco  mi  ha  onorato  di  una  sua  \isita  per  ragioni  che 
spiegheiò  più  tardi  se  sarà  utile  e  che  adesso  sarebbero  fraintese. 


^ 


74  MATERNITÀ 

lo  non  sono  ramante  della  marcliesa  di  MontetVaneo.  Reco  qnello 
elle  i)er  ora  è  necessario  .sapere.  E  lo  attermo  in  lìerfella  coscienza, 
impegnando  la  mia  parola  di  gentiluomo. 

Alfredo  —  {die  lo  ha  guardato  dissimulando  la  sua  completa  incre- 
dulità, si  affretta  ad  aggiungere:)  È  la  verità,  zio! 

li,  Di'CA  —  {ironicamente).  Ed  era  lui,  intatti,  il  solo  che  ce  la  potesse 
dire.  {Camhiando  tono)  lo  creilo  che  da  quando  esiste  l'islilu- 
zione  delfinfedeltà  coniugale,  sia  questa  la  prima  volta  che  un 
marito  si  convince  che  sua  moglie  non  ha  un  amante  esclusiva- 
mente perchè  è  l'amante  stesso  che  glielo  garantisce. 

Maurizio.  —  Ma  sono  bene  io  che  posso  sapere  di  non  esserlo  ! 

Il  Duca.  —  Voi  non  fate  che  compiere,  nel  modo  più  rudimentale,  il 
vostro  dovere,  e  cercate,  se  non  altro,  di  seguire  la  tradizione. 
Chi  se  ne  guarda  dal  seguirla  è  mio  nipote.  E  me  ne  felicito 
molto  con  lui.  Egli  è  un  innovatore.  La  prammatica  gli  sugge- 
riva di  mettervi  alla  porta  questa  sera  e  di  ammazzarvi,  possibil- 
mente, domani... 

Maurizio.  —  Non  ci  mancherebbe  altro  ! 

Il  Duca  —  {continuand>).  Ma  chetatevi,  perchè  ciò  non  avverrà.  Egli, 
invece  di  pensare  ad  aramazzarvi,  vi  ha  chiamato  in  suo  soccorso, 
e,  tacitamente,  vi  ha  domandato:  Sei  l'amante  di  mia  moglie'? 
Voi  gli  avete  risposto  di  no.  E  tutto  si  è  appianato.  \Diventando 
sempre  più  serio)  11  che  significa  che  sullo  scandaloso  teatro 
dell'odierno  sfacelo  morale,  dove  perfino  1  pii'i  degeneri  dei  suoi 
pari.  Ira  i  disastri  del  tappeto  verde  e  quelli  dei  mercati  usurarii, 
tra  il  ludibrio  della  prostituzione  |)rofumata  e  quello  delle  tresc'he, 
hanno  saputo  talvolta  ivippresenlare  l'einsodio  tragico  della  loro 
decadenza  facendosi  saltare  le  cervella  in  omaggio  alla  antica 
purezza  del  blasone,  egli,  iniziatore  della  degenerazione  allegra, 
ha  preferito  di  fare  del  suo  stemma  il  simbolo  del  buonumore, 
l'insegna  della  più  grottesca  comicità  ! 

Alfredo  —  {con  risentimento).  Zio! 

Il  Duca.  —  Vi  proibisco  di  chiamarmi  zio.  lo  sono  stato  bensì  per 
un  giorno  il  vostro  zimbello.  Non  saprei  rimproverarne  voi.  Ma  ne 
chiedo  scusa  a  me  stesso.  E  me  ne  vado.  {Rivolgendosi  a  Claiulia) 
Donna  Claudia... 

Claudia  —  {sorpresa  che  il  Duca  Ir  diriga  la  parola,  si  alza  rispet- 
tosamente). 

Il  Duca.  —  Io...  superfluo  il  dirlo...  non  ho  nessuna  predilezione  per 
l'adulterio.  Mi  è  sempre  parso  una  cosa  abbastanza...  abietta.  Ma 
devo  convenire  che  nei  limiti  inalterabili  dell'errore  voi  lo  avete 
alquanto  nobilitato.  Se  tutti  i  mariti  del  bel  numero  fossero  come 
vostro  marito,  e  se  tutte  le  mogli  adultere  fossero  come  voi,  ho 
paura...  ho  paura...  che  l'adulterio...  finirebbe  col  piacermi.  Vi 
saluto,  donna  Claudia.  {Fa  un  inchino). 

Claudia  —  {incliinandosi  unciie  lei).  Duca... 

Il  Duca  —  {esce  dal  fondo). 


MATERNITÀ  75 

SCENA    V. 
Maurizio,  Alfredo  e  Claudia. 

Maurizio.  —  Kd  ora,  marchesa,  spero  die  vi  unirete  a  me  nel  dare 
delle  spiegazioni  a  vostro  marito. 

Alfredo  —  (con  la  bile  sulle  labbra),  lo  non  ti  ehiedo  nessuna  spie- 
gazione e  te  ne  dispenso. 

Maurizio.  —  Ma  non  me  ne  dispenso  io. 

Alfredo.  —  Mi  hai  seccato. 

Maurizio.  —  Non  mi  pare. 

Alfredo.  —  Mi  hai  seccato! 

Maurizio  —  {vivacemente).  Io  ripeto  che  non  sono... 

Alfredo  —  {con  maggior  vivacità).  Se  tu  non  fossi  ramante  di  mia 
moglie,  saresti  qualche  cosa  di  peggio  ! 

Maurizio.  —  Tu  impazzisci! 

Alfredo.  —  Saresti  il  traditore  pettegolo  e  malvagio  d"un  amico  di 
vent'anni  senza  nessuna  attenuante! 

Maurizio.  —  Ma  lasciami  dire... 

Alfredo.  —  Io  preferisco  di  non  crederti  tale!  E,  non  per  fare  della 
tragedia,  come  vorrebbe  mio  zio  -  perchè  già,  tanto,  il  farla  con 
te  sarebbe  un  bel  tour  de  force  -  ma  per  essere  pratico  e  spic- 
ciativo, ti  prego  di  risparmiare  a  me,  da  oggi  innanzi,  l'incomodo 
della  tua  presenza. 

Maurizio.  —  Ah,  questa  è  la  conclusione'  {A  Claudia)  lo  ne  piglio 
una  malattia!  {Poi,  ad  Alfredo)  Ma  prima  di  ammalarmi  definiti- 
vamente, e  prima  di  lasciare  ]ier  sempre  questa  casa,  giacché  ti 
fa  tanto  piacere  che  io  sia  ramante  di  tua  moglie,  mi  affretto  a 
renderti  felice,  mi  affretto  a  colmarti  di  gioia!  Sì,  si,  io  l'adoro, 
ella  mi  adora,  noi  ci  adoriamo  come  due  pazzi  sfrenati;  e  se  si 
continua  di  questo  passo,  con  l'aiuto  della  Divina  Provvidenza, 
andremo  tutti  e  due  al  manicomio,  dove  ci  adoreremo  con  la 
camicia  di  forza.  11  che  sarà  semplicemente  delizioso!  E  buona 
sera!  (Esce  difilato). 

SCENA  VI. 
Claudia,  Alfredo,  il  servo. 

Alfredo.  —  Buffone!  {Breve  pausa.  Si  stringe  nelle  spalle  cinicamente. 

Si  avvia  verso  il  fondo  come  per  uscire). 
Claudia  —  {per  trattenerlo).  Dunque"' 
Alfredo  —  {si  volta.  Dopo  un  altra  pausa,  con  accento  freddo  e  secco) 

Sta  bene.  Ci  siete  riuscita.  Ci  .se))arereino. 
Claudia.  —  Legalmente"' 
Alfredo.  —  Legalmente. 
Claudia.  —  E  la  vostra...  paternità"/ 
Alfredo.  —  Riconosco  che  Taibitra  naturale  siete  voi.  Voi  la  negate; 

e  quindi  io  la  nego. 
Claudia.  —  E  dinanzi  ai  tribunali? 
Alfredo.  —  La  negherò. 
Claudia.  —  È  quello  che  io  desidero;  ma  vi  pieglierete  voi  certamente 

ad  accettare  la  parte  del  marito  ingannato"? 


7()  MATERNITÀ 

Alfredo.  —  Oramai  commetterei  la  più  ingenua  delle  stoltezze  assu- 
mendo dei  doveii  che  non  mi  sjìettano.  Fra  i  due  mali,  scelgo  il 
minore. 

Claudia.  -  Sarà  per  altro  indis|)ensal)ik>  esibire  delle  prove  con- 
vincenti. 

Alfredo.  —  Senza  dubbio. 

Claudia  —  (riflettendo).  Quali '^ 

Alfrkdo.  —  Se  non  ce  ne  sono,  bisognerà  inventarne. 

Claudia.    -  Stabilirete...  delle  circostanze,  delle  date,  dei  confi-onli... 

Alfredo.  —  Ma  badate  che  anche  pei'  inventare  io  non  \)(An)  che 
lasciarmi  dirigere  da  voi,  perchè  i  confronti,  le  fiate,  le  circo- 
stanze si  devono  subordinare  a  un  fatto...  che  è  il  «  vostro  segreto  ». 

CiiAUDiA.  —  Questo  è  giusto. 

Alfredo.  —  R  allora"^ 

Claudia.  —  Ci  metteremo  d'accordo. 

Alfredo.  —  Ecco:  ci  metteremo  d'accordo. 

Claudia.  —  Voglianio  parlare  adesso"? 

Alfredo.  —  Parliamo  adesso. 

Claudia.  —  (tocca  il  bottone  del  campatiello). 

Il  servo.  —  (comparisce  subito  dal  fondo). 

Claudia.  —  Non  siamo  in  casa  per  nessimo. 

Il  servo  —  (via). 

Claudia.  —  (siede  presso  mi  tavolino). 

Alfredo  —  (paziente,  prende  una  sigaretta,  l'accende.  Poi  siede  dirim- 
petto a  CAaadia).  Sono  a  voi. 

Claudia.  —  (con  un  lieve  gesto,  severamente  avverte),   frego... 

Alfredo.  —  È  vero,  si!  (Getta  via  la  sigaretta). 

SIPARIO. 

fJl  tergo  e  il  quiirlti  atta  al  prossiiini  fdsiiculo). 

lioHi-.iiTo  Bracco. 


VIOTTOLI  DI  CAMPAGNA 


La  corda  d'acciaio. 

Su  la  corda  di  Jniono  ai-ciar  prolesa 
fino  al  villaggio  da  un'  alpestre  gola, 
scivola  e  rade,  infaticata  spola, 
la  messe  nuova  ai  saldi  rostri  appesa. 
Non  più  il  villan  per  l'erma  via  scoscesa 
cui  d'aspre  vampe  il  mezzo  luglio  assola, 
sotto  il  cai'co  che  lieve  oggi  trasvola 
le  dure  spalle  piaga  ne  la  scesa. 

Grato  così  dei  provvidi  metalli 
mirar  da  solatie  vette  un  baglioie 
che  ininterrotto  solca  le  convalli; 
o  ne  le  mute,  notti  udirne  un  lento 
ritmo  di  lontananti  onde  sonore 
che  vibrano  or  sì  or  no  col  vento! 


La  cartiera. 

Strepila  notte  e  dì  senza  mai  soste 
nei  duri  magli  la  cartiera  in  riva 
al  fiume  che  di  schiette  forze  avviva 
le  industri  ruote  a  sua  corrente  opjìoste. 

Giungon,  morendo  ne  la  sera  estiva, 
fioche  da  tante  fabbriclie  discoste 
le  Totle  voci  del  favor,  composte 
dat  vento  in  sola  un'armonia  giuiiva. 
Ma  diletta  e  distinta  odo  fra  tutte 
l'opra  dei  magli  che  fedeli  all'arte 
dei  padri  picchian  macere  e  distrutte 
trame  di  tele:  per  la  loggia  sparte 
domani  al  sol  biancheggeranno  asciutte, 
già  pronte  a  rattener  l'idea,  le  carte. 


78 


La  sega. 

\'iv('  riiidustre  casa  col  respiro 
cruii  t'eii'o  aguzzo  che  rapido  sale 
discende  incide,  e  di  due  ruote  a  pale 
muscose  che  si  volgon  lente:  in  giro 

l'isola  e  il  fiume.  Io  qui  seggo  e  rimiro 
aprirsi  blandamente  tra  un'  eguale 
chiarità  d'acque,  specchio  al  ciel  d'opale, 
presso  le  chiuse,  gorghi  di  zaffiro. 

L'assi  recise  odorano  di  selve 
lontane.  Io  penso,  mentre  in  ogni  fibia 
sotto  gli  strazi  torconsi  gl'immani 

tronchi  con  urli  di  ferite  belve 

(stride  il  ferro  e  più  rudi  piaghe  vibra): 

(luaiile  baie  con  (lucstc  assi  domani".' 


L' osteria. 

Le  feste  l'osteria  dei  colli  è  piena 
di  gente  e  fresca  la  cantina:  sgoccia 
scarsa  dai  putrì  legni  d'una  doccia 
l'acqua,  li  presso,  d'un'alpestre  vena. 

Saggio  un'ora  impetrar  lutta  serena 
dal  patrio  vin  che  spuma  ne  la  boccia 
tonda  e  ricolma!  Un  fior  d'oro  ne  sboccia: 
il  fervor  che  le  risa  agili  sfrena. 

Fin  da  mattina,  dopo  messa,  al  sole 
in  corte  o  de  le  pergole  all'ombria 
come  fraterni  i  giuochi  e  le  [ìarole! 

.\  sera  un  gran  cantar  lungo  la  via 

dei  colli:  fioche  voci,  roche  gole, 

occhi  aperti  al  sognar...  Ciii  sogna,  oljlìa. 


79 


Lungo  il  fiume. 

Dopo  i  tramonti  a  nuvole  di  bragia 
asil  dall'afa  n"è  la  solitaria 
via  lungo  il  fiume:  ivi  più  fresca  l'aria 
che  vien  dai  boschi  e  reca  odor  di  ragia. 

Mormora  in  suo  passar  l'onda  randagia; 
giungono  un  bimbo  e  l'ava  ottuagenaria; 
dietro  ai  rondoni  il  bimbo  gli  occhi  svaria 
e  corre;  ella  su  l'argine  s'adagia. 

Giungon  gli  amanti  ;  è  l'ora.  Da  le  fratte 
un  cantare  di  donna  all' im])rovviso 
si  leva  come  lucido  zampillo... 

Ma  se  la  giovenil  coppia  s'imbatte 

in  noi  che  andiamo  ebliri  del  i)ar,  nel  riso 

naufraga  tra  le  rosse  labbra  il  trillo. 


I  vecchi  gelsi. 

Felice  la  campagna  s'inorgoglia 
di  sua  verzura  tra  un  ronzar  di  sciami; 
soli  sovra  i  noccliiosi  ignudi  rami 
i  vecchi  gelsi  non  recano  foglia. 

D'atroci  piaghe  biancica  la  spoglia 
scorza;  sembran  di  mostri  aridi  ossami 
dopo  una  strage  i  bronchi  irti  che  a  grami 
gesti  rattrasse  l'iterata  doglia. 

S'allietano  d'un  brulichio  di  vermi 
calde  le  case  ;  ai  venti  della  sera 
i  vecchi  gelsi  abbrividano  inermi; 

e  pazienti  aspettano  per  giorni 
innumeri  una  tarda  primavera 
che  ai  rami  le  perdute  gemme  tomi. 


80 


Falciatori. 

Voi  tornate  col  vespro.  Lenii  i  passi 
strisciano  sui  viottolo  sonoro: 
le  falci  grevi  penzolan  dai  lassi 
omeri  :  lungo  ed  aspro  oggi  il  lavoio  ! 

Ma  un  rìso  scuole  gli  arsi  volti  bassi: 
vedeste  il  gran  già  biondo  come  l'oro, 
dei  tieni  oggi  recisi  i  pingui  ammassi, 
e  dei  già  folti  grappoli  il  tesorof... 

La  donna  attende  e  il  nato  ultimo  allatta: 
(piesto  il  pensier  che  sa  dai  duri  campi 
a  le  case  gioiosi  ricondurvi? 

No:  velava  una  nuvola  scarlatta 
il  sole;  e  dava  stranamente  lampi 
di  foco  e  sangue  sui  ferri  ricurvi. 


La  cava. 

Lenti  ed  attenti  all'opera  concorde, 
sparsi  per  vene  occulte  de  la  ricca 
montagna  -  vuote  vene  ornai  !  -,  la  picca 
stretta  in  pugno,  a  la  cintola  le  coi-de, 

scavano:  il  ferro  l'aspre  selci  morde: 
ecco,  vittorioso  un  lo  conticca 
tra  masso  e  masso,  e  vampe  altri  v'appicca: 
(lan  le  rocce  squassandosi  urla  sorde. 

Per  nuove  case  edificar,  ruina 

santa!  Che  importa,  oscuri  eroi,  se  prima 

di  sangue  la  qui  nata  calce  è  rossa  ? 

Altre  ruine  ogni  scoppiar  di  mina 
affretta...  E  già  la  vecchia  torre  in  cima 
al  monte,  trema  da  la  base  scossa. 


Giovanni  Ghiggiato. 


IMPRESSIONI  DI  SICILIA 


Un  amico  dell'Italia. 

Le  brevi  e  simpatiche  impressioni  di  Sicilia,  che  pubblichiamo  con 
animo  lieto,  ci  offrono  gradita  occasione  di  ricordare  ai  nostri  lettori  un 
vecchio  e  sincero  amico  dell'Italia:  il  signor  P.  D.  Fischer. 

È  anzitutto  per  noi  un  piacere  porre  in  rilievo  i  notevoli  progressi  che 
un  osservatore,  cosi  acuto  e  cosi  sperimentato,  come  il  Fischer  ha  constatati 
in  Sicilia.  Come  egli  stesso  ci  ricorda,  l'eminente  tedesco  aveva  visitata 
l'Isola  per  la  prima  volta  nel  1861,  quarantadue  anni  or  sono;  vi  è  ritor- 
nato quest'anno  per  cercarvi  un  quoto  riposo  per  alcune  settimane. 

Quali  cambiamenti!  Il  Fischer  ce  ne  scrive  in  breve,  colla  parola  pacata 
e  misurata  dello  studioso  e  dell'economista:  ma  con  quale  calore,  con  quale 
affetto,  egli  ce  ne  ha  parlato  a  Roma,  nella  sua  recente  e  cara  visita!  Strade, 
ferrovie,  scuole,  alberghi,  sicurezza,  igiene,  spirito  pubblico  ed  operosità  pri- 
vata -  tutto  ha  progredito,  tutto  ha  mutato.  La  nuova  Italia  si  va  affermando 
anche  nell'Isola  con  progresso  misurato,  ma  continuo  e  costante.  E  tutto  vi 
accenna  a  più  liete  speranze,  ed  a  rinnovate  energie  economiche  e  morali. 
Di  ciò  nessun  giudizio  più  sicuro  di  quello  del  Fischer.  Come  straniero, 
il  suo  pensiero  è  sereno  ed  imparziale:  ma  il  suo  cuore  di  amico  dell'Italia 
palpita  e  si  compiace  con  noi.  Egli  è  ritornato  nell'Isola  con  i  suoi  ricordi  di 
quarantadue  anni  or  sono;  l'ha  riveduta,  osservata  e  studiata  alla  stregua 
di  ciò  che  dovevano  fruttare  quarantadue  anni  di  libertà  e  di  progresso  : 
ed  egli  più  volte  ci  ha  ripetuto  che  le  sue  speranze,  le  sue  aspettative  fu- 
rono spesso  di  non  poco  superate.  Ed  il  suo  volto,  sereno  e  simpatico,  si 
apriva  ad  un  sorriso  di  compiacenza  e  di  fede  che  ci  riconfortava. 

Nessun  straniero  ha  studiata  l'Italia  con  tanta  competenza  e  con  tanta 
simpatia,  quanto  il  nostro  illustre  amico.  Perché  in  lui  c'è  la  mente  dello 
studioso  e  l'osservazione  dell'uomo  pratico. 

Il  Fischer  è  figlio  delle  sue  opere,  del  lavoro  e  dello  studio.  Egli  ha 
passata  la  vita  laboriosamente  nell'Apiministrazione  delle  poste  e  dei  tele- 
grafi della  Germania  e  vi  raggiunse  l'alto  grado  di  Sotto-segretario  di  Stato, 
carica  che  tenne  per  lunghi  anni.  Ma  sovra  ogni  cosa,  il  Fischer  fu  il  più 
devoto  ed  abile  collaboratore  dello  Stephan,  il  grande  ministro  delle  poste  te 
desche,  il  fondatore  deìV  Unione  postale  internazionale;  è  a  questa  affettuosa 
collaborazione,  che  solo  la  morte  dello  Stephan  interruppe,  che  il  mondo  intero 
va  debitore  dei  maggiori  e  più  recenti  progressi  dei  servizii  postali,  tele- 
grafici e  telefonici,  che  il  Fischer  più  volte  promosse  ed  illustrò  con  sapienti 
pubblicazioni.  Ed  all'opera  concorde  di  Stephan  e  Fischer  è  pure  dovuto  il 
grandioso  risorgimento  della  marina  postale  tedesca,  la  cui  potenza,  in  breve 
tempo  conquistata,  rappresenta  uno  dei  maggiori  avvenimenti  economici 
dei  tempi  nostri. 

Morto  lo  Stephan  verso  il  1897,  il  Fischer  usci  dall'Amministrazione 
postale  e  chiese  il  collocamento  a  riposo.  La  sua  simpatia  per  l'Italia,  che 

6  Voi.  evi.  Serie  IV  -  1°  luglio  1903. 


82  IMPRESSIONI   DI   SICILIA 

più  volte  aveva  visitata  nella  prima  giovinezza,  l'attirò  ben  presto  a  Romi, 
dove  visse  a  lungo,  dedicandosi  con  intensità  di  pensiero  e  di  affetto  alii 
studio  delle  nostre  condizioni  politiche,  sociali  ed  economiche.  Frutto  ih 
queste  indagini  fu  l'opera  migistrale  di  oltre  603  pagine,  Italien  uinl 
Jtaliener  am  Schlusse  des  neunzehnten  Jafirhunderts  -  (L'Italia  e  ii\\ 
Italiani  alla  fine  del  secolo  xix)  -  che  il  Fischer  pubblicò  a  Berlino  w\ 
1899,  e  di  j;ui  si  fecero  già  parecchie  edizioni. 

Il  volume  del  Fischer  è  oramai  diventato  il  manuale  politico  ed  ecoii.i- 
mico  dell'Italia  all'estero.  Non  v'ha  amico  e  studioso  del  nostro  paese,  in 
qualsiasi  parte  del  mondo,  che  non  consulti  le  successive  edizioni  dil 
Fischer,  come  testo  indiscusso  delle  condizioni,  dei  progressi  e  delle  sih- 
ranze  del  nostro  paese.  Perchè  l'opera  sua  può  dirsi  concepita  sotto  un 
duplice  aspetto  :  da  un  lato  egli  constata  i  progressi  innegabili  già  da  ii'i 
compiuti;  dall'altro 'egli  apre  al  lettore,  con  prudente  perspicacia,  i  nuoNi 
orizzonti  di  un'  Italia  che  risorge. 

Quando  comparve  a  Berlino  la  prima  edizione  del  libro  del  Fischer  fu 
quasi  unanime,  in  Germania,  l'opinione  ch'esso  fosse  ottimista  e  che  la 
seduzione  del  bel  paese  lo  avesse  tratto  a  colorire  le  sue  speranze.  Quattro 
anni  sono  appena  trascorsi,  e  le  previsioni  del  Fischer  sono  raggiunte  :  la 
consolidazione  della  finanza  e  del  credito  italiano  è  un  fatto  compiuto. 
Egli  fu  uno  dei  pochi,  all'estero  e  persino  all'interno,  che  ebbero  fede  nei 
destini  economici  del  ijostro  paese  :  e  nei  fatti  trovò  il  conforto  migliore 
dell'opera  sua.  Pochi  mesi  or  sono,  quando  il  16  gennaio  comparve  nella 
Nuova  Antologia  l'articolo  dell'on.  Maggiorino  Ferraris  sopra,  Il  progresso 
della  finanza  italiana,  esso  non  ebbe  lettore  più  simpatico  e  più  lieto  del 
Fischer,  che  ha  un'ottima  conoscenza  anche  della  nostra  lingua.  Ed  egli 
immediatamente  ne  scrisse  festante  al  Ferraris,  con  lui  felicitandosi  a 
vicenda,  di  aver  insieme  tenuto  fede,  anche  in  momenti  difficili,  «  alle  spe- 
ranze italiche!  » 

Uscito  dal  Ministero  delle  poste,  il  Fischer  non  credette  con  ciò  finita 
la  sua  attività,  ma  con  giovanile  ardore  attese  a  nuove  e  grandi  intraprese. 
L'espansione  economica  della  Germania  ben  presto  lo  attrasse  ed  il  suo  nome 
venne  cosi  a  collegarsi  all'intraprese  tedesche  in  China,  specialmente  alla 
ferrovia  ed  alle  miniere  dello  Sciantung,  di  cui  è  amministratore.  Desideroso 
di  conoscerne  a  fondo  le  condizioni,  il  Fischer,  due  anni  or  sono,  benché 
già  oltre  i  sessant'anni,  con  giovanile  vigoria  intraprese  un  viaggio  in  China, 
visitò  e  studiò  le  aziende  tedesche  e  ritornò  in  patria,  attraverso  gli  Stati 
Uniti,  compiendo  così  il  suo  antico  desiderio  di  un  giro  attorno  al  globo. 
Tanta  attività  non  poteva  a  meno  di  essere  apprezzata  dai  suoi  concit- 
tadini. Chiamato  a  far  parte  della  grande  Banca  di  Berlino,  la  Disco i>to 
Gesellschaft,  il  Fischer  è  attualmente  Presidente  del  Consiglio  di  ammi- 
nistrazione del  potente  Istituto,  che  recentemente  festeggiò  il  primo  cin- 
quantenario della  sua  esistenza ,  colla  pubblicazione  di  uno  splendido 
volume  (1),  in  cui  sono  pure  particolarmente  illustrati  i  molteplici  rapporti 
d'affari,  che  la  Disconto  ebbe  coll'Italia,  soprattutto  per  ciò  che  riflette 
l'emissione  di  obbligazioni  ferroviarie  e  la  costituzione  della  importante 
Banca  commerciale  italiana.  La  presenza  di  un  amico  dell'Italia,  come  il 
Fischer,  alla  testa  di  un  Istituto  cosi  potente,  ci  f<t  sicuri  della  simpatica 
e  poderosa  cooperaziane  del  capitale  tedesco  alle  future  operazioni,  indi- 
spensabili a  proseguire   l'opera   della    ricostituzione    economica  del  nostro 

(1)  Di:;  Discììtto-Oesellschaft  1851  bis  1901.  Dankschrift  zum  50  Jilhrigen 
Jubiliium. 


84  IMPRESSIONI   DI   SICILIA 

paese.  Perchè,  a  dare  un"  idea  della  potenza  della  Disconto  Geselìsc/n 
basti  dire  che  essa  possiede  circa  250  milioni  di  lire  tra  capitale  e  ri?i 
e  che  essa  negozia  ogni  anno  circa  2  miliardi  di  valori  di  borsa  e  3  milia 
di  cambiali. 

Camminare  non  vuol  dire  essere  giunti  alla  meta.  Pure  constatane!'!  : 
non  lievi  progressi  che  la  Sicilia  ha  compiuti,  il  Fischer  non  disconi  - 
la  molta  strada  che  v'ha  ancora  a  percorrere.  Ma.  egli  ha  fede  e  noi  1 
biamo  con  lui.  Egli  sente  che  alcuni  problemi  economici,  specialmente  i 
carattere  agrario,  presentano  una  particolare  gravità:  fa  anzi  comprende  ni- 
di volo  che  richiederebbero  soluzioni  ardite,  alla  tedesca.  Più  volte  gli  a  li- 
biamo chiesto,  quale  sarebbe  l'avvenire  della  Sicilia  e  del  Mezzogiorno  m 
genere,  se  quelle  Provincie  avessero  la  benedizione  di  uno  Stato  operos.j 
e  risoluto  come  quello  prussiano,  e  di  popolazioni  dotate  dello  spirito  di 
iniziativa  e  di  associazione,  come  quelle  tedesche.  Egli  sorrideva  in  elo- 
quente silenzio  od  al  più  ci  animava  ad  aver  fede. 

La  fede  in  noi  stessi  -  ecco  ciò  che  manca  in  questo  momento  agli 
uomini  migliori  della  nostra  Italia:  ecco  ciò  che  soprattutto  difetta  alle 
popolazioni  ed  alle  classi  dirigenti  del  Mezzogiorno.  Meno  recriminazioni 
contro  questi  o  quelli,  contro  lo  Stato  ed  i  Municipii,  contro  il  Nord  e 
contro  tutti!  Meno  querimonie,  meno  domande  al  Governo  -  maggiore  con- 
cordia di  voleri,  maggiore  continuità  di  propositi,  maggiore  operosità  per 
il  bene  di  ognuno  e  di  tutti.  Il  Governo  adempia  ai  suoi  doveri  meglio  di 
quanto  non  abbia  saputo  fare  finora;  ma  le  popolazioni  non  aspettino  tutto 
da  esso  e  lottino  per  il  meglio,  con  energia  e  con  fede. 

Con  questo  augurio  diamo  la  parola  al  Fischer,  al  vecchio  e  sincero  amico 
dell'  Italia. 

Berlino,  maggio  1903. 
Mio  onorevole  Amico, 

Ella  mi  ha  richiesto  di  scrivere  alcune  ri<ilie  sulle  impressioni  rice- 
vute nel  viaggio  che  ho  recentemente  compiuto  attraverso  la  Sicilia  e 
l'Italia  meridionale:  con  piacere  aderisco  al  suo  grazioso  invito. 

Due  volte  ho  visitata  la  Sicilia:  la  prima  nella  primavera  del  1861. 
la  seconda  adesso.  Allora,  quarantadue  anni  or  sono,  vidi  cpiella  terra 
immediatamente  dopo  la  liberazione  dal  giogo  dei  Borboni.  Da  un 
estremo  dell'Isola  risuonava  l'inno  di  Garibaldi:  la  camicia  rossa  era 
l'abbigliamento  favorito  dei  giovani;  dovunque  sentivo  narrare  della 
semplicità,  della  bontà  fanciullesca  e  del  coraggio  da  leone  dell'eroe 
nazionale.  Mi  riuscì  assai  commovente  e  gradevole  il  riandare  questi 
ricordi  nell'ultima  gita,  pochi  giorni  dopo  il  mio  arrivo  a  Palermo, 
quando  incontrai,  alla  tavola  ospitale  in  casa  del  sindaco,  un  signore 
che  si  era  unito  ai  Mille,  poco  prima  della  presa  della  capitale  siciliana, 
ed  aveva  combattuto  con  Garibaldi  a  Milazzo  ed  al  Volturno.  «  Nulla  vi 
era  di  cui  non  lo  avremmo  creduto  capace,  nulla  che  noi  non  avremmo 
creduto  di  poter  compiere  sotto  il  suo  comando.  Il  suo  potere  sopra 
i  giovani  era  sconfinato,  noi  ci  trovavamo  quasi  sotto  un  incantesimo. 
Noi,  un  pugno  di  giovani,  avevamo  appena  conquistato  Palermo  che 
Egli  disse:  -  Ragazzi,  ora  al  Faro!  -e  quando  avemmo  sbaragliato  le 
schiere  napoletane  a  ililazzo.  ci  fu  ordinato  :  -  Adesso,  a  Napoli  !  - 
Allora  noi  tutti  avremmo  giurato  che  quella  marcia  vittoriosa  non 
avrebbe  dovuto  arrestarsi,  e  che  noi,  sotto  una  simile  direzione,  saremmo 
giunti  a  Roma  e  poi  all'Isonzo». 


IMPRESSIONI   DI   SICILIA  85 

Orbene,  le  cose  non  procedettero  così  rapidamente,  ma  quelle  mire 
che  parevano  tanto  facili  a  conseguirsi  a  quei  giovani  pieni  di  entu- 
siasmo, sono  state  pure  in  pochi  anni  fortunatamente  realizzate.  Innanzi 
tutto  non  si  è  avverato  ciò  che  gli  scettici  ed  i  paiu'osi  davano  allora 
per  sicuro:  il  periodo  di  calma  che  doveva  seguire  e  seguì  infatti  ai 
sorrisi  della  fortuna  ed  ai  primi  entusiasmi,  non  ha  avuto  per  con- 
seguenza la  rovina  dell'unità  agevolmente  conquistata.  Sento  ancora 
suonarmi  nelle  orecchie  quelle  profezie  di  malo  augurio,  con  le  quali 
allora  mi  si  assaliva  :  «  Il  Nord  ed  il  Sud,  così  fondamentalmente  diversi 
per  indole,  temperamento,  cultura  e  ricchezza,  una  volta  che  sia  passato 
il  sogno  primaverile  di  questo  episodio,  dovranno  fatalmente  disgiun- 
gersi; la  Sicilia  ed  il  continente,  separati  da  un  odio  secolare,  non 
potranno  vivere  d'accordo.  Noi  meridionali  non  ci  lascieremo  governare 
lai  freddi,  rigidi  piemontesi;  tropjio  profonde  radici  ha  nel  nostro 
sangue  il  particolarismo;  e  quelli  sono  troppo  convinti  della  loro  pro- 
pria eccellenza,  per  potersi  indurre  ad  aver  riguardo  alle  nostre  spe- 
ciali qualità...  » 

Ed  ora? 

Certamente,  lo  so.  si  trovano  anche  fra  voi  certi  dotti  così  attac- 
cati alle  loro  teorie  etnografiche  delle  differenze  fra  Nord  e  Sud,  che 
mcor  oggi  si  sforzano  di  dimostrare  teoricamente  l'incompatibilità  dei 
S'ari  gruppi  di  italiani.  Ma  il  reale  stato  delle  cose  ha  dato  ragione  a 
coloro  che  prevedevano  fin  da  allora  l'unità  d' Italia  come  la  soluzione 
ieflnitiva  ed  irrevocabile  dell'assetto  del  paese.  E  questa  è  1"  impres- 
sione che  io,  qiumto  alla  situazione  ])olitica,  ho  ricevuto  inalterata, 
con  mia  soddisfazione,  anche  in  Sicilia.  La  Sicilia  si  è  fusa  nell'Italia, 
3d  è  divenuta  una  parte  vitale  del  corpo  della  Nazione  italiana.  Per 
lunghi  anni,  dei  siciliani  hanno  retto  le  sorti  politiche  dell'Italia.  Anche 
Jopo  la  morte  di  Crispi  e  le  dimissioni  di  Rudini,  i  siciliani  sono  ono- 
revolmente rappresentati  nei  Ministeri,  nei  più  alti  e  più  importanti 
uffici  dell' amministrazione,  dell'esercito,  della  diplomazia,  dell'alta 
finanza  e  dell"  industria.  La  coscrizione  generale,  sconosciuta  e  odiata 
in  Sicilia,  come  in  alcune  altre  regioni,  ha  preso,  in  breve,  piede  nel- 
l'Isola, come  in  ogni  altra  ])arle  d'Italia  ;  a  Dogali  e  ad  Adua  sono  caduti 
molti  siciliani,  insieme  coi  figli  del  continente  e  i  loro  nomi  sono  tra- 
mandati alla  i)ietosa  posterità,  su  monumenti  che  si  incontrano  nei 
centri  grandi  e  in  quelli  minori  dell'isola,  come  anche  di  qua  dallo  Stretto. 

Fin  dal  tempo  dei  Vespri  Siciliani  -  il  ricordo  dei  quali,  noterò  qui 
ii  passaggio,  ricorre  in  Sicilia  con  meravigliosa  frequenza  -  l'isola  della 
Frinacria  si  è  sempre  dibattuta  in  convulsioni  violente  contro  l'oppres- 
sione del  giogo  straniero,  impostole  da  Angioini,  Absburghesi,  Spagnuoli 
3  Borboni.  Più  lunga  che  non  per  le  altie  regioni  d' Italia  è  la  lista  che 
ia  Sicilia  può  vantare,  di  sollevazioni,  di  cospirazioni  e  di  martirii  poli- 
tici. Sotto  questo  aspetto  le  pietre  di  Palermo  parlano  un  linguaggio 
molto  eloquente.  Sulla  piazza  della  Ci'oce  dei  Vespri,  adorna  di  una 
copia  di  quella  croce,  che  vi  fu  eretta  per  ricordo  della  cacciata  dei 
Francesi  avvenuta  in  seguito  ad  una  solle\azione  popolare,  si  mostra 
incor  oggi  il  palazzo  in  cui  ha  risieduto  il  governatore  francese.  Fra 
le  rovine  di  S.  Giovanni  degli  Eremiti,  il  custode  di  questa  vecchia 
chiesa,  ora  trasformata  in  monumento  nazionale,  narra  come  la  cam- 
pana dei  Vespri  abbia  suonato  come  segnale  dello  scoppio  dell"  insur- 
rezione, e  come  sia  avvenuta  la  cacciata  dell'oppressore  straniero.  Una 
lapide  di  tVonte  al  palazzo  in  cui  abita  il  sindaco  di  Palermo  tramanda 


86  IMPRESSIONI   DI   SICILIA 

ai  posteri  i  nomi  della  Giunta  che  diresse  rinsurrezione  del  1848.  Nell.i 
contigua  piazza  della  Rivoluzione,  l'antico  Mercato  Vecchio,  trovai  l.i 
lapide,  ornata  di  corone  fresche,  che  ricorda  i  capi  dei  patrioti,  col.i 
fucilati  dai  soldati  del  Re  Bomba.  Vicino  airantico  ])orto  si  eleva  un 
obelisco  che  porta  i  nomi  di  parecchi  martiri  della  libertà,  fucilati  sui 
principio  dell'insurrezione  del  1860:  Li.  piazza  si  chiama  «  Piazza  delie 
Tredici  Vittime  ». 

E  quando  si  mette  il  piede  nel  magnitico  ornamentale  giardino 
Garibaldi,  che  nel  bel  centro  della  città  offre  un  luogo  di  ricreazione 
assai  ricercato  in  tutte  le  ore  del  giorno  da  giovani  e  da  vecchi,  al- 
l'ombra di  nobili  altissimi  alberi,  si  trovano,  vicino  ai  busti  di  Gaii- 
baldi,  Mazzini  e  La  Farina,  collocati  su  piedistalli,  i  visi  espressivi  di 
altri  patrioti  siciliani,  che  sostennero  vivamente  la  resistenza  contro 
il  dominio   borbonico,  e  ne  prepararono  la  caduta  per  mezzo  di  con- 
tinue cospirazioni  e  di  sollevazioni  sempre  rinnovate.  Sul  piedistallo  che 
porta  il  busto  di  Giuseppe  La  Farina,  sono  enumerati  come  titoli  ono-  ] 
rifìci  quelli  di  «  cospiratore,  oratore,  soldato,  esule  ».  Cospiratore  dunque   \ 
in  prima  linea.  Potrebbe,  ciò  posto,  biasimarsi  la  gioventù  che  ha  dap-  ' 
perlutto  davanti  agli  occhi  questi,  monumenti,  queste  statue  e  queste 
iscrizioni  onorifiche,  se  ancor  oggi  considera  l'espressione  «  cospiraloi-e  » 
come  segno  di  un  talento  degno  di  una  speciale  venerazione,  capace 
di  assicurare  in  particolar  modo  la  gloria  presso   i   contemporanei  e  j; 
presso  la  posterità?  Si  potrà  farle  un  rimprovero,  se  essa,  che  ritrova 
di  preferenza  nei  nomi  delle  vie  e  delle  piazze  nelle   sue  città   natali   ; 
quelli  di  Timoleonte,  dei  Gracchi,  di  Giordano  Bruno,  di  Savonarola,    ' 
e  di  altri  precursori  nella  lotta  per  la  libertà  politica   e  religiosa,  si  ■^. 
entusiasma  innanzi  tutto  per  ciò  che  si  ribella  contro  l'esistente  stato   ' 
di  cose,  e  se  batte  vie  radicali  all'estremo"? 

Anche  in  Sicilia,  dunque,  i  giovani  non  mancano  di  essere  attratti 
dal  radicalismo,  e  saranno  rinvigoriti  dalla  predilezione  per  questo  | 
modo  di  vedere  le  cose,  attraverso  i  gravi  e  seriissimi  inconvenienti, 
che  sono  abbastanza  numerosi  nelle  condizioni  amministrative  e  so- 
ciali della  loro  patria.  La  questione  della  terra  e  le  condizioni  dei  lavo- 
ratori dello  zolfo  basterebbero  da  sole  a  giustificare  un  ampio  bisogno  ! 
di  riforme  radicali.  È  tanto  più  facile  scagliarsi  contro  l'assenteismo 
dei  latifondisti  e  contro  la  crudeltà  dei  proprietari  delle  zollare,  che 
non  proporre  vie  pratiche  conducenti  al  miglioramento  dello  stato  di 
cose.  Non  da  me,  che  sono  stato  nel  paese  solo  poche  settimane.  Ella 
avrà  da  aspettarsi  simili  proposte. 

Dappertutto  ove  mi  sono  recato,  in  Sicilia,  sempre  con  viva  pre- 
mura, mi  è  stato  domandato,  dagli  amabili  italiani  coi  quali  ho  avuto 
contatto,  come  io  trovassi  trasformato  il  paese. 

Che  dopo  quarantadue  anni  dovessero  essersi  verificati  grandi  e 
profondi  cambiamenti,  è  evidente:  ciò  io  comprendevo  perfettamente; 
ma  sotto  parecchi  aspetti  li  ho  trovati  ancor  più  grandi  di  quello  che 
mi  fossi  aspettato. 

Mi  occuperò  innanzi  tutto  della  viabilità  del  paese. 

Nel  1861  in  Sicilia  non  esistevano  ancora  ferrovie.  Le  strade  maestre 
e  le  altre  di  campagna,  per  le  quali  si  potesse  andare  in  carrozza,  erano 
in  numero  estremamente  limitato.  Se  la  memoria  non  mi  inganna,  non 
ve  ne  erano  che  due:  quella  sulla  costa  orientale  da  Messina  a  Sira- 
cusa, e  quella  da  Messina  a  Palermo;  la  prima  da  principio  segue  la 


IMPRESSIONI   DI   SICILIA  87 

costa  orientale,  e  poi,  un  po'  piìi  al  sud  di  Taormina,  si  annoda  all'an- 
tica strada  maestia.  sul  versante  settentrionale  dell'Etna,  penetrando  di 
traverso  nell'interno  dell'isola,  verso  occidente.  Perle  comunicazioni 
fra  le  città  della  costa  si  ricorreva  a  piccoli  vapori,  che  erano  per  la 
maggior  parte  di  qualità  veramente  dubbia,  e  per  le  comunicazioni  fra  i 
luoghi  interni  ci  si  serviva  dei  cavalli.  Anche  molti  anni  dopo  vi  erano 
ancora  popolose  città  nell'  interno  dell'  isola  non  congiunte  fra  loro  da 
alcuna  strada.  1  fiumi,  e  specialmente  le  numerose  fiumare,  nell'interno, 
erano  non  di  rado  prive  di  ponti.  Quando  le  acque  crescevano,  allora  il 
viaggiatore  doveva  scegliere  :  o  cercai  si  il  passaggio  traverso  le  acque 
per  guadi  malsicuri,  oppure,  come  i  contadini  nel  verso  di  Orazio,  aspet- 
tare ilum  eie fl lied  atmiis:  metodi  ambedue  che  mal  si  accordano  conia 
necessità  di  percorrere  rapidamente  e  sicuramente  una  data  distanza. 
Certo  si  è  che  in  generale  allora  non  si  viaggiava  rapidamente:  nel- 
l'aprile del  1861  sono  stato  in  viaggio  ben  cinque  giorni  col  mio  bravo 
vetturino  per  andare  da  ilessina  a  Sii'acusa;  ora  questo  tragitto,  con  un 
treno  diretto  della  rete  sicula,  si  percorre  in  quattro  ore  e  mezzo  ! 

Tale  .stato  di  cose  ha  subito  un  profondissimo  cambiamento  per 
opera  delle  strade  ferrate.  La  Sicilia  possiede  ora  una  lete  che  orla 
completamente  le  sue  coste  settentrionali  ed  oriejitali.  e  in  gran  parte 
quelle  meridionali,  e  che  traversa  l'interno  dell'isola  andando  da  noid 
a  sud  e  da  occidente  ad  oriente,  lo  sono  andato  da  Palermo  a  Cìir- 
genti  senza  cambiare  vagone,  in  quattro  ore  e  quaranta  minuti,  e  da 
Girgenti  a  Siracusa  in  otto  ore,  con  un  solo  trasbordo.  Quest'ultimo 
treno  incontra  a  Santa  Caterina-Xirbi  il  treno  quotidiano  che  va  da 
Catania  a  Palermo,  il  solo  che,  corrispondendo  a  tutte  le  esigenze  della 
moderna  comodità  nei  viaggi,  porti  seco  un  vagone-ristorante,  ed  abbia 
potuto  offrirci  la  gradita  opportunità  di  far  colazione  in  viaggio.  In 
queste  linee,  come  pure  in  quella  da  Siracusa  a  Taormina  e  nella  cir- 
cumetnea da  Taormina  a  Catania,  ho  trovato  il  servizio  delle  strade 
ferrate  siciliane  bene  ordinato,  meravigliosamente  puntuale  e  il  mate- 
riale d'allestimento  delle  stazioni  rispondente  a  tutte  le  esigenze  normali. 
Quale  somma  di  facilitazioni,  comodità  e  maggiori  agevolezze  siano  da 
ciò  derivate  al  viaggiatole  può  valutare  solo  colui  che  ha  conosciuto 
il  paese  senza  le  ferrovie  ! 


Vi  erano  nel  1861  in  Sicilia,  date  le  misere  proporzioni  del  movi- 
mento dei  forestieri,  pochi  alberghi,  e  di  quelli  pochissimi  erano  buoni. 
Ero  allora  giovane,  senza  esigenze,  e  perciò,  pieno  delle  meraviglie 
che  il  \iaggio  attraverso  la  bella  isola  mi  offriva  in  abbondanza,  poco 
mi  curavo  di  tali  cose.  Ciononostante  mi  è  rimasto  impresso  nella  me- 
moria come  la  questione  dell'alloggio  lasciasse  molto  e  talvolta  mol- 
tissimo da  desiderare,  con  la  sola  eccezione  dell'albergo  Trinacria,  a 
Palermo,  già  allora  famoso.  Come  era  oscuro  e  sudicio  l'alberguccio 
che  faceva  poco  onore  al  suo  titolo  di  Albergo  del  Sole,  l'unico  del  quale 
il  viaggiatore  potesse  allora  valersi  a  Siracusa!  Nel  ISfil  a  Taormina 
riuscimmo  appena  a  pernottare.  11  nostro  vetturale  si  fermò  ad  una 
modesta  locanda  che  si  trovava  isolata  in  basso,  vicino  al  mare,  presso 
all'odierna  stazione  ferroviaria  di  Giardini,  e  lasciò  che  ci  arrampicas- 
simo, per  mezzo  di  asini,  su  per  le  balze  scoscese  delle  rocce  di  Taor- 
mina. Lassù,  in  quel  miserabile  paesello,  non  vi  era  alcun  luogo  in 
cui  il  viaggiatore  potesse  ristorarsi.  Ricordo  ancora  nettamente  come 


88  IMPRESSIONI    DI   SICILIA 

mi  rispose  la  locaiidiera  di  Lentini,  presso  la  quale  avevamo  preso 
quartiere  per  la  notte.  Quando  le  richiesi  che  cosa  ci  avrebbe  servito  da 
pranzo,  essa  con  tutta  semplicità  ci  rispose:  «  Quello  che  vi  siete  por- 
tato». Siccome  in  quell'albergo  niente  altro  poteva  trovarsi  all'infuori 
del  vino  immancabile,  così  io  andai  al  mercato  della  piccola  città  cir- 
costante e  comperai  un  pollo,  uova,  pane  ed  insalata  per  la  nostra  cena. 
La  Trinacrìa  è  ancor  oggi  in  Palermo  un  buon  albergo,  mentre 
per  comodità,  ampiezza  e  qualità  delie  stanze  è  rinomato  da  alcuni  anni 
V Hotel  des  Palmes,  che  parimente  appartiene  alla  famiglia  Ragusa,  ed 
è  situato  nella  moderna  parte  della  città  che  si  trova  Inori  dell'antico 
recinto  delle  mura.  Nella  nuova  magnifica  Villa  Igiea  che  è  fuori  del 
porto,  solenne  sul  mare,  alle  falde  di  Monte  Pellegrino,  l'altiera  capi- 
tale dell'  isola  possiede  imo  stabilimento  pel  movimento  dei  forestieri, 
capace  di  soddisfare  alle  più  raffinate  esigenze  :  esso  costituisce  un  centro 
di  attrazione  della  più  alta  importanza  e  comprende  un'ottima  agenzia 
internazionale  di  viaggi.  Girgenti  e  Siracusa,  ambedue  allora  terribil- 
mente abbandonate  e  desolate,  sono  ora  meta  di  un'amplissima  cor- 
rente di  viaggiatori;  ambedue  quelle  città  posseggono  alberghi  buoni, 
dei  quali  l'Hotel  des  Temples  in  Girgenti  e  la  Villa  Politi,  situata  splen- 
didamente nel  margine  superiore  della  meravigliosa  Latomia  dei  Clap- 
puccini,  sono  divenuti  punti  di  fermata  assai  ricercati  dai  forestieri 
elle  viaggiano  in  Sicilia.  Anche  a  Taormina,  allora  cosi  inospitale,  si 
trovano  adesso,  olti'e  a  parecchi  ottimi  alberglii  di  prim'ordine,  fra  cui 
il  Grand  Hotel,  il  Belleiuie.  il  San  Domenico,  ecc.,  anche  un  certo 
numero  di  altri  buoni  e  raccomandabili.  L"  intera  città,  in  cui  allora 
non  si  poteva  avere  una  tazza  di  caffè,  è  adesso  per  la  maggior  parte 
tlelfanno  percorsa  da  una  notevole  quantità  di  forestieri.  Ed  aumenta 
il  numero  dei  visitatori  tedeschi,  inglesi,  americani,  svizzeri,  russi,  ecc., 
che  giungono  a  questo  meraviglioso  punto  di  vista  jier  farvi  una  più 
lunga  dimora.  Qui  come  in  Aci  Reale  sono  venute  sviluppandosi 
alcune  particolarità  che  ricordano  le  stazioni  climatiche  invernali 
della  Riviera.  È  per  me  assolutamente  fuori  di  dubbio  che  anche  in 
Sicilia  le  ferrovie  si  siano  dimostrate  mezzi  apportatori  di  cultura  di 
prima  importanza,  in  rapporto  al  movimenfo  dei  forestieri;  ma  io 
sono  inclinato  a  credere  che  la  loro  missione  di  fronte  alla  cultura  non 
sia  limitata  al  movimento  dei  viaggiatori. 


La  prima  cosa  che  mi  diede  nell'occhio  a  Palermo  fu  il  fatto  che 
sono  scomparsi  i  balconi  chiusi  con  una  grata,  che  formavano  allora 
pel  Cassaro  un  cammino  sospeso  lungo  la  via  principale  fino  al  Duomo, 
per  offrire  alle  pie  signore  una  via  per  giungere  alla  chiesa,  lungo  la 
quale  non  fossero  disturbate  da  sguardi  profani.  Adesso  è  caduto  il 
congiungimento  fra  i  balconi  delle  singole  case  e  la  maggior  parte  dei 
balconi  si  sono  anche  liberati  dalle  anguste  grate.  In  seguito  a  ciò  la 
strada  principale  di  Palermo  ha  perduto  una  delle  caratteristiche  per 
la  quale  sorgeva  assai  vivo  il  ricordo  del  tempo  dei  saraceni. 

Anche  sotto  altri  aspetti  trovai  Palermo  assai  rimodernata.  La 
pulizia  delle  strade,  dirò,  servendomi  di  un  eufemismo,  vi  lasciava  spesso 
a  desiderare.  Adesso  ho  potuto  francamente  manifestare  all'onorevole 
sindaco  la  mia  meraviglia  per  lo  stato  attuale  di  cose,  grazie  alla  bene- 
merita attività  della  «  nettezza  pubblica  »,  che  fio  incontrata  senza 
eccezione  anche  nei  luoglii  jilù  angusti  del  dedalo  di  viuzze  della  parte 


IMPRESSIONI    DI    SICILIA  89 

mtic  i  della  città.  Attribuisco  a  questo  miglioramento,  che  è  al  tempo 
;tesso  della  i)iù  alta  importanza  per  l'igiene  di  Palermo,  maggior  valore 
;he  non  ad  altri  che  a  molti  cadono  innanzi  tutto  sott'occhio,  come,  per 
esempio,  il  sontuoso  edifìcio  del  Teatro  Massimo  e  del  Politeama,  poiché 

0  ritengo  quelli  più  necessari  e  più  salutari  che  non  questi  jmlazzi 
)rnament,ali,  che  hanno  imposto  gravi  carichi  alle  finanze  della  città. 
Di  pesi  spirituali  di  ogni  specie  non  vi  è  penuria  neppure  nella  Palermo 
l'oggi.  Però  mi  sembra  che  il  grave  regime  conventuale,  sotto  il  quale 
gemeva  una  volta  la  metropoli  siciliana,  sia  ora  non  poco  diminuito. 
n  grandissimi  possedimenti  di  ordini  religiosi  ho  trovato  ora  istituti 
alci  ;  nel  grandioso  chiostro  dei  gesuiti  vicino  al  Duomo  ha  preso  stanza 

1  Convitto  Nazionale,  ed  ho  osservalo  con  piacere  che  il  refettorio  dei 
'adri  della  Società  di  Gesù  costituisce  ora  la  sala  da  pranzo  dei  180 
dunni  di  questo  ottimo  istituto  di  educazione,  che  è  di  indole  asso- 
utamente  secolare.  1  suoi  alunni  ricevono  le  lezioni  rispettive  nel 
ginnasio  Giovanni  Meli,  e  nella  scuola  tecnica,  situati  nello  stesso 
;aseggiato  e  comunicanti  per  mezzo  della  corte  posteriore. 

In  forte  contrasto  col  comjileto  stato  di  abbandono  in  cui  si  trovava, 
il  tempo  della  mia  prima  visita,  la  pubblica  istruzione,  si  incontra  ora 
n  Palermo  e  nelle  altre  città  dell'  isola  una  folla  di  istituti  di  ogni 
specie,  dedicati  all'educazione  popolare.  Scuole  elementari.  Scuole  serali: 
isili  d' infanzia,  Scuola  professionale  femminile.  Scuola  commerciale  ; 
jueste  sono  le  iscrizioni  che  spesso  ricorrono  sulle  case  nell'interno 
Iella  città.  Secondo  il  bilancio,  quale  è  stampato  nei  resoconti  del  Con- 
iiglio  comunale,  che  deblio  alla  cortesia  del  sindaco  senatore  Tasca- 
^anza,  furono  nel  1901  stanziate  le  seguenti  somme  per  le  scuole  di 
Palermo  : 

Stipendi  ai  maestri  delle  scuole  elementari L.  267.357.   » 

Stipendi  alle  maestre  delle  scuole  elementari »  328,711.50 

Basso  personale  delle  scuole  elementari »     85,678.  » 

Affitto  dei  locali  per  le  scuole  elementari >>     95,000.  » 

Valore  locativo  dei  luoghi  di  proprietil  comunale  usati  da  dette 

ìcuole »    26,000.  » 

Manutenzione  della  suppellettile  scoslatica  e  del  mobilio.    .    .      »     28,200.-50 

Ciò  dà  una  spesa  annua  per  l'istruzione  popolare  in  Palermo,  rag- 
!:iungente  una  somma  superiore  ai  tre  quarti  di  milione  di  lire.  Oltre 
1  ciò  vengono  le  numerose  scuole  popolari  private,  aventi  carattere 
•eligioso  ed  antiquato,  non  municipali.  Così  pure  nelle  alti'e  città,  anche 
1  viaggiatore  più  frettoloso  può  vedere  che  i  municipi  si  sforzano  di 
•isolvere  nel  miglior  modo  possibile  il  problema  delle  scuole,  che  è  loro 
mposto.  La  mia  piccola  guida  sulla  rupe  Atenea  a  Girgenti,  alla 
lomancla  se  sapesse  leggere  e  scrivere,  mi  rispose:  «  Signor  mio,  io  ho 
ivuto  il  premio  alla  scuola  per  il  buon  profitto  nello  studio!  »  Ed  a 
Siracusa,  mentre  attraversavo  la  corte  di  una  nitida  casa  sulla  quale 
!Ì  leggeva  l'iscrizione  «  Scuola  elementare  femminile  »,  fuicoiiesemente 
nvitato  a  visitare  le  classi.  Chi  avrebbe  mai  pensato  a  Siracusa  nel  1861 
ìd  una  scuola  pubblica,  per  giunta  ad  una  scuola  femminile  !  Eppure, 
iella  statistica  degli  analfabeti,  le  provincie  siciliane  si  trovano  tuttora 
id  un  livello  assai  basso  con  una  percentuale  spaventosa. 

Come  segno  dell'abbandono  e  del  deperimento  che  incontrai  a  Sira- 
;usa  nel  IStil,  mi  è  rimasto  in  mente  il  misero  aspetto  che  allora  pre- 
sentavano le  sorgenti  di  Ai'et  usa.  L'Antichità  aveva  tributato  a  questa 
bnte  onori  divini,  e  le  aveva   dedicato   uno    splendido  culto,  lo  vidi 


90  IMPRESSIONI    DI   SICILIA 

allora  la  Ninfa,  dolente,  adattarsi  ai  più  umili  servigi:  intorno  al  su 
dicio  orlo  della  fontana,  rasente  ai  piedi  del  muro  del  grande  porto , 
completamente  deserto,  stavano  sedute  le  lavandaie,  intente  a  pulire 
in  mezzo  ad  un  alto  gridio  la  biancheria  di  dubbio  candore,  nei  tlutti 
abbondanti  della  sorgente.  Ora  la  nuova  bella  passeggiata  lungo  il  \ 
porto  è  interrotta  da  un  emiciclo,  in  cui  la  bella  fonte  riversa  le  sue 
lim])ide  acque.  Alti  fusti  di  papiro  piantati  fin  qui.  dalle  rive  della 
vicina  Ciane,  susurrano  una  pace  lieve  e  soave  su  questo  ospitale 
emiciclo,  mentre,  nelle  acque  mormoranti,  guizzano  allegramente  nu- 
merosi pesci  ed  alcune  palme  sollevano  maestose  verso  il  cielo  le  loro 
chiome.  Come  una  volta  nel  suo  abbandono,  così  ancor  oggi  Arelus.i 
può,  nella  sua  modesta  e  pur  meravigliosa  bellezza,  rappresentare  il 
simbolo  del  miglioramento  che  Siracusa  ha  subito  dal  1861  in  poi. 
Adesso  è  interamente  demolita  la  cinta  di  fortiiicazioni  che  una  volta 
teneva  segregati  dal  continente,  sull'isola,  loro  origine,  i  poveri  resti 
di  Siracusa.  Fra  il  porto  grande  e  quello  di  Acradina  è  stata  fatta  una 
comunicazione  navigabile.  Se  la  foresta  degli  alberi  di  nave  che  animano 
questi  porti,  per  lungo  tempo  non  ha  corrisposto  a  ciò  che  ci  si  ri- 
prometteva dal  canale  di  Suez  allora  in  costruzione,  pure  io  vi  ho 
veduto,  oltre  ad  un  discreto  numero  di  feluche  e  di  altri  legni  di  ca- 
botaggio, un  grosso  vapore  ancorato  che  caricava  agrumi,  ed  ogni 
giorno  il  porto  è  toccato  dall'uno  o  dall'altro  vapore,  che  mantengono 
le  comunicazioni  con  altri  luoghi  della  costa  orientale  e  di  quella  me- 
ridionale. 

Quanto  non  dovetti  penare  nella  mia  prima  visita  per  trovare  la 
bella  statua  di  Venere,  che  costituisce  una  delle  glorie  di  Siracusa  e 
una  delle  più  nobili  reliquie  del  suo  passato!  Oggi  Siracusa  possiede 
un  museo  suo  proprio,  che  è  stat(j  collocato  degnamente  in  un  palazzo 
di  fronte  al  Duomo.  Al  piano  terreno,  vicino  agli  avanzi  di  architettura, 
alle  urne  e  ai  sarcofagi,  è  stata  posta  una  raccolta  di  sculture  che  con- 
tiene, oltre  alla  Venere  Anadiomène,  una  serie  di  notevoli  statue  romane 
drappeggiate,  ed  un  magnifico  rilievo  sepolcrale  della  buona  epoca 
greca.  11  piano  superiore  presenta  una  mostra  etnografica  ricchissima  e 
bene  ordinata,  che  risale  fino  al  passato  preistorico  dell'isola.  Una 
l'accolta  di  magnifici  vasi  e  una  collezione  quasi  completa  di  monete 
della  città  danno  un'immagine  evidente  del  talento  artistico  che  ha 
reso,  per  secoli,  Siracusa  uno  dei  centri  della  vita  intellettuale  dei  Greci. 


Ma  quando  poco  prima  dicevo  che  le  ferrovie  hanno  dimostrato 
di  essere  anche  in  Sicilia  mezzi  di  diffusione  della  cultura,  non  avevo 
di.  mira  soltanto  il  rifiorire  del  benessere  e  dell'istruzione,  quale  si  pre- 
senta nella  città  ad  ogni  osservatore.  Dopo  tutto  ciò  che  avevo  letto 
ed  udito  sugli  ettetti  del  regime  dei  latifondi  in  Sicilia  e  della  cultura 
tendente  a  divenire  sempre  più  estensiva,  debbo  confessare  aperta- 
mente che  quanto  ho  veduto  nella  coltivazione  ilei  paese  mi  ha  viva- 
mente sorpreso.  Non  parlo  qui  della  fiorente  cultura  delle  vigne  e  degli 
agrumeti  che  danno  alla  Conca  d'oro  intorno  a  Palermo,  alla  striscia 
di  costa  da  Catania  a  Taormina  e  a  molte  parti  dei  paesi  traversati 
dalla  Circumetnea,  un  aspetto  più  ricco  di  tutti  i  giardini  più  curati  e  più 
intensamente  coltivati.  No;  io  ho  trovato  anche  nell'interno  dell'isola, 
tanto  nel  viaggio  da  Palermo  a  Girgenti,  quanto  in  quello  da  Girgenli 
a  Siracusa,  una  coltivazione  che  ha  superato  la  mia  aspettazione. 


IMPRESSIONI  DI   SICILIA  91 

Innanzi  tutto  mi  ba  sorpreso  il  numero  degli  alberi  cbe  si  osservano 
dal  treno.  Non  soltanto  i  gruppi  di  Eucalyptus  cbe  sempre  annunziano 
la  vicinanza  di  una  stazione,  ma  parecchi  alberi  fronzuti,  come  pioppi, 
salici,  ulivi  e  piti  lontano  alberi  fruttiferi  delle  specie  più  varie,  fra  i 
quali  il  mandorlo  cbe  si  trova  quasi  dappertutto,  danno  al  paese  un 
aspetto  oltre  ogni  dire  grazioso.  Oltre  a  ciò,  non  di  rado  si  incontrano, 
neirinterno,  dei  tratti  diligentemente  coltiviiti  ad  agrumi.  Debbo  però 
ritenere  cbe  queste  siano  eccezioni  che  si  possono  spiegare  col  fatto 
che  la  linea  ferroviaria,  sempre  quando  è  possibile,  segue  le  valli  dei 
fiumi,  e  in  Sicilia  là  dove  è  acqua  là  sono  anche  agrumi,  come  mi 
spiegava  un  siciliano,  mio  compagno  di  viaggio.  Ma  anche  la  cultura 
dei  cereali,  osservata  dalla  ferrovia,  si  presenta  molto  meno  interrotta 
di  quello  cbe  avrei  creduto  :  fino  alle  regioni  montuose  che  limitano 
l'orizzonte,  ho  veduto  distendersi  i  campi  di  frumento,  sulle  plaghe 
lontane.  I  terreni  deseiti,  i  pascoli  aridi,  le  paludi  non  bonificate  che 
non  di  rado  incontra  chi  viaggia  per  il  Mezzogiorno,  non  mi  sono 
mai  venuti  soft' occhio  in  Sicilia.  E  debbo  anche  riconoscere  che  ciò 
che  mi  è  capitato  di  osservare  in  fatto  di  edifìci  rurali,  attrezzi,  be- 
stiame, vestiario  e  mantenimento  dei  lavoratori  della  terra,  non  è 
affatto  rimasto  indietro  a  ciò  che  ho  veduto  in  parecchi  distretti  del 
continente. 

Mentre  scrivo,  so  bene  ([uanto  poco  facciano  fede  queste  fugge- 
voli osservazioni  e  quanto  poco  valore  esse  abbiano  in  confronto  alle 
testimonianze  di  esperti  conoscitori  delle  condizioni  dell'  isola,  e  per 
il  terribile  posto  che  la  Sicilia  occupa  nella  statistica  degli  omicidi, 
ila  Ella,  mio  onorevole  amico,  mi  ba  invitato  a  scrivere  queste  righe, 
benché  le  fosse  noto  perfettamente  che  io  non  ho  affacciato  alcuna 
pretesa  di  un'esperienza  particolare:  debbo  ritenere  che  sia  stato  desi- 
derio di  Lei  di  udire  con  tutta  semplicità,  così  come  esse  sono,  quelle 
impressioni  di  viaggio,  che  ho  raccolto  durante  la  mia  visita,  purtroppo 
tanto  breve,  in  Sicilia,  e  perciò  non  mi  sono  vergognato  di  esporle 
ciò  che  mi  ba  sorpreso  e  rallegrato  in  rapporto  alle  condizioni  della 
economia  rurale.  Pure  non  potrei  a  meno  di  difendermi,  nel  modo  più 
esplicito,  dall'accusa  di  aver  sostenuto  die  in  Sicilia  tutto  va  per  lo 
meglio,  come  se  io  credessi  che  la  riforma  delle  condizioni  agricole  e 
sociali,  cbe  sono  urgentemente  richieste  da  profondi  conoscitori  del 
pae.se,  non  sia  di  una  necessità  impellente  e  tale  che  non  si  possa  dif- 
ferirla. Una  simile  falsa  interpretazione  delle  mie  parole  mi  dispia- 
cerebbe sommamente. 

Del  resto,  alla  fine  dei  conti,  io  ho  ritrovato  la  Sicilia,  dopo  qua- 
rantadue anni,  di  molto  ringiovanita,  arricchita  e  più  coltivata  di 
quello  che  io  non  avessi  sperato,  fondandomi  sui  miei  ricordi.  Ariche 
la  Sicilia  ha  da  sopportare  la  sua  grave  quota  del  carico  imjiosto  da 
più  di  quarant'anni  alla  vostra  nobile  patria,  dalla  conquista  dell'indi- 
pendenza e  dalla  fondazione  di  uno  Stato  unitario  nazionale.  Ma  anche 
in  Sicilia  non  vi  è  luogo  a  trarre  tristi  presagi  sull'avvenire  dell'Italia, 
nel  quale  tanto  io  quanto  Lei,  abbiamo  piena  fiducia.  Certo,  chi  sente 
amoi'e  pel  paese,  non  deve  starsene  colle  mani  in  mano,  né  in  Sicilia, 
né  in  altie  parti  d'Italia.  Infatti,  come  diceva  Orazio?  Bi(sticus  expe- 
ctat  cium  defluat  ainnis... 

Sempre  suo  aff.mo 
P.  D.  Fischer. 


ELEZIONI  UNIVERSITARIE  NEL  CINOUECENTO 


Da  documenti  ixediti  sl'llo  Studio  di  Perugia. 


I. 

La  storia  dello  Studio  di  Perugia  è  ancora  da  fare,  nonostante  che 
ne  apparisca  verauiente  cospicua  l'importanza.  Quello  Studio  è  già  in 
fiore  a  metà  del  Trecento,  quasi  solo,  può  dirsi,  da  Siena  a  Napoli. 
L'aver  riprodotti,  come  dimostrò  il  Padelletti,  ordinamenti  e  statuti 
dell'Università  bolognese  non  diminuisce  lustro  all'Università  peru- 
gina :  che  anzi  Perugia  destava  per  ciò,  a  quanto  pare,  nella  città 
d'Accursio  gelosie  e  timori  di  concorrenza. 

E  la  gloria  dello  Studio  perugino  s'accresce  nel  Quattrocento  e  nel 
Cinquecento  :  esso  prospera  libero  in  liberi  ordinamenti,  senza  neppure 
le  protezioni  di  mecenati  che  nelle  altre  città  italiane  alimentavano 
le  LTniversità,  fossero  essi  Medici  o  Estensi  o  Visconti. 

È  notevole  poi  che  anche  quando  con  Paolo  111  l'autorità  ponti- 
fìcia si  rinsalda  sulla  città,  lo  Studio  risente  bensì,  per  varie  vie,  la 
nuova  più  diretta  dominazione,  ma  non  perde  la  sua  tenace  auto- 
nomia. 

Occasione  a  guardare  un  po'  nella  storia  di  questa  insigne  Uni- 
versità mi  s'è  offerta  per  qualche  ora  testé  passata  in  quella  Biblio- 
teca Comunale,  ch'è  allettamento  grande  agli  studiosi  per  il  molto 
d'inedito  clie  vi  si  trova  accolto. 

Fra  le  numeiose  carte  sciolte  che  il  tanto  benemerito  Annibale 
Mariotti  riuniva  e,  in  parte,  ordinava,  molte  ve  n'ha  che  concernono 
l'Università,  e  queste  sono  ancora  quasi  tutte  inesplorate.  Noto,  per 
esempio,  un  gruppo  contenente  quinterni  ove  son  registrati  i  salarli 
degli  insegnanti  (1),  un  altro  che  ci  dà  le  riforme  degli  Statuti  della 
Sapienza  vecchia  (i2).  Ancora:  una  busta  conserva  gli  J.cto  scholarium 
per  tutto  un  ventennio  (1497-1517)  (3)  e  un'altra  contiene  -  incitamento 
anche  piìi  vivo  alla  curiosità  del  ricercatore  -  molte  centinaia  di  fogli 
ingialliti  (sec.  .xvi)  ai  quali,  nel  linguaggio  moderno,  daremmo  il  nome 
di  atti  elettorali  (4). 

(1)  Porta  il  N."  148S  Eì  nel  diligente  e  pregevole  Inventario  di  A.  Bellucci, 
formante  il  voi.  V  degli  Inventava  dei  manoscritti  delle  Biblioteche  d' Italia,  a 
cui-a  di  A.  Mazzatinti. 

(2)  N.  1470  G  del  d»  Inventario. 
(3ì  N.  U72  L  del  A"  Inventario. 
(4)  N.  1467  C  del  d"  Inventario. 


ELEZIONI   U.N'IVERSITARIE    NEL    CIXQUECEXTO  93 

Su  quest'ultima  busta  mariottiana  mi  soffermo  di  preferenza  nella 
presente  notizia,  perchè  i  documenti  ivi  compresi  illustrano  quello  che, 
tra  i  varii  aspetti  della  vita  universitaria  italiana,  mi  pare  il  ]iiù  at- 
traente: voglio  dire  quell" autonomia  per  la  quale  l'Università  italiana 
nella  sua  età  dell'oro  rajipresentava  quasi  uno  Stato  nello  Stato. 

Fra  gli  scrittori  che,  dal  Denifle  in  poi,  trattarono  la  storia  delle 
nostre  Università,  pochi,  in  verità,  studiarono  questo  lato  della  vita 
universitaria.  S' insistè  piuttosto  a  dimostrare  come  gli  Statuti  degli 
3tudii  sorsero  e  s'elaborarono,  come  e  (piando  furono  riformati  anche 
dalla  pratica  :  meno  invece  si  badò  alle  continue  ripercossioni  che 
[{uegli  ordinamenti  avevano  fuori  della  vita  universitaria  nell'esistenza 
giornaliera  degli  scolari  e  nella  stessa  vita  comunale.  Eppure,  di  contro 
alla  conoscenza  teorica  e  generale  della  storia,  piace  e  diletta  l'episodio, 
dal  quale  spesso  emana  i)iìi  luce  che  dalle  grandi  linee  storiche. 

S'aggiunga  che,  nel  caso  nostro,  questi  episodii  di  vita  universi- 
taria, e  1  documenti  dove  sono  consacrati,  appariscono  sempre  infor- 
mati a  quello  spirito  di  libertà,  che  può  perfino  sembrare  a  noi  mo- 
derni disordinato,  scomposto,  eccessivo,  ma  che  non  cessa  d'avere  il 
suo  fascino  simpatico.  Agli  scolari  si  davano  piivilegii  su  privilegi!: 
soltanto  dinanzi  al  loro  Rettore  essi  potevano  portare  accuse  e  difese, 
contestazioni  civili  e  penali;  e  ogni  altra  specie  di  franchigie,  fino 
alla  esenzione  dalle  gabelle,  era  loro  concessa.  Ciò  turbava  l'egua- 
glianza degli  altri  cittadini;  ma  che  importa"?  Quei  cittadini  tenevano 
a  sommo  vanto  l'accogliere  quanti  più  scolari  si  potesse  ed  erano  lieti 
che  ogni  anno  la  spensierata  turba  se  n'aumentasse  e  si  studiavano 
di  rendere  ad  essa  sempre  piìi  liete  e  facili  le  condizioni  di  vita. 

Così  dagli  occhi  nostri  dileguano  le  ragioni  teoriche  inspirate  al 
concetto  moderno  dell'eguaglianza,  giacché  la  visione  di  quella  vita 
studentesca  arriva  a  noi  atti'averso  la  trasformatrice  lente  dei  secoli 
che  sopra  vi  corsero. 

Per  noi  il  quadro  degli  scolari  d'un  libero  Studio,  radunati  per 
eleggere  tra  loro  il  Rettore  o  i  Consiglieri  o  i  Lettori  straordinarii,  è 
bello  e  attraente  per  sé  medesimo. 

Tali  la  mia  mente  si  rappresentava  questi  scolari  per  l'esame 
di  queste  carte  perugine,  che  pure  appartengono  ad  un'era  non  più 
felice  per  la  libertà  politica  del  Comune.  Ma  è  degno  di  nota  il  con- 
statare che,  nella  seconda  metà  del  Cinquecento,  al  vecchio  e  glorioso 
Studio  perugino  era  lasciata  intera  anclie  dai  Pontefici  la  sua  legge 
di  autonomia  e  di  libertà.  Illusione  o  realtà"' 

Non  divaghiamo  più  oltre,  e  guardiamo  più  da  vicino  i  mano- 
scritti. 

II. 

I  manoscritti  raccolti  nella  busta  mariottiana  abbracciano  il  ven- 
tennio 1571-1590,  e  altro  non  sono  in  sostanza  che  gli  atti  originali 
delle  elezioni  dei  Consiliarii  compiute  in  quel  periodo. 

Ciascun  foglio  registra,  per  ciascun  anno,  tutti  i  nomi  degli  scholares 
che  hanno  preso  parte  alla  votazione.  Accanto  al  nome  dell'  elettore 
sta  quello  del  candidato  cui  questi  dà  il  voto. 

I  Consiglieri  dello  Studio  (Consiliarii)  costituivano,  com'è  noto,  una 
specie  di  consesso  o  corpo  consultivo  intorno  al  Rettore.  Era  quasi 
un  Senato,  cui  il  Rettore  doveva  in  certi  casi  chiedere  il  suo  parere. 


94  ELEZIOXI    UNIVERSITARIE    NEL    CINQUECENTO 

Oltracciò  i  Consiglieri  avevano  certe  funzioni  proprie  e  le  esercitavano 
all'infuori  del  Rettore:  principalmente  quella  di  decidere  suU' accusa, 
che  taluno  movesse,  di  sospetto  rettore. 

L'elezione  di  questa  magistratura  universitaria  risulta  dai  nostri 
manoscritti  avvenuta  ogni  anno,  senza  lacune  o  interruzioni  :  ciò  che  j 
era,  del  resto,  conforme  al  precetto  degli  Statuti   riformati   nel   1511,  | 
secondo  i  quali  l'elezione  era  appunto  annuale.  \ 

Gli  scolari  votano  divisi  per  Provincie:  e  provincie  si  chiamano 
anche  le  nazioni  straniere.  Ciascuna  provincia  nomina  due  consiglieri. 
Universalis  è  designato  l'eletto  dall'Università;  Sapientiarius  quello 
eletto  dalle  Sapienze,  le  quali  a  Perugia,  com'  è  noto,  eran  due  nel 
Cinquecento:  Sapienza  vecchia  o  Collegio  Gregoriano  ;  Sapienza  nuova 
o  Collegio  Gerolimiano. 

11  numero  dei  votanti  appare  per  talune  provincie  assai  grande; 
scarso  è  per  altre,  specialmente,  come  s'intende,  per  le  provincie  fo- 
rastiere. 

Sotto  quest'aspetto  i  manoscritti  in  esame  potranno  essere  indice 
a  segnare  il  progresso  o  la  decadenza  dello  Studio  perugino  nella  se- 
conda metà  del  secolo  xvi.  Per  restringermi  ad  un  solo  anno  -  il , 
primo  (1571)-  basti  notare  che  l'esser  venti  i  Consiliarii  da  eleggersi 
in  quell'anno  mostra  indubbiamente  un  progresso,  almeno  numerico, 
in  confronto  di  ciò  che  l'Università  era  al  principio  del  Cinquecento. 

Infatti,  nel  1504,  come  si  ti'ae  da  altro  gruppo  di  manoscritti  stu- 
diato dal  Dr.  Pardi  (1),  si  eleggevano  soltanto  otto  Consiglieri  :  due  della 
Provincia  Romana,  due  delle  Marche,  due  del  Regno,  due  alemanni, 
mentre  i  precedenti  Statuti  del  1457  ne  stabilivano  a  dieci  il  numero. 
Evidentemente,  la  legge  teorica  degli  Statuti  soggiaceva  a  mutamenti 
suggeriti  di  volta  in  volta  dalla  pratica  e  dalla  consuetudine.  Cosi  per 
la  scarsità  o  per  l'assenza  di  scolari  d'  una  data  provincia  poteva  o 
numericamente  variare  o  mancare  del  tutto  l'elezione  dei  rispettivi 
consiglieri.  Per  esempio,  nell'elezione  del  1504  si  trovano  mancanti  i 
Consiliarii  toscani,  e  ciò  -  nota  il  Pardi  -  sta  a  provare  che  Pisa  e 
Siena  e  soprattutto  Bologna  dovevano  attrarre  di  preferenza  gii  studenti 
di  Toscana  e  privarne  intieramente  lo  Studio  di  Perugia. 

Invece,  se  guardiamo  in  base  ai  nostri  documenti  l'anno  1571, 
troveremo  che  di  ben  dieci  Provincie  s'eleggono  consiglieri,  due  per 
ciascuna  provincia,  e  che  non  fanno  difetto,  benché  in  numero  infe- 
riore a  quello  delle  altre  provincie,  gli  studenti  toscani.  L'Università 
dunque  si  trovava  sempre  in  un  felice  periodo  di  progresso. 

E  sempre  limitando  la  mia  rassegna  al  solo  anno  1571,  rilevo  dalle 
votazioni  che  al  corpo  degli  scolari  il  maggior  nucleo  è  dato  dalla 
Provincia  Romana.  Infatti  per  il  consigliei-e  delle  due  Sapienze  {Sa- 
pientianus)  prendon  parte  alla  votazione  23  scolari:  per  il  consigliere 
dell'  Università  (  Universalis)  ne  accorrono  al  voto  74.  Sono  dunque  93 
scolari  del  solo  Lazio. 

Curioso  è  poi  il  notare  che,  contro  la  diversa  previsione  a  cui 
c'indurrebbe  la  lontananza  dell'Umbria  dalle  provincie  meridionali,  il 
Regno  delle  Due  Sicilie  tenga  nella  graduazione  numerica  degli  scolari 
il  posto  immediatamente  successivo  alla  provincia  romana.  Si  vede  così 
che  fin  dal  mezzogiorno  d'Italia  salivano,  a  traverso  l'Appennino,  alla 

(1)  È  la  sopra  ricordata  Busta  1472,  L,  dottamente  illustrata  da  G.  Pasdi: 
Bollettino  della  R.  Deputazione  di  Storia  Patria  per  l' Umbria,  toI.  IV,  pag.  487. 


ELEZIONI    UNIVERSITARIE    NEL    CINQUECENTO  95 

apitale  dell"  Umbria,  gli  studenti.  Nel  1571  erano  36  votanti,  tra  Uni- 
ersilà  e  Sapienze. 

Vengono  })oi,  in  ordine  numerico,  le  Marche  (!2S  scolari),  la  Lom- 
ardia  (13),  la  Toscana  (8). 

In  ogni  filza  annuale  di  carte  si  trova  intine  un  gruppo  intitolato  : 
nnominatae  (sottintendi  Provinciae),  nel  quale  sembra  fossero  riuniti 
non  iscritti  in  nessuna  speciale  provincia.  Nell'anzidetto  anno  il  nu- 
lero  di  tali  scolari  è  di  11. 

A  questi  sei  gruppi  è  da  aggiungere  quello  della  provincia  o  città 
i  Perugia,  del  quale  però  non  ho  trovati  i  singoli  fogli  di  votazione, 
lo  trovato  invece  i  soli  nomi  dei  Consiliaril  riusciti  eletti  registrati  in 
na  specie  di  specchio  riassuntivo  costituente  il  primo  foglio  della  filza. 

Un  particolare  interesse  presentano  inoltre  i  nostri  documenti  in 
uanto  porgono  nuovi  dati  utili  a  determinare  la  proporzione  in  cui 
Perugia  la  studentesca  italiana  trovavasi  con  quella  forastiera. 

Non  è  già  che  la  viva  forza  d'attrazione  con  cui  la  cultura  italiana 
però  su  tutto  il  resto  d"  Europa  abbia  bisogno  di  nuove  prove  per 
ssere  riconosciuta.  Ma,  a  buon  conto,  l'accertare  sempre  meglio  se, 
3me  a  Bologna  ed  altrove,  così  anche  a  Perugia,  centro  pii^i  modesto  .di 
ita  universitaria,  continuassero  ad  accorrere  fino  a  tutto  il  Cinquecento 
polari  stranieri,  riuscirebbe  di  non  poca  importanza.  Devesi  però  no- 
ire  che  pochi  sono,  nell'anno  che  qui  teniamo  presente,  gli  stranieri  : 
inque  spagnuoli,  tutti  di  Valenza  ;  due  francesi  ;  due  tedeschi  o  ultra- 
lontani  (dacché  la  parola  ultramontani  si  trova  sempre  usata  ad  in- 
icare  soltanto  i  tedeschi,  indifferentemente  coU'altro  appellativo  di 
lamanni).  Questi  ultimi  sono,  per  necessità,  elettori  di  se  medesimi, 
tutt'al  più  si  danno  il  voto  a  vicenda.  E  nel  costume  studentesco 
el  tempo  questo  fatto  era  meno  strano  che  non  sembri  oggi  a  noi 
loderni.  In  molti  altri  punti  di  questi  documenti  elettorali  mi  è  acca- 
uto  di  leggere  di  questo  o  quel  votante  :  «  elegit  semel  ipsum  ». 

Ma  all'infuori  di  tali  rilievi,  giova  interrogare  i  nostri  documenti 
il  modo  onde  l'elezione  procedeva. 

III. 

Le  elezioni,  nel  giorno  fissato,  si  bandiscono  dal  Bidello. 

Le  mansioni  di  questo  ch'è  oggi  collo  stesso  nome  {Bidelhis)  umile 
ersonaggio  in  umilissimo  ufficio,  erano,  secondo  le  vecchie  costumanze 
gli  ordinamenti  universitarii,  meno  volgari  e  assai  più  varie:  anda- 
ano  dall'obbligo  di  controllare  se  Doctores  e  Lectores  facessero  rego- 
irmente  lezione  tino  all'incombenza  delle  notificazioni  al  domicilio 
egli  scolari. 

Certo  però  l'atto  più  solenne  del  Bidello  era  la  convocazione  de- 
li scolari  per  le  elezioni.  Ciascuna  infatti  delle  carte  che  ho  avuto 
ott' occhio  contiene,  prima  d'ogni  altra  cosa  e  dopo  la  intestazione 
ella  Provincia  cui  il  foglio  si  riferisce,  la  formula  sacramentale  della 
onvocazione  dei  votanti.  Seguono  poi,  come  ho  già  accennato,  in  due 
alonne  i  nomi  del  votante  e  del  designato,  congiunti  dalla  formula  : 
legit  in  Consiliarimn.  Per  tal  modo  il  voto  riesce  palese.  Per  esempio  : 

«  D.  Stephanus  Vimes  de  Valencia  elegit  iti  Consiliarinm  D.  Ca- 
olum  Sanleglium  de  eadem  ». 

E  così  di  seguito;  usandosi  la  formula  :  «  elegit  eumdem  »  quando 
n  elettore  vota  per  Io  stesso  pel  quale  ha  votato  il  precedente. 


96  ELEZIOXI   UNIVERSITARIE    NEL    CINQUECENTO 

Se  taluno  sia  impedito  di  recarsi  di  persona  all'Università,  seni 
bra  che  gVi  si  consenta  di  mandare  il  suo  voto  per  iscritto.  Ho  Irò 
vato  i)iii  d'un  foglio  volante  nel  quale,  quasi  sempre  coli" intervento  d 
publìlico  notaio,  è  dichiarato  il  voto  di  studenti  trattenuti  in  casa 
Talvolta  però  la  dichiarazione  è  fatta  senza  autenticità  notarile,  e  al 
lora  s'abbandona  il  latino  pel  volgare,  come,  per  esempio,  nella  se 
guente  carta,  concernente  l'elezione  del  1572: 

«  Io  Domenico  Lucio  de  Collestatti  elego  per  consiglieie  della  Na 
tion  Romana  M.  Gioan  Baptista  Maninio  Romano  et  in  fede  del  vero  hi 
fatta  la  presente  de  mia  propria  mano  questo  dì  15  de  decembre  1572 

«  lo  Domenico  Lucio  manu  propria  » 

L'accorrere  degli  studenti  alla  votazione  durava  per  tutto  il  giornc 
e  se  n'ha  una  conferma  nella  stessa  formula  di  convocazione. 

Questa  in  tutti  i  fogli  dal  1571  al  1590  è,  tranne  1  cambiamenl 
di  date  ed  altre  minime  varianti,  la  seguente  : 

«  Die  lune  XVII  decembris  Macca  Bidellus  retulit  se  hodie  citass 
dominos  scholares  qui  per  totam  hodiernam  diem  accedant  ad  Pala 
tium  ad  creandum  Consiliarios Provincie...  »  (equi  segue  il  nome  dell 
Provincia). 

La  data  dell'elezione  non  cambia,  da  foglio  a  foglio,  se  non  per 
giorno  :  il  mese  è  sempre  il  dicembre.  Quiinto  al  luogo  delle  elezioni,  no 
era  il  palazzo  dell'  Università,  ma  il  palazzo  pubblico  della  Città,  divei 
tato  a  quel  tempo  la  sede  del  Governatore.  Se  n"  iia  una  riprova  nell 
formula  di  ratifica  che  quest'ultimo  appone  a  ciascun  elenco  dei  votan 
e  con  la  quale  termina  ciascuna  carta.  Non  è  dunque  il  Rettore  eli 
imprime  alle  votazioni  compiutesi  la  forma  legale  e  la  sanzione  def 
nitiva:  è  il  rappresentante  dell'autorità  politica.  Una  tale  deroga  ali 
autonomia  dello  Studio  non  è  priva  di  significato.  Essa,  del  resto,  : 
spiega  anche  meglio  se  si  consideri  che,  come  ho  già  accennato  di  sopn 
il  corpo  dei  Consiliarii  giudicava  dello  stesso  Rettore.  Anche  la  cot 
fìnnatìo  del  Governatore  è  redatta  in  forma  sempre  uguale,  alla  flr 
dei  singoli  fogli  di  votazione.  Eccone,  per  esempio,  una: 

«  Die  Veneris  xix  decembris  de  sero,  instante  dicto  domino,  (qv 
il  nome  dell'eletto)  et  infrascripta  fieri  petente  et  nemine  contradicent 
R.  Dominus  Gubernator  Perusie  et  Umbrie  confirma  vit  in  Consiliariu 
diete  Provincie  dictum  Doininum  (si  ripete  il  nome)  presentem  et  acc 
ptantem  cum  honoribus  et  oneribus  solitis  et  consuetis  »  (secfue  la  fìrm 
del  Governatore).  Altra  volta,  il  nome  del  Governatore  è  inserito  nel  tes 
stesso  della  Conferma.  Nel  1572  si  trova  menzionato:  «  R"""*  D"""*  ■}■ 
hannes  Thomas  Sanfelicius  episcopus  ». 

In  alcuni  casi  l'eletto  dichiara  di  non  accettare  il  consigliera 
ed  emette,  seduta  stante,  la  dichiarazione  di  voler  surrogare  nell' ufhlc 
un  altro  scolaro.  Il  Governatore  prende  atto  della  surrogazione. 

Fin  qui,  e  nella  maggior  parte  dei  casi,  la  proclamazione  dei  Co: 
siliarii  procedeva  tranquillamente  e  senza  contrasto.  Ma  molto  p 
interessanti  agli  occhi  nostri  di  ricercatori  riescono  quelle  elezioni 
cui  contro  l'investitura  d'uno  scolaro  altri  scolari  insorgono.  Anc! 
sotto  questo  aspetto  le  carte  |)erugine  possono  essere  consultate  e  st 
diate  col  più  vivo  interessamento. 


ELEZIONI    UNIVERSITARIE    NEL   CINQUECENTO  97 


IV. 

Il  Governatore  è  in  questo  tempo  anche  giudice  delle  contestazioni 
leltoiali.  Queste  avevano  principio  nel  giorno  stesso  della  votazione 
sembrasi  agitassero  piuttosto  aspre.  Si  capisce:  erano  giovanilmente 
ive  le  passioni  ed  era  ambita  la  carica.  Ma,  in  verità,  nelle  carte 
he  ho  avuto  sotfocchio  moltissime  elezioni  -  anzi  la  maggior  parte  - 
rocedono  regolari  e  tranquille.  La  nostra  curiosità  s'accresce  là  dove 
i  manifestano  dissensi  e  s'impegna  la  lotta.  Così,  per  esempio,  limi- 
indoci  sempre  a  ricercare  negli  anni  1571  e  157"2,  troviamo  due  sco- 
iri.  se  ad  iuvicem  coutradicentes,  contrastarsi  il  posto  di  Consi- 
larixs  Innoìninatae  Procincine  e  contendere  sull'attribuzione  di  un 
oto  -  un  voto  solo  -  d'un  Jiilhis  Menyacii  de  Mondnlfo,  che  bastava 
cambiare  il  risultato  e  che  apparve  dolo  assigiiatiis  all'uno  invece 
he  all'altro  candidato. 

Un'altra  contestazione  ha  luogo  pure  nel  157'2  tra  uno  scolaro  di 
livita vecchia  {Romana  Provincia)  ed  un  umbro,  di  Calvi. 

Per  dare  un'idea  del  modo   onde  tali  dibattiti  procedevano,  cito 

ncora'  una  contestazione,  che  trovo  consacrata  nei  fogli  dell'elezione 

er  il  Consigliere  uiìiversalis  della  Provincia  Romana,  e  che  si  svolge, 

no  alla  decisione  del  giudice,  a  traver.-;o  un  sistema  procedurale  fìsso 

disciplinato. 

Tale  procedura  riesce,  per  dippiìi.  interessante  anche  alla  storia 
el  diritto,  ritiovandovisi  concetti  che.  come  quello  della  contumacia, 
el  termine  ed  altri,  sono  proprii  dei  procedimenti  rituali  conservatisi 
ino  ai  nostri  giorni. 

-  Alla  fine  della  giornata  elettorale  (15  decembre  157'2)  dovrebbe  avve- 
lire  la  proclamazione  del  Consiìiarins  per  gli  scolari  della  Provincia 
lomana.  Sarebbe,  pare,  da  proclamarsi  un  Americus  Egius  de  Spoleto; 
questi  infatti,  de  sero,  domanda  al  magistrato  competente  la  conferma 
[ella  sua  vittoria. 

Ma  uno  scolare  romano,  quel  Johannes  Baptista  Maninius  de  Urbe 
opra  citato,  interviene  ad  im]ieilire  che  sia  pronunciata  la  formula 
acramentale:  «  Nemine  contradicente...  ».  No.  è  lui  che  contradice  la. 
stanza  di  Americo.  Trascrivo  dal  verbale: 

«  Petente  D.  Johanne  Baptista  Maninio  de  Urbe  et  predictis  con- 
radicente  et  dicenle  se  creari  debei'e  in  ConsiUarium  diete  Provincie 
labentem  plures  voces  et  ita  fieri  libere  petente; 

«  Petente  dicto  D.  Americo  et  dicente  dictum  D.  .lohannem  Bapti- 
lam  esse  inhabilem  ad  Consiliaratum  attento  quod  non  servavit  con- 
titutionem  inscribendo  se  in  matricula  per  uno  mense  ante  electionem 
jonsiliariorum.  et  ipsum  Americum  esse  habilem  ad  Consiliaratum 
ìum  se  scripsisset  in  Matriculam  secundum  formam  dictarum  consti- 
utionum  ». 

Secondo  gli  Statuti  universitarii  perugini  del  1511.  che  ho  riscon- 
rato,  la  deduzione  dello  scolaro  spoletino  contro  il  romano  sarebbe 
ìtala  attendibile:  ivi  infatti  troviamo  stabilito  che  nella  creazione  dei 
consiglieri  non  avessero  voto  gl'iscritti  in  Matricola  da  meno  d'un 
nese  prima.  Donde  la  conseguenza:  chi  non  è  elettore,  non  può  essere 
iletto.  La  tèsi  sarebbe  parsa  inoppugnabile;  ma...  purtroppo  quella 
'egola  era  stata  derogata! 

7  Voi.  evi,  Serie  TV  -  1°  luglio  1903. 


98  ELEZIONI    UNIVERSITARIE   NEL    CLVQLECENTO  ^ 

Una  deliberazione  dell'assemblea  degli  scolari,  presa  il  15  teli- 
brajo  1511)  e  già  nota  (1).  aveva  derogato  a  quella  disposizione. 

Essa  suona  cosi  : 

«  Proponitur  ut  derogetur  constltutionibiis  quibuscunque  facien- 
tibus  contra  creationeni  consiliarorum,  et  maxime  ubi  habetur  quod 
qui  non  fuerit  matriculatus  per  unum  menseni  non  possit  dare  vocem 
in  creatione  consiliariorum  :  quibus  derogetur  prò  hoc  vice  tantum, 
scilicet  quod  omnes  matriculati  possint  dare  voces,  non  habita  ratione 
temporis». 

L'eccezione  di  Americo  si  direi)be.  nel  linguaggio  moderno,  di 
forma.  Quahuique  ne  fosse  il  valore,  il  Maiiinio  pretendeva  d'opporre 
ragioni  di  sostanza.  Egli  chiedeva  pertanto  al  Governatore:  «  sibi  assi- 
gnari  termininn  ad  docendum  de  inhabilitate  et  incapacitate  dicti  do- 
mini Americi  ». 

L'assegnazione  del  termine  era  obbligatoria  nella  procedura  elet- 
torale :  e  trovo  intatti  l'ordinanza  del  giudice  che  assegna  al  cotitra- 
dicente  il  termine  di  otto  giorni  per  proporre,  in  altrettanti  Capifula, 
le  varie  deduzioni  contro  l'avversario. 

Questi  capitoli  si  conservano  in  un  foglio  a  parte,  staccato  dal 
verbale,  e  scritto  in  carattere  diverso;  probabilmente  di  mano  dello 
stesso  scolaro  contendente.  A  parte  le  questioni  formali,  che  costitui- 
scono i  primi  quattro  capitoli,  sembra  che  questo  bravo  Giambattista, 
nonostante  il  calore  della  sua  difesa,  in  realtà  avesse  torto.  A  buon 
conto,  non  si  può  negare  che  lo  spoletino  abbia  conseguito  il  maggior 
numero  di  voti:  ma  il  romano,  se  non  può  raccomandare  all'aritme- 
tica la  propria  causa,  la  raccomanda  ad  argomenti,  diciamo  così,  mo- 
rali, ma  di  mediocre  importanza.  | 
Egli,  per  esempio,  si  dichiara  pronto  a  provare  che  Americo  non. 
avrebbe  voluto  esser  candidato,  ma  che  vi  fu  tratto  a  forza  dagli  avver- 
sarli di  lui.  Giambattista.  Quanto  a  sé,  vuol  mostrare  che  tutti  gli 
scolari  della  Provincia  in  questione  lo  hanno  reputato  e  lo  reputano- 
più  adatto  ali" ufficio  che  non  l'Egio,  «  qui  nullam  habet  aptitudinem  ». 
Ma  non  basta  ;  udite  questi  altri  due  capitoli  : 

«  Item  quod  ipse  Dominus  Americus  est  minor  xxv  annis  et  ex 
eius  aspectu  minorem  huiusmodi  demonstrat  aetatem  : 

«  Item  quod  est  simplex,  facilis  ac  inhabilis  ad  curandum  numera 
sibi  commissa  ». 

Come  si  vede,  le  ragioni  del  contradittore  non  erano  molto  solide. 
Il  foglio  dei  Capìtiila  è  presentato  nel  termine  prefisso,  cioè  al- 
l'ottavo giorno  {^2'ò  di  dicembre).  All'udienza  (si  legge  nel  Verbale) 
«  superdictus  Johannes  Baptista  comparuit  et  exhibuit  et  producit  iu- 
frascripta  Capitula  »  e  fa  istanza  che  Americo  sia  citato  per  il  giorno 
seguente,  al  fine  di  confutarli. 

Infatti,  il  Bidello  cita  lo  scolare  spoletino,  notificandogli  il  foglio 
nel  suo  domicilio.  Edeccjlo  infatti  il  di  appresso  comparire  personal- 
mente nel  giudizio  di  contestazione. 

Ma  il  giovane  e  bollente  Jlaninio  tarda  a  presentarsi.  Pronto, 
l'altro  scolare  solleva  l'eccezione  di  contumacia,  e  chiede  «  transapta 
bora  termini,  prout  est  transapta,  se  deputari,  eligi  et  contìrmari  in 
Cousiliarium  ». 

(1)  Publjl.  in  nota  dal  Pardi,  op.  cit. 


ELEZIONI    UNIVERSITARIE    XEl.    CINQUECENTO  9^^ 

Il  contestante,  tuttavia,  giunge  all'iiltim'ora:  ma  il  Giudice  «  visti 
i  Capitoli  esibiti  da  Giovanni  Battista  benché  nell'ultima  ora  del  ter- 
mine, e  poiché  se  anche  tutto  quanto  in  essi  è  contenuto  fosse  pro- 
vato e  accertato,  non  avrebbe  effetto  sul  risultato  dell'elezione,  e 
poiché  Messer  Americo  consegui  più  voti  che  Giovanni  Battista,  con- 
ferma il  primo  a  consigliere,  con  tutti  gli  onori  e  gli  oneri  eie.  etc.  » 

Non  può  dirsi  che  la  Sentenza  fosse  ingiusta  1 

Eppure,  seguitando  a  scorrere  lo  stesso  gruppo  di  carte,  mi  é  ve- 
nuto fatto  di  scoprire  questo  curioso  particolare  :  che,  poche  settimane 
dopo,  la  baldanzosa  tenacia  del  candidato  romano  riuscì  ad  ottenere 
dalla  bonaria  acquiescenza  dello  spoletino  ciò  che  non  aveva  potuto 
ottenere  dal  regolare  giudizio  di  contestazione.  Infatti,  un  atto  notarile, 
rogato  da  nota.jo  perugino,  Angelo  Castellino,  dichiara  che  innanzi 
a  quest'ultimo  s'è  presentato,  a  di  8  Gennajo  1573,  Americo  Egio  da 
Spoleto  per  dichiarare  che  «  discessurus  de  civitate  Perusia  prò  suis 
negotiis  »  rinunzia  alla  carica  e  intende  gli  sia  sostituito  chi  di  ragione. 
E  così  lo  scolare  (7e  Urbe  è  finalmente  appagato  nelle  sue  as|iirazi<mi! 

Quest'esempio,  sul  quale  mi  sono  meno  fugacemente  intrattenuto, 
basta  a  mostrare  qual  sapore  di  modernità  abbiano  questi  curiosi  atti 
elettorali.  Una  vera  ed  analitica  illustrazione  di  essi  potrà  in  seguito, 
meglio  che  questa  mia  notizia  sommaria,  cogliere  tutto  {|uel  geniale 
ambiente  studentesco  nella  funzione  forse  la  più  significativa  e  solenne 
della  vita  luiiversitaria. 

AXNIB.4LE   G.\BRIELL1. 


GIUDITTA  PASTA  E  MARIA  MALIBRAN 


Nel  tempo  in  cui  Rossini  con  il  GuciUelmo  Teli  prendeva  com- 
miato dal  teatro  e  che,  insieme  a  lui,  si  accomiatavano  la  Marcolini, 
la  Pisaroni,  la  Belloc,  Garcia,  Nozzari  e  Galli  suoi  interpreti  gloriosi, 
due  altri  maestri  di  genio  -  Bellini  e  Donizetti  -  venivano  a  collo- 
carsi, astri  parimenti  radiosi,  nel  firmamento  dell'arte. 

Con  Bellini  e  Donizetti  il  melodramma,  pur  conservando  i  vezzi 
e  gl'incanti  della  lussureggiante  melodia  rossiniana,  assumeva  fisono- 
mia  più  umana  e  commovente.  La  melodia,  che  Rossini  avea  creato 
e  data  agli  uomini  come  miraggio  di  supremo  sollievo  e  letizia,  con 
BelUni  e  Donizetti  diveniva  canto  soave  e  doloroso,  poesia  divina 
d'amore  e  di  lagrime. 

Allo  stesso  modo  che  il  genio  alto  e  sorridente  di  Rossini  aveva 
con  la  sua  musica  fatto  vivere  sulla  scena  artisti  d'impareggiabile  virtù 
e  leggiadria,  cosi  parimenti  il  genio  elegiaco  di  Bellini  e  quello  so-  ' 
vranamente  eclettico  di  Donizetti  creavano  intorno  ad  essi  uno  stuolo 
elettissimo  di  cantatricì  soavi  e  appassionate,  lìa  le  quali  -  prime  e 
insuperate  -  Maria  Malibran  e  Giuditta   Pasta.  j 

Tentare  un  ritratto  artistico  di  queste  due  regine  del  canto  vor-  j 
rebbe  dire  scrivere  addirittura  un  volume.  D'altra  parte  non  è  lecito  ] 
passare,  anche  fugacemente,  a  traverso  la  loro  epoca  senza  trattenersi  | 
un  momento  sopra  quella  mirabile  leggenda  d'arte  e  di  gloria.  ] 

Sembra  impossibile  che  Rossini,  il  quale  ebbs  agio  d'udire  le  due 
somme  cantatrici,  dalla  loro  radiosa  aurora  sino  al  loro  luminoso  tra- 
monto, abbia  avuto  la  forza  di  serbare  il  suo  olimpico  silenzio,  e  di- 
nanzi alla  voce  e  all'ingegno  meraviglioso  delle  due  insigni  non  abbia 
sentito  il  bisogno  irresistibile  di  scrivere  per  esse  almeno  un  altro  dei 
suoi  deliziosi  capolavori. 

Le  voci  tanto  della  Pasta  quanto  della  Malibran  avevano  una  esten- 
sione straordinaria.  Da  un  la  sotto  le  righe  esse  potevano  salire  fino 
a  un  do  diesis  e  magari  a  un  re  acuto,  estensione  che  permetteva  loro 
di  cantare  a  vicenda  e  con  uguale  disinvoltura  la  musica  di  soprano 
e  quella  di  contralto.  La  Pasta,  al  suo  apparire,  die  subito  prova  di 
questa  sua  virtù  portentosa  cantando  con  pari  bravura  nel  Tancredi 
di  Rossini,  nella  Mede'i  di  Pacini,  nel  Rom^o  e  Giulietta  di  Bellini 
e  negli  Orazi  e  Cariasi  di  Gimarosa.  Una  singolarità  della  sua  voce 
era  la  disuguaglianza  del  timbro,  difetto  di  cui  essa  si  prevaleva  con 
rara  abilità  per  ricavarne  una  maggior  potenza  d'espressione.  Del  resto 
la  storia  dell'arte  c'indurrebbe  a  ritenere  come  ben  difficilmente  sia 
dato  alle  voci,  d'un  metallo  perfettamente  omogeneo,  di  esprimere  un 
cauto  appassionato,  laddove  quel  leggero  velo  che  si  distende  sul  suono 


GICDITTA    PASTA    E   MARIA    JfALIBRAN  101 

lerve  talvolta  ad  aggiungere  efficacia  al  canto  nei  momenti  d"  agita- 
tone e  di  angoscia.  Affinchè  ciò  accada  fa  di  bisogno  però  che  l'ar- 
ista possieda  quel  fascino  sublime,  retaggio  del  solo  genio,  mediante 
1  quale  è  dato  mandare  in  visibilio  la  platea  d'un  teatro. 

Altra  singolarità  della  Pasta  era  quella  di  poter  unire  con  sor- 
)rendente  facilità  la  voce  di  petto  alla  voce  di  testa.  -Dall'unione  di 
[uei  due  suoni  essa  traeva  effetti  stupefacenti.  Per  ravvivare  il  colore 
l'una  frase,  ovvero  per  infondere  il  chiaroscuro  ad  una  semplice  me- 
odia,  essa  adoperava  il  falsetto,  suono  completamente  diverso  da  quello 
Iella  sua  voce  di  petto,  pura,  limpida,  brillante,  d'una  leggerezza  am- 
Qirabile. 

Dalla  Fama  di  Milano  riproduciamo  (piesto  sintetico  giudizio  in- 
orno alla  Pasta  : 

«  Corde  basse  un  po'  sot^'ocate.  corde  medie  leggermente  velate, 
;orde  acute  che  vanno  all'anima,  abilità  sorprendente,  presenza  che 
miione  e  ispira  il  più  grande  interesse,  azione  ammirabile,  dramraa- 
icità  sublime  -  forse  impaieggiabile.  -  Qualche  volta  pcco  studio  nel 
lascondeie  gli  sforzi  e  gli  espedienti  dell'  arte.  Nel  suo  insieme  un 
fenomeno  assolutamente  portentoso  ». 

Più  volte  venne  chiesto  invano  alla  Pasta  chi  fosse  stato  il  suo 
naestro  sulla  scena.  Probabilmente  questi  fu  il  suo  gran  cuore  d'ar- 
ista, cosi  disposto  per  natura  a  vibrare  innanzi  alle  più  intime  pul- 
sazioni della  sofferenza  umana  e  alle  più  sottili  e  delicate  manifesta- 
:ioni  del  bello. 

Un  giorno  a  Trieste,  mentre  essa  passeggiava  lungo  il  molo,  ini 
novero  bimbo  di  tre  o  quattro  anni  le  si  avvicinò  e  le  chiese  l'ele- 
uosina  per  sua  madre  cieca.  La  grande  cantante  ruppe  in  un  pianto 
ìirotto  e  donò  al  fanciullo  tutto  il  contenuto  della  sua  borsa.  Le  per- 
sone che  l'accompagnavano  non  seppero  trattenersi  dal  lodare  viva- 
nente  l'atto  pietoso  e  caritatevole,  ma  essa  asciugandosi  le  lagrime 
lisse  loro:  «  Non  accetto  le  vostre  lodi.  Quel  fanciullo  mi  ha  doman- 
iato  l'elemosina  in  una  maniera  sublime,  in  un  batter  d'occhio  io 
io  visto  la  sventura  di  sua  madre,  la  miseria  della  loro  casa,  la 
mancanza  delle  vesti  e  il  freddo  ch'essi  debbono  soffrire,  lo  mi  sen- 
irei  veramente  una  grande  attrice  se.  all'occasione,  riuscissi  a  trovare 
jn  atteggiamento,  un  gesto  ch'esprimesse  un  dolore  così  piofondo  con 
pari  verità  ed  efficacia!  » 

LTn'altra  \olta  una  giovine  inglese,  corista  al  Teatro  Italiano  di 
Parigi,  non  avendo  denaro  sutficiente  per  seguire  la  Compagnia  a 
Londra,  pensò  di  dare  un'accademia.  Sempre  disposta  a  render  ser- 
vigio, la  Malibran  acconsenti  di  cantarvi  e  bastò  il  sno  nome  per 
riempire  la  sala.  Senonchè,  contro  il  suo  costume,  quella  sera  essa 
arri\ò  tardi  facendosi  lungamente  aspettare.  Finita  l'accademia  essa 
chiamò  in  disparte  la  beneficata  e  le  disse:  «Vi  ho  promesso  la  mia 
serata:  ebbene,  ho  trovato  modo  di  far  due  raccolti.  Prima  di  venir  qui 
bo  cantato  dal  Duca  D'Orleans  ed  eccovi  i  cinquecento  scudi  d'oro  che 
mi  ha  regalato  ». 

Innumerevoli  sarebbero  gli  esempi  e  gli  aneddoti  che  si  potreb- 
bero narrare  in  prova  della  bontà  e  generosità  d'animo  di  queste  due 
celebri  prime  donne.  Le  lagrime  infinite  asciugate  col  proprio  denaro 
a  col  prodotto  della  loro  voce,  tanto  dalla  Pasta  quanto  dalla  ilalibran, 
possono  soltanto  far  loro  perdonare  lo  sperpero  favoloso  dei  monili, 
gioielli,  corone,  poesie,  epigrafi,  medaglie,  busti,  monumenti  e  onori 


101^  GIIDITTA    PASTA    E    .MARIA    MALIBRAN 

d'ogni    sorta  a  loro  prodigati    ilairaminiiazioiie  di    popoli,  piiiK-i[)i  e 
poeti. 

Non  so  trattenermi  dal    riprodurre  due  originali    poesie,  una  del 
Monti  per  la  Malibran  e  Taltia  del  Romani  per  la  Pasta. 

A    Giuditta  Pasta. 
Voce  sola. 

Ascoltate!..  Qual  dolce  lamento 
della  notte  i  silenzi  interrompe? 
E  sospiro  di  querulo  vento? 
Fhttto  è  forse  che  al  lito  si  rompe? 
Alci'on  che  predice  tempesta? 
Usignolo  che  geme  d'amor? 

Coro. 
È  Giuditta  che  intuoua  la  mesta, 
la  notturna  elegia  del  dolor. 

Voce  sola. 
Ascoltate  !..  Suonar  da  lontano 
più  gioconda  una  voce  si  sente. 
L'inno  è  fca-se  d'augello  montano 
che  saluta  l'aurora  nascente  ' 
È  liuto  che  invita  siill'aja 
a  danzar  forosette  e  pastor  ? 

Cono. 
E  Giuditta  che  intuona  la  gaia 
canzonetta  d'un  ilare  cor. 

.    Tutti. 
Ah!  l'orecchio  all'alterna  porgete 
melodia  di  quel  labbro  celeste. 
Aure,  augelli  e  voi  rivi  tacete, 
emularla  giammai  non  potreste. 
Men  cortese  natura  vi  diede 
scioglier  voce  d'un  solo  tenor. 
Canti  e  modi  a  lei  sola  concede 
quanti  sono  gli  affetti  del  cor. 

Felue  Romani. 

Le  seguenti  terzine  di  Vincenzo  Monti  sono  per  la  Malibran  : 

Ma,  oh!  cessi  alquanto  da' dorati  palchi 
cessi  il  furor  di  ripercosse  palme, 
cessin  l'arpe,  i  liuti  e  gli  oricalchi  ; 

che  tu,  cortese,  già  ti  volgi  e  l'alme 
luci  a  me  inchini,  e  par  già  di  Talia 
quasi  abbi  a  vii  le  ambiziose  palme, 

E  ben  fai:  che  tra  quel  che  a  te  s'invia 
misto  suon  di  favor,  quel  ch'io  favello, 
forse  più  caro  al  paragon  ti  fia. 

Quel  plauso  popolar  che  par  si  bello 
come  folgore  passa  e  si  fa  vano, 
né  va  de  l'ampia  arena  oltre  il  cancello. 

Solo  di  Vati  il  plauso  ogni  lontano 
lito  celer  trasvola  e  solo  sprezza 
l'ala  del  tempo  che  lo  tenta  invano. 

Per  eiò  che  riguarda  le  paghe,  queste  salgono  a  cifre,  per  quei  tempi, 
assolutamente  favolose. 


GIUDITTA    PASTA    E    MARIA    MALIBRAN  103 

Vediamo  inlatti  la  Malibran  nel  carnevale  del  1834-35  scritturata 
al  San  Carlo  di  Napoli  per  lire  ottantamila,  poi  a  Londra  al  Covent- 
Garden  a  lire  cinquantamila  per  venti  recite  e  più  tardi  al  Drury-Lane 
a  sterline  1*25  per  sera. 

Un  impresario  americano,  certo  Caldwell,  olfii  alla  Malibran  per 
un  solo  anno  lire  duecentocinquantamila  ;  offerta  che  venne  rifiutata 
poiché  la  Malbi'an  guadag'nava  più  in  Europa,  dove  le  sole  beneficiate  - 
una  diecina  all'anno  in  media  -  le  fiuttavano  ognuna  lire  diecimila! 

Così  le  scritture  della  Pasta  vanno  da  lire  quarantamila  sino  ad 
ottantamila.  Neil' ^c/e  e  letteratura  di  Bologna,  in  data  1^2  aprile  1841, 
si  legge:  «  Madama  Fasta  in  seguito  al  suo  ritorno  da  Mosca,  dopo 
aver  dato  a  Pietroburgo  un'Accademia  che  fece  accorrere  al  solito  tutta 
l'alta  società  unitamente  alla  Corte  imperiale,  e  le  procurò,  oltre  al- 
l'infroito,  tìn  ornamento  preziosissimo  regalatole  da  S.  M.  l'Imperatore, 
pensava  di  recarsi  direttamente  a  JSerlino.  Senonchè  l'Imperatore,  ap- 
prendendo l'imminente  partenza  della  Pasta,  osservò  esser  cosa  scon- 
veniente che  questa  grande  artista,  dopo  aver  cantato  sulle  scene  di 
Mosca,  abbandonasse  la  Russia  senza  comparire  su  quelle  di  Pietro- 
burgo. Inoltre  è  d'uopo  sapere  che  una  sottoscrizione  di  trecento  fra  i 
più  distinti  personaggi,  ammontante  alla  somma  di  sessantamila  rubli, 
era  già  stata  a  tale  effetto  raccolta  sino  dalla  sua  partenza  per  Mosca. 
La  Pasta  protrasse  quindi  la  sua  partenza  per  Berlino  e  nelle  otto  rap- 
presentazioni di  Pietrobuigo,  ove  cantò  Norma,  Semiramide  e  Anna 
Bolena,  ricavò  un  guadagno  oltrepassante  gli  ottantamila  rubli  (L.  3!2O,O()0 
circa) !  » 

Queste  due  insigni  attrici-cantanti,  sorte  a  breve  distanza  una 
dairaltra,  avevano  creato  attorno  ad  esse  un'atmosfera  d'entusiasmi 
cosi  intensi,  che  i  ]nibblici.  vedendole  ed  udendole,  non  sapevano  più  a 
quale  delle  due  accordare  la  jireferenza. 

La  Pasta,  venuta  prima  della  Malibran,  aveva  naturalmente  il  van- 
taggio d'ima  riputazione  già  consacrata  da  una  serie  gloriosa  di  trionfi. 
Quando  la  Malibran,  la  sera  del  18  maggio  1834,  si  presentò  intatti  sulle 
.scene  della  Scala,  sotto  le  spoglie  della  Sacerdotessa  d'Erminsul,  il  pub- 
blico milanese  accolse  con  diffidenza  quasi  sdegnosa  l'arrivo  di  questa  già 
celebrata  cantante  su  quelle  massime  scene.  Anzitutto  vuoisi  conside- 
rare che  la  Xorma,  come  è  noto,  era  stata  scritta  dal  Bellini  per  la 
Pasta.  Le  più  favorevoli  circostanze  e  i  più  lieti  auspici  avevano  ac- 
compagnato l'esperimento  della  Pasta  nella  Norma.  La  musica  era 
nuova:  lo  stesso  autore  siedeva  al  cembalo.  Al  canto  della  Pasta  si 
univa  inoltre  la  voce  formidabile  di  Donzelli,  uè  v'era  per  lei  alcun  con- 
fronto da  vincere.  Aggiungasi  che  la  Pasta  era  considerata  come  milanese 
€  circondata  quindi  da  una  sim])atia  universale.  D'altra  parte  la  Malibran, 
sebbene  nuova  per  Milano,  sconvolgeva  da  due  o  tre  anni  il  mondo 
musicale  e  il  suo  rapido  passaggio  attraverso  l'Europa  avea  destato  un 
rumore  straordinario.  L'annunzio  (piindi  ch'essa  sarebbesi  presentata 
nella  Norma  era  stato  come  miccia  che  ap])iccasse  il  fuoco  a  migliaia 
di  razzi  ad  un  tempo. 

Da  una  lettera  d'un  dilettante  milanese  al  direttore  dell'  Arte  e 
letteratura,  di  Bologna  in  data  19  maggio  1834  stralciamo  il  seguente 
brano  che  ci  dice  a  quale  alta  temperatura  fosse  salita  in  quei  giorni 
la  pubblica  curiosità  : 

«  Per  quel  giorno  addio  colazione,  addio  pranzo.  La  febbre  e  il 
convulso  mi  trascinano  al  teatro.  Erano  le  tre  dopo  mezzodì.  Biglietto 


104  GIUDITTA    PASTA    E    MAHIA    MALIBKAN 

d'ingresso  uno  scudo.  (Con  la  Pasta  il  biglietto  era  d'un  solo  fiorino). 
Per  una  sedia  chiusa  in  orchestra  sino  a  otto  scudi.  Il  prezzo  dei 
palchi  addirittura  favoloso.  Quando  io  arrivai  mille  e  più  persone  sta- 
vano già  facendo  ressa  alla  porta  del  teatro  con  le  grida  :  -  Si  apra,  si 
apra  !  -  Mi  caccio,  m"inoltio  fra  quella  siepe  umana  e  mi  metto  a  gri- 
dare anch'io  come  un  matto  senza  sapere  di  che  e  perchè.  Mi  capitano 
alcuni  pugni,  ne  restituisco  alcuni  altri  e  chi  tocca,  tocca.  Finalmente 
si  spalancano  innanzi  a  noi  quelle  porte,  divenute  una  voragine,  entro 
la  quale  ci  slanciamo  tutti  come  tanti  demoni  a  jirender  d'assalto  le 
panche  dell'immensa  platea,  con  uno  schiamazzo,  un  chiasso,  una  ca- 
gnara -  diremmo  noi  -  mai  più  sentita. 

«  Di  quella  guisa,  sepolti  nelle  tenebre,  vivemmo  dalle  tre  e  un 
quarto  dopo  mezzogiorno  sino  alle  otto  di  sera.  La  noia  dell'aspettare, 
l'impazienza  d'udire,  l'affanno  di  quell'imprigionamento  era  giunto  al 
colmo.  Una  mano  come  di  ferro  mi  stringeva  il  petto  e  mi  toglieva  il 
respiro. 

«  Comparve  alla  fine,  sfolgorante  come  un  sole  in  mezzo  al  teatro, 
la  grande  lumiera  che  irradiò  di  luminosissimo  giorno  quel  vasto  re- 
cinto. Apparvero  quasi  subito,  fra  le  acclamazioni  dell'aflollato  udi- 
torio, il  Viceré,  la  Viceregina,  Maria  Luigia,  il  liatello  del  Duca  [di 
Modena,  la  Corte  e  tutta  una  schiera  interminabile  di  leggiadre  dame. 
A  un  tratto  gli  spettatori  della  jilatea  tutta  si  volgono  tutti  da  una 
parte  :  era  madama  Pasta  che  elegantemente  vestita  prendeva  posto  in 
un  palchetto  di  seconda  fila... 

«  Finalmente  ci  siamo.  Echeggia  la  prima  arcata  della  sinfonia... 
vola  il  sipario,  vola  il  coro  col  basso  Marini,  e  l'aria  del  tenore  Reina 
se  ne  vanno  con  esso,  ed  ecco  starmi  dinanzi  agli  occhi  la  Malibran. 
Essa  tremava.  Avvertita  da  qualche  imprudente  che  un  partito  av- 
verso avrebbe  cercato  di  abbatterla,  aveva  pianto  lungamente  nel  suo 
camerino,  rifiutandosi  perfino  di  comparire  in  scena... 

«  11  poco  o  nulla  ch'essa  fece  in  quella  prima  sera  bastò  tuttavia 
perchè  il  giorno  di  poi  -  venerdì  -  in  tutta  Milano  non  si  discorresse 
d'altro.  Si  contendeva  se  la  Malibran  fosse  paragonabile  alla  Pasta  ; 
quindi  liti,  contrasti,  discussioni,  dispute  senza  fine  ». 

Uscirono  in  quel  giorno,  cosa  eccezionale  per  quel  tempo,  tre  gior- 
nali :  la  Gazzetta  Privilegiata  di  Milano  con  un  articolo  del  Lamber- 
tini  in  cui  l'illustre  critico  non  ebbe  il  coraggio  d'un  giudizio  deciso; 
YEco  sollevò  la  Malibran  al  settimo  cielo:  il  Barbiere  di  Siviglia 
-  altro  periodico  -  ne  parlò  invece  in  modo  quasi  obbrobrioso. 

Alla  seconda  raj)presentazione,  ch'ebbe  luogo  il  17  -  sabato  -,  il 
trionfo  della  Malibran  fu  veramente  completo.  11  solito  corrispondente 
del  peiiodico  liolognese  cosi  scriveva  : 

«  Che  vi  dirò  ■;  Milano  è  tutta  sossopra.  La  seconda  sera  in  teatro 
si  piangeva,  si  gridava,  si  urlava  con  un  esaltamento  inesprimibile. 
Si  gridava  Bis  !  bis  !  anche  ai  recitativi.  L'ultima  scena  fu  cosa  da  non 
potersi  descrivere!...  Che  cosa  diranno  i  milanesi  se  udranno  da  lei 
I  Capiileti  e  Montecchi'ì...  Domani  sera  la  Malibran  va  in  scena  con 
l'Otello...  ». 

E  la  sera  infatti  del  ^0  maggio  1834  Maria  Malibran  si  presentò 
nelle  dolci  e  amorose  sembianze  di  Desdemona,  parte  di  puro  e  libero 
soprano  -  a  due  giorni  soli  di  distanza  dall'aver  cantato  quella  di 
Norma  d'un  registro  assai  più  basso.  -  Onde  dar  risalto  anche  mag- 
giore alle  sue  mirabili  facoltà  vocali  essa  introdusse  nell'atto  primo 


GIUDITTA   PASTA    E    MARIA    MALIBRAX  105 

i  cavatina  della  Donna  Caritea  composta  da  Mercadante  per  voce  di 
sro  contralto.  Miracoli  ai  quali  oggi  si  stenterebbe  prestar  fede  se 
ivi  non  fossero  tuttavia  coloro  che  li  videro. 

Dopo  V Otello  l'entusiasmo  dei  milanesi  per  la  Malibran  divenne 
inatismo,  deliiio.  idolatria.  Fu  una  vera  ebbrezza,  il  cui  racconto 
ombrerebbe  leggenda  anzi  che  storia. 

Per  avere  un'idea  del  grado  di  commozione  estetica,  o  meglio  del 
rado  di  astrazione  fìsica  a  cui  la  virtù  di  queste  due  somme  cantanti 
■asportava   il  ]iubblico  di  allora,  citerò  questo  stupefacente  esempio: 

Nello  stesso  anno  1834,  la  sera  del  i2  ottobre,  la  Pasta  e  Donzelli 
lutavano  la  Norma  al  Comunale  di  Bologna.  Una  folla  immensa  era 
ccorsa  in  teatro:  la  Pasta  avea  già  cominciato  a  innalzare  il  canto 
jblime  della  «  Casta  Diva  »  quando  una  tortissima  scossa  di  terre- 
loto  preceduta  da  un  lugubre  rombo,  «  con  direzione  dall' est-nord-est 
IFovest-sud-ovcst.  prima  di  sussidio,  poscia  di  ondulazione,  che  durò 
irca  otto  minuti  secondi  »,  fece  traballare  spaventosamente  il  teatro, 
terrore  fu  immenso.  Non  uno  spettatore  però,  malgrado  la  paura, 
bbandonò  il  proprio  posto.  Cessato  il  fenomeno,  dopo  brevissimo  in- 
;rvallo.  la  Pasta  ripigliò  il  suo  dolcissimo  canto  e  dieci  minuti  dopo, 
l  cessare  di  esso,  nessuno  rammentava  quasi  l'ansia  spaventosa  pro- 
ata  poc)  prima. 

Più  che  il  terrore  avea  potuto  la  voce  paradisiaca  della  Pasta. 

La  contemporaneità  sulla  scena  di  queste  due  cantatrici  fenome- 
ali  non  fu  molto  lunga.  Maria  Malibran  dovea  ben  presto  estinguersi, 
Dnsumata  forse  dall'eccesso  del  suo  fuoco. 

E  strano  come  ella  abbia  potuto  presagire  la  sua  prossima  fine. 
Fn  noto  editore  di  Parigi  riceveva  infatti  la  seguente  lettera  scritta 
alla  Malibran  il  1^  luglio  18'^(i,  alcuni  mesi  prima  della  sua  morte: 

«  Mio  caro  amico, 

«  Fareste  molto  bene  se  riuniste  in  una  nuova  edizione  tutte  le 
jmanze  ed  altre  melodie  che  aveste  la  bontà  di  far  stampare  e  le 
endeste  al  miglior  prezzo  che  fosse  possibile.  11  loro  prodotto  do- 
rebbe  esser  destinato  a  sollievo  dei  poveri  di  Parigi,  lo  credo  che 
on  vi  tornerò  più  perchè  mi  sento  molto  male,  lo  canto  ancora  per 
uesli  inglesi  con  tutto  l'impegno,  ma  la  mia  voce  se  ne  va:  è  finita 
er  me. 

«  Domani  vo  a  Birmingham  ma,  purtroppo,  dubito  fortemente  di 
oter  ritornare. 

«  Questa  è  forse  una  di  quelle  strane  idee  delle  quali,  come  voi 
apete,  me  ne  vengono  tante.  Ciò  nonostante  io  non  voglio  morire 
enza  rivedere  codesta  grande  città  la  quale  mi  diede  le  prime  prove 
i  affezione  che  commossero  il  mio  cuore. 

«  Maria  M.ìlibrax  ». 

Il  23  settembre  1836,  in  età  di  soli  28  anni,  questa  donna  mera- 
igliosa  soccombeva  agli  accessi  di  una  febbre  nervosa  all'Albergo  delle 
jmi  di  Morley  in  Manchester  dopo  una  breve  malattia  di   nove  giorni. 

L'annunzio  della  sua  morte  percosse  il  mondo  d'uno  stupore  dolo- 
Dso.  La  storia  non  ricorda  forse  la  partenza  d'un' anima  seguita  da 
na  mestizia  così  intensa  e  universale. 

Tempi  vecchi  e  beati  in  cui  il  pubblico  aveva  in  teatro  la  sua  re- 
igione,  i  suoi  altari,  i  suoi  idoli  e  in  cui  gli  artisti  facevano  a  gara 


106  GU'DITTA    PASTA    E    MARIA   MALIBRAN 

neir infondere  nel  popolo  quella  fede  atta  a  procurar  loro  maggior  nu- 
mero di  proseliti  ardenti  e  sinceri.  Ali!  vecchi  tempi  beati  invero,  in 
cui  l'arte  e  il  teatro  tacevano  palpitare  il  cuore  d"  una  moltitudine  e 
le  facevano  dimenticare  in  una  sera  le  amarezze  di  lunghe  e  penose 
giornate...  Quei  tempi  non  sono  più!  Di  quelle  gioie  trascorse  e  dei 
grandi  fattori  di  esse  unica  breve  consolazione  è  ormai  questa  di  rie- 
vocarne il  ricordo. 

tloloio.  e  purtroppo  la  schiera  va  ingrossando,  i  quali  nel  teatro 
non  vedono  e  non  sentono  che  una  specie  di  palestra  speiimentale  e 
scientifica,  non  arrivano  a  rendersi  ragione  di  questo  clamoroso  e  fe- 
stante tripudio  delle  anime  plebee,  e  certi  entusiasmi  non  toccano  i 
loro  cuori  chiusi  alle  commozioni  pronte,  facili,  spontanee.  I  loro  spi- 
riti aridi  e  disseccati  si  ribellano  alla  musica  che  batte  rapida  e  di- 
retta alla  porta  dei  loro  cuori  :  essi  preferiscono  affaticare  i  loro  sensi 
alla  ricorca  d'una  idealità  lontana  che  sfugge  loro  dinanzi  senza  me- 
mori dolcezze.  Ebbene,  se  a  questi  sjtiriti,  cosidetti  forti,  si  rammen- 
tassero le  pazze  frenesie,  gli  sconfinati  deliri  e  le  idolatrie  teatrali  di 
una  volta,  essi  ne  riderebbero!...  Eppure,  nulla  di  tutto  ciò  che  può 
coiinnuovere  il  cuore  dell'uomo  deve  ritenersi  insignificante.  Dovunque 
l'uomo  versa  una  lagrima  esiste  una  passione  ossia  un  soggetto  ài  go- 
dimento artistico.  L'arte,  ricordiamolo,  vive  di  passioni,  e  queste 
soltanto  conducono  ai  forti  e  nobili  entusiasmi. 

Benedetti  gli  artisti  che  con  la  virtù  della  loro  musica  o  del  loro 
canto  ne  schiudono  la  benefica  sorgente  ! 

Gino  Monaldi. 


GLI  ISTITUTI  DI  CREDITO  IN  ITALIA 


11  190:2  fu  torse  il  primo  anno,  dopo  la  grave  crisi  del  189:2-1894, 
durante  il  quale  il  movimento  economico  dell'Italia  si  svolse  in  modo 
normale. 

Nessui^  grave  avvenimento  politico  né  all'  interno  ne  all'estero 
venne  a  turbare  il  risveglio  dei  commerci  e  delle  industrie,  le  quali 
cominciarono,  bencliè  lentamente,  a  riaversi  dalla  crisi  dell'anno  pre- 
cedente; il  prezzo  del  denaro,  se  non  facile  come  poteva  far  sperare 
la  pace  nel  Transvaal,  non  fu  però  tale  da  troncare  ogni  iniziativa,  ed 
infine  nel  nostro  paese  l'assetto  della  finanza  consolidò  il  credito  pub- 
blico, e,  fatto  più  di  ogni  altro  importante,  l'aggio  della  moneta  metallica 
scomparve  e  si  aprì  così  al  credito  privato  il  mercato  internazionale. 

11  momento  sembra  quindi  opportuno  per  esaminare,  colla  scorta 
delle  relazioni  presentate  alle  assemblee  degli  istituti  di  emissione  e  di 
credito  ordinarlo,  quale  sia  l'assetto  odierno  delle  banche  in  Italia.  Ciò 
vorremmo  fare  in  queste  brevi  note,  considerando  la  questione  da  un 
punto  di  vista  completamente  obbiettivo. 


1. 

Narrare  come  si  esplicava  il  credito  negli  antichi  Stati  tra  i  quali 
era  divisa  l'Italia,  quale  contributo  portarono,  specie  nel  Piemonte, 
gli  istituti  di  emissione  e  di  credito  ordinario  alla  grande  opera  di 
libertà  e  di  unità,  come  l'alta  mente  del  Cavour  seppe  giovarsi  anche  di 
questi  strumenti,  quanto  profitto  trasse  il  paese  dalle  banche  e  quanto 
le  banche  dal  paese,  come  dal  1859  al  186(5,  dal  18(56  al  187i2,  dal  187:2 
al  1894  si  andarono  organizzando  e  sviluppando,  con  alterna  vicenda 
di  successi  e  di  cadute,  le  varie  specie  di  banche,  e  quali  infine  furono 
le  cause  e  gli  effetti  della  crisi  del  1893,  sarebbe  opera  degna  di  uno 
studioso  delle  discipline  eonomiche. 

Opera  lunga  e  difficile,  non  tenteremo  qui  di  esporla  neppure  per 
sommi  capi:  occorre  pero  dare  un  rapido  sguardo  alle  condizioni  in 
cui  si  trovavano  gli  istituti  di  credito  prima  del  1893  per  poter  giu- 
dicare della  diversa  situazione  del  credito  jirima  e  dopo  quell'epoca. 

11  risveglio  economico  dell'Italia,  effetto  in  ])arte  naturale  del  lavoro 
serio  e  pertinace,  in  parte  fittizio  della  abolizione  del  corso  forzoso, 
aveva  fatto  nascere  e  crescere  molte  banche,  senza  che  un  esame 
accurato  e  sereno  dei  bisogni,  delle  forze  e  delle  condizioni  del  paese 
avesse  dato  modo  di  tracciare  un  programma  ben  chiaro  e  determinato. 
Da  ciò  una  grande  confusione  nei  mezzi  e  nei  fini  del  credito,  una 
■cura  affannosa  più  a  creare  che  a  consolidare,  una  distribuzione  del 


108  GLI    ISTITUTI    DI    CREDITO    IX    ITALIA 

denaro  spesse  volte  così  eccessivamente  larga  da  compromettere  la 
sicurezza  dell'istituto  che  lo  dava,  e,  ciò  che  è  peggio,  da  eccitare  nel 
cliente  che  lo  prendeva  desideri  eccessivi,  ed  attività  non  fi'enate  dalla 
prudenza. 

Una  netta  distinzione  tra  le  varie  forme  di  banche  è  assai  difficili^ 
anche  là  dove  la  costituzione  politica  e  la  economica  sono  assodate  da 
un  lungo  periodo  di  pace  interna  e  di  piosperità;  è  naturale  quindi 
che  fosse  più  difficile  in  un  paese  nuovo  come  V  Italia,  ove  tutto, 
o  quasi,  era  da  creare  e  da  organizzare. 

Determinare  con  precisione  le  funzioni  degli  istituti  di  emis- 
sione, delle  banche  di  credito  mobiliare,  delle  banche  di  deposito  e 
sconto,  quando  un  paese  giovane  e  pieno  di  vigoria  prova  il  bisogno 
di  espandere  le  sue  forze  e  di  acquistare  nel  mondo  economico  il  posto 
che  sente  di  poter  meritare,  è  opera  che  avrebbe  richiesto  menti  sui»'- 
riori,  conscie  delle  proprie  forze  e  sopratutto  sicure  di  trovare  mi 
poteri  dello  Stato  continuità  di  indirizzo  e  serietà  di  propositi. 

Cosi  non  fu  in  Italia,  per  colpa  più  forse  delle  cose  che  degli 
uomini. 

L'azione  coordinatrice  e  moderatrice  avrebbe  dovuto  essere  esei- 
citata  dagli  istituti  di  emissione,  sorretti  e  guidati  alla  lor  volta  dal 
Governo,  ma  il  Governo  nonché  trattenerli  sulla  retta  via  li  incita\a 
ad  uscirne,  spinto  alla  sua  volta  da  interessi  economici  o  politici  cui 
non  sapeva  o  non  poteva  porre  freno.  La  stessa  condotta  prudenlc 
dello  Stato  nella  gestione  della  finanza  pubblica  fu  causa  per  far  de- 
viare gli  istituti  di  emissione  dalla  retta  via,  poiché  tolse  loro  occa- 
sione di  guadagni. 

Quando  gli  Stati  moderni  trasformarono  la  loro  organizzazione 
economica  in  armonia  coi  nuovi  bisogni  della  società,  le  banche  di 
emissione  portarono  ai  governi  un  prezioso  contributo,  ma  ne  furono 
anche  compensate  con  larghi  profitti.  Le  ojìere  della  pace  e  della 
guerra,  i  lavori  pubblici,  la  trasformazione  delle  imposte,  resero  neces- 
sarie grandi  operazioni  di  credito,  dalle  quali  le  banche  di  emissione 
trassero  copiosi  utili,  accresciuti  poi  dall'aumentato  valore  dei  titoli 
di  Stato,  nei  quali  era  rimasta  impiegata  parte  notevole  delle  loro  atti- 
vità. E  quando  queste  sorgenti,  di  lucri  eccezionali  vennero  a  mancare,  e 
le  operazioni  ordinarie  divennero  sola  tonte  di  profitti,  resi  sempre  più 
scarsi  dal  diminuire  del  piezzo  del  denaro  e  dal  crescere  delle  spese 
e  delle  tasse,  esse  trovarono  nel  frutto  delle  riserve  accumulate  e  dei 
titoli  acquistali  a  basso  prezzo  compenso  ai  redditi  diminuiti. 

Anche  in  Italia  i  banchi  di  emissione  coopeiando.  specie  nei  primi 
tempi,  spesso  anche  con  patriottico  ardiie.  all'opera  del  nostro  ri- 
scatto raccolsero  benefizi  assai  lauti.  Ala,  credendo  forse  che  questa 
causa  di  lucro  duiasse  più  a  lungo,  non  ne  fecero  uso  così  moderato 
da  serbarne  parte  per  i  tempi  meno  favorevoli;  e  quando  questi  giun- 
sero, corsero  affannosamente  alla  ricerca  di  nuovi  attari. 

A  tale  indirizzo  poco  prudente  contribuì  lo  stimolo  del  Governo, 
il  quale  per  eccitare  in  alcune  legioni  le  industrie  manifatturiere,  in 
altre  le  edilizie,  in  altre  le  agricole,  alcune  volte  anche  per  salvare 
enti  la  cui  caduta  temeva  potesse  scuotere  il  credito  pubblico,  spinse  e 
quasi  obbligò  gli  istituti  ad  operazioni  pericolose  e  affatto  contrarie  allo 
spirito  ed  anche  alla  lettera  delle  leggi  e  degli  statuti  che  regolavano 
gli  istituti  stessi.  E  gli  istituti  di  emissione  spinsero  alla  lor  volta  gli  isti- 
tuti di  credilo  ordinario  a  dare  un  impulso  eccessivo  agli  affari,  promet- 


GLI    ISTITUTI    DI    CREDITO    IN    ITALIA  109 

tendo  ogni  maggiore  facilità  di  denariì  e  rassicurandoli  contro  ogni  peri- 
Colo  di  restrizione  nei  mezzi  monetari,  poiché  scarso  o  nullo  era  il  treno 
airemissione  dei  biglietti  ed  in  ogni  modo  era  l'erma  la  convinzione 
che  così  fitta  erasi  fatta  la  rete  di  interessi  che  tutti  legava,  da  dar  cer- 
tezza che  al  momento  del  bisogno  i  mezzi  per  venire  in  aiuto  non  sareb- 
bero mancati.  Situazione  tanto  più  grave  in  (juanto  che  era  creata  non 
da  interessi  privati,  contro  i  quali  l'onestà  degli  uomini  che  reggevano 
i  maggiori  istituti  di  emissione  e  di  quelli  che  erano  a  capo  del  Go- 
verno si  sarebbero  ribellati,  ma  dall'interesse  pubblico  o  meglio  da 
quello  che  si  credeva  esseie  l'interesse  pubblico. 

Gli  istituti  di  emissione,  dimentichi  così  della  loro  funzione,  di- 
vennero anche  istituti  di  credito  mobiliare,  di  credito  ipotecario,  di 
credito  fondiario,  di  credito  agricolo,  e  per  salvare  il  denaro  prestato 
dovettero  divenire  grandi  proprietari  di  case,  grandi  proprietari  di  fondi 
rustici,  costruttori,  industriali,  agricoltori.  E  per  accrescere  i  mezzi  dispo- 
nibili senza  allargare  soverchiamente  la  circolazione  dei  biglietti,  dovet- 
tero escogitale  nuovi  mezzi  per  attrarre  a  sé  il  denaro;  sicché  nei  depositi 
in  conto  corrente  l'opera  loro  non  si  limitò  ad  essere  integratrice,  rap- 
presentando il  deposito  più  sicuiamente  rimbonsabile  e  per  conseguenza 
meno  lai'gamente  rimuneiato,  ma  divenne  anche  efficiente,  allettando  i 
depositanti  coU'alto  saggio  deg l'interessi.  Così  si  fecero  concorrenti  non 
solo  delle  banche  di  credito  mobiliare  ed  immobiliare  ma  anche  di 
quelle  di  credito  ordinario  e  di  deposito  e  sconto.  Le  prime,  incorag- 
2:iate,  come  si  é  visto,  dagli  istituti  di  emissione,  spinsero  gli  affari  oltre 
ogni  limite  di  prudenza:  dimenticando  gl'insegnamenti  della  teoria  e 
ieir esperienza,  non  serbarono  alcuna  ])roporzione  fra  gl'impegni  e  le 
disponibilità  e  corsero  esse  pure  affannose  alla  ricerca  delle  somme 
in  deposito  immohilizzandole  poi  in  operazioni  a  lunga  scadenza;  le 
ultime,  tradendo  il  loro  programma,  si  volsero  esse  pure  ad  impieghi 
kinghi  ed  aleatori.  Tra  queste,  con  errore  ancor  più  colpevole,  non 
mancarono  alcune  Casse  di  risparmio. 

Numerose  é  vero  furono  le  eccezioni;  il  più  gran  numeio  di  quei 
mirabili  istituti  che  sono  le  Banche  Popolari  tennero  fede  agl'insegna- 
menti del  loro  fondatore,  molte  piccole  banche  locali  e  la  maggior  parte 
ielle  Casse  di  risparmio  non  abbandonarono  la  via  della  prudenza,  e 
[e  une  e  le  altre  silenziosamente,  modestamente,  rinvigorirono  cosi  da 
poter  senza  scos.se  superare  i  momenti  difficili. 

La  crisi,  che  ai  più  avveduti  appariva  inevitabile,  cominciata  nel 
1891,  maturata  nel  1892,  scoppiò  nel  1893  in  tutta  la  sua  intensità  e 
iprì  col  1894  un  nuovo  perìodo.  La  leg^e  del  "20  agosto  1893  sugli 
stituti  di  emissione,  per  quanto  imperfetta  e  rispondente  alle  neces- 
sità impellenti  del  momento  piuttosto  che  alle  finizioni  organiche  di 
jn  buon  ordinamento  bancario,  valse  però  a  ricondurre  i  nostri  isti- 
tuti di  credito  a  pili  sani  principii. 


II. 

Le  vicende  della  crisi  attraversata  dall'Italia  nel  189'^  e  nel  1893  sono 
i  tutti  note.  Le  difficoltà  in  cui  si  trovarono  grandi  società  industriali 
;d  edilizie,  la  sfiducia  che  invase  il  pubblico,  il  ritiro  dei  depositi  che 
le  fu  la  conseguenza,  provocarono  la  caduta  delle  due  maggiori  banch  e 
3er  azioni,  le  quali,  istituti  di  credito  mobiliare  e  banchi  di  deposito 


110  (ìli    ISTITl'TI    DI    CREDITO    IX    ITALIA 

ad  un  tempo,  non  poterono  far  fronte  alle  insistenti  domande  di  rin. 
borso  da  parte  dei  loro  creditori  ne  trovar  aiuto  nei  banchi  dieini- 
sione,  sia  perchè  anche  questi  erano  in  un  periodo  di  disorfj:anizzazioiic, 
non  più  sotto  1"  impero  della  vecchia  legge  non  ancora  saldameli It 
costituiti  sotto  rimpei'o  della  nuova,  sia  perchè  non  erano  in  grado 
di  offrile  garanzie  abbastanza  pronte  e  sicure.  Le  infauste  rivalità 
che  da  lungo  tempo  esistevano  fra  i  vari  grupj)!  tiancari,  la  debo- 
lezza stessa  di  tali  gruppi  non  consentivano  di  liquidare  senza  scosse 
una  situazione  che  già  da  lungo  tempo  si  era  andata  aggravando. 
Fu  allora  a  tutti  gli  osservatori  diligenti  e  spassionati  ancora  una 
volta  manifesta  la  grande  importanza  che  ha  per  un  paese  la  solida 
cos  tituzione  dei  banchi  di  emissione  :  i  nostri,  ])er  sostenere  nel  passalo 
il  credito  di  posizioni  deboli,  avevano  siffattamente  indebolito  sé  sfc-ì 
che  giunto  il  momento  in  cui  il  loro  aiuto  morale  e  materiale  avreblu- 
])otuto  essere  di  vero  soccorso,  furono  iin|iotenti  a  darlo  perchè  ad  essi 
per  i  primi  mancava  ogni  forza  morale  e  materiale. 

Solamente  nei  primi  mesi  del  lSi)4  la  Ranca  d' Italia  potè,  mercè 
eccezionali  provvetliinenti  legislativi,  ]iromettere  il  suo  aiuto  a  quelle 
banche  e  a  quelle  Casse  di  risparmio  le  (|uali  malgrado  la  loro  salda  com- 
pagine, potevano  temere  il  contraccolpo  della  sfiducia  che  aveva  invaso 
il  pubblico  verso  tutte  le  aziende  bancarie.  Il  1894  fu  anno  di  licpii- 
dazione.  Alla  crisi  bancaria  si  aggiunsero  le  difficoltà  del  Tesoro  :  de- 
presso il  credito  pubblico,  salito  il  cambio  a  glandi  altezze,  conveni\a 
provvedere  a  saldare  ingenti  debiti  all'estero,  a  rimliorsare  gli  spezzali 
metallici  di  cui  avevamo  ottenuto  dalla  Lega  latina  la  nazionalizzazione, 
a  liquidare  molte  operazioni  di  tesoreria  fatte  sotto  la  i)iessione  del  bi- 
sogno nell'anno  precedente.  Ij'energica  ed  intelligente  condotta  del  Te- 
soro, le  leggi  fiscali  fatte  approvare  dal  Parlamento,  gli  accordi  stretti 
con  la  Banca  d"  Italia  eia  cooperazione  cordiale  da  es.sa  prestata  allo 
Stato,  senza  venir  meno  ai  suoi  doveri  ed  ai  suoi  fini,  valsero  a  salvare  i 
il  paese  da  una  crisi  piìi  grave  ed  a  porre  le  basi  di  una  salda  rico-'  ] 
stituzione  delle  forze  economiche. 

Cominciarono  allora  a  sorgere  nuovi  istituti  di  credito,  a  trasfor- 
marsi e  a  consolidarsi  quelli  che  avevano  supei'ata  la  bufera.  Ma  que- 
st'opera di  ricostituzione  fu  condotta  con  un  prograiiniia  perfettamente 
definito ":f  Furono  chiaramente,  esattamente  separate  le  funzioni  del 
credito  mobiliare  da  quelle  del  deposito  e  sconto  ?  Non  sempre  ;  forse 
perchè  le  condizioni  in  cui  si  trova  ancora  il  nostro  Paese  non  per- 
mettono una  esatta  distinzione  di   funzioni. 

Il  banco  di  credito  moliiliare,  c[uello  cioè  che  ha  jier  programma 
la  creazione  o  la  trasformazione  di  società  per  azioni  e  tutte  le  opera- 
zioni di  borsa  che  ne  sono  la  conseguenza,  richiede  un  capitale  assai 
vistoso,  sia  fornito  dagli  azionisti  del  banco,  sia  accresciuto  dall'ag- 
gruppamento attorno  al  banco  stesso  di  ])rivati  capitalisti.  Inoltre,  per  la 
natura  medesima  delle  sue  funzioni,  richiede  negli  azionisti  e  negli  amici, 
la  conoscenza  di  tali  funzioni  e  la  virtù  di  non  perdere  la  fiducia  se 
ad  anni  di  grande  prosperità  succedono  anni  di  pochi  utili  o  di  per- 
dite. Donde  o  una  grande  varietà  nei  dividendi,  o  la  necessità  di  co- 
stituire nei  tempi  pi'osperi  forti  riserve,  per  fronteggiare  i  tempi  meno 
fortunati.  Il  banco  di  deposito  e  sconto,  il  cui  programma  comprende 
oltre  le  operazioni  di  sconto  anche  quelle  di  banca  richieste  dal  com- 
mercio interno  ed  estero,  vuole  invece  capitale  scarso,  ottime  orga- 
nizzazioni [)er  attrarre  i  depositi  di  denaro  ed  assicurare  loro  pronta 
restituzione,  e  dà  utili  forse  meno  lauti,  ma  più  costanti. 


GLI    ISTITUTI    DI    CRliDITO    IN   ITALIA  111 

Malgrado  l'aiuto  dato  dalle  banclie  forestiere  che  ben  si  accorsera 
elle  prospere  sorti  a  eui  si  avvia\  a  1'  Italia,  non  sarebbe  stato  possi- 
lile  raccogliere  capitali  sutficieiiti  per  un  potente  istituto  di  credito 
nobiliare,  il  quale  del  resto  non  avrebbe,  senza  fare  opera  imprudente, 
rovaio  campo  sufficiente  di  azione.  E  la  fiducia  conservata  o  riacqui- 
tata  da  molte  Banche  popolari  e  Casse  di  risparmio  e  da  alcune  banche 
li  credito  ordinario  non  avrebbero  lasciato  alimento  bastante  ad  un 
stituto  che  avesse  vohìto  tondare  la  sua  azione  quasi  esclusivamente 
ui  depositi  di  denaro. 

Per  questo  gli  istituti  nuovi  o  rinnovati  seguirono  un  progiamma 
uisto  :  capitale  relativamente  importante,  organizzazione  tale  da  invi- 
are i  depositi,  studio  di  dare  largo  sviluppo  alle  operazioni  d'indole 
'eramente  commerciale.  Alcuni  pochi  fallirono  alla  prova,  altri,  i  piìi 
'd  i  più  importanti,  andarono  e  vanno  ogni  giorno  meglio  consoli- 
landò  la  loro  situazione. 

Anche  l'opera  che  essi  diedero  alla  ricostituzione  economica  fu 
mportante  e  benefica.  Aziende  indu.striali  ridotte  a  mal  partito  furono 
•iordinate.  altie  nuove  furono  create  :  la  diffidenza  che  aveva  invaso  il 
lubblico  per  ogni  iniziativa  fu  a  poco  a  poco  vinta,  se  non  interamente, 
Umeno  in  parte. 

Maggior  cammino  si  sarebbe  fatto  se  per  un  momento  il  peri- 
colo di  ricadere  negli  antichi  ei-rori  non  fosse  riapparso.  Illudendosi 
mila  potenza  del  paese,  credendo  troppo  presto  che  ogni  traccia  dei 
inali  passali  fosse  cancellata,  le  riorganizzazioni  e  le  creazioni  furono 
nel  1898  e  nel  1899  spinte  con  soverchia  alacrità,  giovandosi  di  una 
3ccessiva  facilità  di  denaro,  che  favori  nella  borsa  un  movimento  di 
rialzo  disordinato  e  fittizio.  Ma  l'esperienza  del  passato  non  era  di- 
menticata, e  gli  istituti,  pur  favorendo  tali  tiasfoi-mazioni  e  creazioni, 
procedettero  in  generale  con  maggior  ]irudenza.  Ebliero  cura  di  non 
conservare  in  grande  quantità  i  titoli  emessi,  di  collocarli  nel  pubblico 
0  quanto  meno  di  suddividere  il  rischio,  chiamando  a  partecipare  nella 
operazione  finanziaria  i  capitalisti  amici  e  ad  essi  richiedendo  il  ver- 
samento effettivo  della  partecipazione  assunta  ;  non  si  ripetè  così  il 
male  che  gli  istituti  rimanessero  con  un  grosso  portafoglio  di  titoli 
industriali  e  con  una  importante  somma  di  crediti  verso  gli  amici,  parte- 
cipi in  tal  modo  piìi  di  apparenza  che  di  fatto  dei  pericoli  e  degli  esborsi. 
Questi  avvedimenti,  una  salutare  restrizione  nella  circolazione  dei  bi- 
glietti e  accenni  di  sfiducia  ricomparsi  nel  privato  capitalista  valsero 
ad  arrestare  il  movimento  espansionista  in  tempo  iievcbè  nessun  danno 
(all'  infuori  di  poche  eccezioni)  risentis.sero  gli  istituti  di  eredito.  1 
quali  anzi  pongono  ora  ogni  studio  per  raffei'uiare  il  programma  di 
lavoro  ordinario  ;  è  notevole  il  fatto  che  quasi  tutte  le  relazioni  dei 
Consigli  d'amministrazione  sidl'esercizio  189^2  insistono  nell'affermare 
che  gli  utili  ])rovengono  quasi  totalmente  dalle  operazioni  ordinarie  di 
banca  e  che  il  portafoglio  di  titoli  industriali  ed  il  capitolo  delle  ^iar- 
tecipasioni  (dell'  interessenza  cioè  in  gruppi  di  capitalisti  che  possie- 
dono titoli  industriali)  si  vanno  assottigliando.  Ed  è  cpiesta  una  buona 
via,  sulla  quale  è  bene  persistano. 

Non  per  questo  però  ancora  gristituti  di  credilo  ordinario  devono 
e  possono  precludersi  ogni  iniziativa  di  operazioni  di  credito  mobiliare. 
Di  nuovi  organismi  ha  ancora  bisogno  la  pubblica  economia.  Il  cre- 
dito agrario,  il  credito  navale,  il  credito  coloniale  non  hanno  ancora 
strumenti  adatti  e  sufficienti.  Molte  industrie  vanno  rinvigorendosi  ed 


112  GLI    ISTITITI    DI    CREDITO    IN    ITALIA 

lianno  d'uopo  di  accrescere  i  mezzi  disponibili,  di  rifare  e  migliorali- 
gli  impianti  tecnici;  raiimento  di  capitale  o  l'emissione  di  obbligaziMni 
divengono  una  necessità  a  soddisfare  la  quale  gl'istituti  di  creditu 
possono  e  devono  servire  quali  organi  intermediari.  Le  opere  pubblicin  . 
bonifiche,  ferrovie,  acquedotti,  offrono  pure  un  campo  assai  vasto;  ii 
problema  dell'esercizio  ferroviai'io,  comunque  si  risolva,  richiederai i a 
parte  delle  banche  studio  ed  attiva  cooperazione.  E  lo  Stato,  se  voiià 
preparare  e  condurre  a  termine  la  grande  opera  della  conversione  del 
debito  pubblico,  dovrà,  più  che  non  abbia  mostrato  di  voler  fare  in 
questi  ultimi  tempi,  assicurarsi  il  concorso  dell'  alta  banca  italiana  ; 
la  quale,  malgrado  quanto  si  è  affermato,  non  potrà  da  sola  assu- 
mere operazioni  cosi  imp  )rtanti  come  son  quelle  della  conversione 
del  consolidato  5  per  cento,  ma  potrà,  per  il  piestigio  di  cui  gode, 
aggruppare  intorno  a  se  le  maggiori  Ijanche  d'Europa. 

Nella  creazione  e  nella  emissione  di  obbligazioni  di  enti  privati  e 
pubblici,  nelle  operazioni  in  titoli  di  Stato  hanno  quindi  i  nostri  isti- 
tuti vastissimo  campo  d'azione. 

Un'altra  manifestazione  dell'attività  economica  dovrà  richiamale 
l'attenzione  degli  istituti  di  credito:  la  industria  edilizia.  Quali  e  quanti 
errori  siano  stati  commessi  è  noto  a  tutti:  la  grave  crisi  che  ne  fu  la 
conseguenza  ha  seminato  il  campo  di  rovine,  istituti  di  emissiour. 
banche  ordinarie,  privati,  hanno  perduto  qualche  centinaio  di  milioni. 
La  crisi  fu  liquidata,  l'equilibrio  si  va  ristabilendo,  ma  ancora  istituti 
di  emissione,  istituti  di  credito  fondiario,  banche,  privati,  trascinano 
il  peso  di  terreni  e  di  case  (specie  a  Roma  e  a  Napoli)  redditizie  o 
infruttifere,  non  finite  o  minanti  per  difetto  di  manutenzione.  Gli  isti- 
tuti di  credito  fondiario  ancora  opeianti  funzionano  egregiamente, 
qualche  istituto  di  credito  immobiliare  si  è  ricostituito,  qualche  altro, 
come  la  vSocietà  del  Risanamento  di  Napoli,  sta  per  riprendere  attività. 
Ma  molto  ancora  è  da  farsi. 

11  jiroblema  edilizio,  specie  a  Roma,  si  dibatte  fra  molte  difficoltà. 
Gli  istituti  di  emissione,  le  banche  e  i  privati  vorrebbero  vendere  i 
loro  immobili,  ma  chi  compra?  Qualche  ricco  ed  ardito  capitalista  ha 
potuto  fare  acquisti  importanti,  ma  molto  e  molto  è  ancora  da  ven- 
dere. Le  società  di  assicurazioni  e  i  privati  sono  poco  propensi  ad  ac- 
quistare immobili,  che,  per  il  modo  con  cui  sono  costruiti,  richiedono 
amministrazioni  costose,  minute,  fastidiose;  sono,  come  è  noto,  per 
lo  più  case  con  un  centinaio  di  inquilini  che  pagano  ciascuno  sei  o 
settecento  lire  di  fìtto.  Peggio  se  l'immobile  non  è  finito:  gli  istituti 
di  emissione  perchè  la  legge  vieta  loro  di  accrescere  le  cifre  delle  im- 
mobilizzazioni, le  banche  e  i  capitalisti  privati  perchè  non  vogliono  o 
non  possono  volgere  nuove  somme  in  imiiieghi  immobiliari,  lasciano 
l'edificio  inadempiuto  sfasciarsi  a  poco  a  poco,  quando  non  preferi- 
scano abbatterlo  per  idilizzarne  i  materiali. 

Occorrerebbe  un  istituto  il  quale  fosse  in  grado  tli  acquistare  un 
buon  numero  di  immobili  e  potesse  quindi  (poiché  a  Roma  non  è  pos- 
sibile come  a  Napoli  e  a  Genova)  vendere  separatamente  piani  o  quar- 
tieri, con  un  ben  congegnato  sistema  di  ammortamento  restituire  a 
poco  a  poco  agli  azionisti  le  somme  impiegate  e  costituire  così  in 
un  periodo  lungo  di  anni  una  proprietà  immobiliare  che  non  rappre^ 
senterà  più  una  immobilizzazione  di  cajtitali.  Gioverebbe  inoltre  la 
creazione  di  un  ente  il  quale  avesse  per  uttìcio  di  amministrare  gli 
immobili  per  conto  di  terzi  ;  provvedendo  cosi  a  gestire  con  economia 


GLI    ISTITUTI    DI    CREDITO    IN    ITALIA  Ili} 

!  con  unità  d'indirizzo  e  togliendo  al  proprietario  anche  di  una  sola 
ìasa  i  fastidi  e  le  cure  deiramministrazione,  esso  eliminerebbe  uno  dei 
naggiori  ostacoli  alla  vendila  degli  immobili. 

III. 

Un  altro  quesito  s'impone  agli  istituti  di  credito,  oltre  quello  del 
)rogramma  di  operazioni  :  devono  cioè  limitare  la  loro  azione  diretta 
id  uno  o  a  pochissimi  centri  importanti  o  devono  estenderla  con  un 
:ran  numero  di  uffici   dipendenti  1 

Negli  altri  paesi  d'Europa  il  sistema  dell'espansione  va  ora  pre- 
valendo, sia  per  effetto  di  assorbimento  da  parte  di  istituti  maggiori  e 
legli  istituti  minori,  come  in  Inghilterra  e  in  Germania,  sia  per  irradia- 
;ione   dal  centro  politico,  finanziario  ed  economico  come   in  Francia. 

Ma  gli  esempi  della  Germania,  dell'Inghilterra  e  della  Francia 
nal  si  addicono  all'Italia.  In  Italia  è  scarsa  ancora  la  classe  dei  pie- 
oli  e  medi  capitalisti,  i  quali  coU'impiego  in  titoli  di  Stato  ed  indu- 
triali,  coli' acquisto  e  la  vendita  di  questi  titoli,  coU'impiego  dei 
oro  averi,  in  riporti  o  in  altre  forme  di  prestiti,  sanno  trarre  profitto 
[al  capitale;  manca  quindi  quella  larga  clientela  che  dà  tanto  alimento 
gl'istituti  francesi.  In  Francia  inoltre  il  movimento  finanziario  fa 
[nasi  esclusivamente  capo  ad  un  centro.  Paiigi.  e  la  clientela  di  pro- 
'incia  ha  quindi  bisogno  di  istituti  potenti  che  la  mettano  in  contatto 
liretto  col  mondo  parigino,  sia  per  l'impiego  del  denaro,  sia  per  la  riscos- 
ione  delle  rendite.  Ed  infine  in  Italia^  oltre  alcune  banche  di  credito 
irdinario  autonome,  che  esercitano  nelle  piccole  città  ove  hanno  .sede 
m'azione  preponderante  e  sono  giustamente  gelose  della  loro  auto- 
lomia,  esistono  le  moltissime  Banche  popolari  e  Casse  di  risparmio, 
mai  divenute  abbastanza  forti  per  meritare  la  fiducia  dei  cittadini 
he  le  hanno  viste  sorgere  e  prosperare,  organizzate  in  modo  da  poter 
oddisfare  ai  bisogni  della  clientela  locale  e  che  a  nessun  patto  con- 
entirebbero  ad  essere  assorbite  da  istituti  maggiori. 

Si  aggiunga  a  ciò  la  grandissima  difficoltà  di  trovare  un  personale 
datto  a  dirigere  tante  aziende,  le  quali  per  essere  strumenti  efficaci 
evono  avere  una  certa  libertà  di  azione.  La  nostra  coltura  tecnica,  specie 
legli  affari  di  banca,  è  ancoia  deficiente  ;  gli  istituti  maggiori  hanno 
ncora  troppo  breve  vita,  |)er  essersi  potuti  formare  un  numeroso 
lersonale  esperto  a  dirigere  con  la  larghezza  di  vedute  e  la  quantità 
i  cognizioni  oggi  necessarie.  È  questa  una  difficoltà  transitoria,  la 
uale  a  poco  a  poco  scomparirà,  specie  sei  capi  degl'istituti  andranno 
lersuadendosi,  come  in  gran  parte  mostrano  di  persuadersi,  che  a 
len  condurre  gli  affari  non  basta  piti  la  pratica  acquistata  in  molti 
nni  di  tirocinio  ma  occorre  un  corredo  di  cognizioni  teoriche  e  che, 
ome  per  dirigere  una  manifattura  occorre  avere  studiato  ingegneria 
ndustriale,  a  dirigere  un'azienda  commerciale  e  bancaria  occorre  avere 
tudiato  alcune  almeno  delle  discipline  economiche  ed  averne  seguito 
D  svolgimento  ed  il  progresso. 

Non  è  dunque  possibile  dare  in  Italia  ad  un  istituto  di  credito 
1  espansione  che  ha,  per  citare  un  esempio  tipico,  il  Crédit  Lijonnais 
a  Fiancia.  Però  non  è  d'altra  parte  completamente  da  escludersi  la 
reazione  di  succursali  che  possano  trovare  alimento  di  affari  e  rac- 
ogliere  abbondanti  depositi  di  denaro  in  alcune  città  dove  maggiore 
il  movimento  o  dove,  per  ragioni  speciali,  non  esistono  o  sono  ve- 
lute  a  mancare  buone  banche  locali. 

8  Voi.  evi,  Serie  TV  -  1°  luglio  1903. 


114  GM    ISTITUTI    ni   CRliDITO    IX    ITALIA 


IV. 

Le  considerazioni  che  siamo  andati  svolgendo  hanno  preso  li- 
mosse  dall'esame  delle  relazioni  presentate  alle  assemhlee  dei  no-  ri 
principali  istituti  di  credito.  Ma  sono  queste  relazioni,  e  i  bilanci  ;  !!■• 
esse  illustrano,  abbastanza  chiare,  abbastanza  complete  per  foiiiiie 
una  guida  veramente  sicura  a  giudicare  della  consistenza  patrimo- 
niale e  del  modo  di  operare  degli  istituti  stessi  -!  Malauguratamente  no, 
e  chi  non  abbia  modo  di  addentrarsi  nelle  complicate  aziende  scarso 
sussidio  può  trarre  dai  documenti  che  si  fanno  di  pubblica  ragione. 
Salvo  alcune  rare  eccezioni,  i  bilanci  e  i  conti  profitti  e  perdite  con- 
tengono poche  cifre  riassuntive  ed  i  quadri  statistici  sono  pochi  e 
poco  analitici. 

Conviene  riconoscere  che  l'ostacolo  maggiore  alla  chiarezza  dei 
bilanci  è  cagionata  dalle  leggi  fiscali  complicate,  gravose  e  applicate 
in  modo  da  fare  di  ogni  contribuente  un  presunto  colpevole,  di  ogni 
agente  finanziario  un  feroce  inquisitore.  Fu  più  volte  osservato  che 
mentre  il  privato  commerciante,  industriale,  professionista,  trova  il 
modo  di  pagare  le  tasse  in  misura  inferiore  al  dovuto,  le  società  ano- 
nime pagano  non  solo  tutto  quanto  è  dovuto,  ma  spesso  anche  piìi 
del  dovuto,  e  che  se  tutti  i  contribuenti  fossero  tassati  con  eguale 
giustizia,  l'aliquota  della  ricchezza  mobile  potrebbe  essere  diminuita. 
Da  ciò  deriva  che  gli  amministratori  delle  società  per  azioni  sono  co- 
stretti, nel  formulare  i  bilanci,  ad  aver  sempre  presenti  le  conseguenze 
che  da  essi  i)otrebbero  trarne  gli  agenti  fiscali,  ed  a  conciliare  il  ri- 
spetto alla  verità  colla  difesa  degli  interessi  loro  affidati,  non  per  sot- 
trarsi a  pagare  il  dovuto  ma  per  non  essere  costretti  a  pagare  più 
del  dovuto  o  almeno  a  sostenere  lunghe  e  fastidiose  controversie. 

Anche  la  cognizione  ancora  scarsa  da  parte  della  maggioranza  del 
pubblico  dei  congegni  bancari  e  la  diffidenza  creata  dagli  errori  e  dalle 
colpe  del  passato  rendono  difficile  la  compilazione  di  bilanci  chiari 
e  particolareggiati.  Un  nuovo  capitolo  aggiunto  nell'attivo  o  nel  pas- 
sivo con  l'onesto  intendimento  di  render  conto  più  preciso  agli  azio- 
nisti, dà  spesso  occasione  a  supposizioni  maligne,  ad  interpretazioni 
contrarie  alla  verità.  Quanti  erronei  aj)prezzamenti.  ad  esempio,  non  si 
fanno  sulle  cifre  dei  titoli  di  proprietà,  dei  riporti,  delle  partecipazioni, 
dei  corrispondenti?  Alcune  imperfezioni  si  po'rebbero  correggere,  alcune 
deficienze  si  potrebbero  colmare,  ma  scarso  effetto  se  ne  trarrà  fino  a 
quando  il  pubblico  non  abbia  acquistato  fiducia  nei  dirigenti  delle 
società  anonime.  Fiducia  che  essi  meriteranno  tanto  più,  quanto  più 
larghi  saranno  di  notizie  e  di  dati  statistici,  quanto  maggior  cura 
porranno  nel  dire  intera  la  verità. 

11  legislatore  nello  studio  delle  leggi  fiscali  e  del  codice  di  com- 
mercio no;i  dimentichi  questo  lato  del  problema,  non  crei  esso  stesso 
ostacoli  alla  sincera  e  completa  esposizione  degli  affari,  non  impedisca 
l'accumularsi  di  quelle  riserve  di  utili,  che  oggi  occorre  alcune  volte 
nascondere  per  non  vederle  falcidiate  dal  fisco,  senza  speranza  di  ria- 
vere le  tasse  pagate  se  disgraziati  avvenimenti  imponessero  di  valer- 
sene. Ed  alla  lor  volta  gli  azionisti  mostrino  di  far  maggiore  assegna- 
mento sul  valore  efTettivo  del  patrimonio  e  delle  azioni  che  sul  valore 
transitorio  attribuito  dalla  Borsa  e  consentano  che  non  tutti  gli  utili  del- 


(ìli    l^iTITUTI    DI    CREDITO    IN    ITALIA  115 

l'esercizio,  sinceramente  dichiarati,  vengano  distribuiti  in  dividendo, 
ma  che  parte  se  ne  serbi  per  gli  anni  meno  prosperi.  Ottimo  provve- 
dimento questo  seguito  dalle  società  inglesi  e  da  molte  francesi  e 
tedesche,  di  passare  tutti  i  profìtti  dell'esercizio  ad  un  fondo  dal  quale 
si  prelevano  i  dividendi,  conservando  così  sempre  nei  bilanci  una 
abbondante  scorta  tli  benefìzi  per  fronteggiare  gii  anni  meno  prosperi. 

V. 

In  questa  opera  di  riordinamento  e  di  consolidamento  del  credito 
quale  fu  l'azione  degli  istituti  di  emissione"?  Buona  ed  efficace  in  ge- 
nerale, malgrado  qualche  dubbiezza,  e  qualche  deficienza  dovuta,  più 
che  a  loro  colpa,  alla  situazione  nella  quale  essi  erano  posti. 

La  legge  del  1893  non  ha  dato  e  non  poteva  dare  agli  istituti  di 
emissione  la  forza  necessaria  in  quei  momenti  diffìcili.  Soltanto  la 
liquidazione  degli  antichi  istituti  e  la  creazione  di  un  unico  ente,  costi- 
tuito con  capitale  modesto  ma  nuovo  ed  interamente  liquido,  avrebbe 
consentito  di  disciplinare  la  circolazione  in  modo  da  corrispondere 
interamente  ai  fini  dell'economia  nazionale  ed  al  vantaggio  particolare 
deiristituto. 

Invece,  dei  tre  istituti  rimasti  qviello  che  per  essere  di  gran  lunga 
il  pili  potente  è  il  vero  regolatore  del  credito,  la  Banca  d'Italia,  si 
trovò  fin  da  principio  a  dover  cercare  l'equilibrio  tra  l'interesse  gene- 
rale ed  il  proprio.  Sorta  quasi  senza  capitale  reale  (poiché  le  perdite 
occulte  o  palesi  delle  così  dette  immohUizzasioni.  del  credito  fondiario, 
della  liquidazione  della  Banca  Romana  e  delle  operazioni  che  figura- 
vano ancora  nel  portafoglio  ordinario,  ma  che  erano  men  che  sicure, 
quasi  lo  pareggiavano),  premuta  dall'interesse  degli  azionisti  i  quali, 
cullati  da  ingannevoli  lusinghe,  imputando  allo  Stato  la  più  gran 
parte  delle  perdite,  pretendevano  di  aver  dividendi  eguali  o  quasi  a 
quelli  avuti  fino  allora,  legata  <la  ogni  parte  da  una  vigilanza  dello 
Stato  inspirata  dalla  profonda  sfiducia  che  giustificavano  gli  errori  e 
le  colpe  del  passato,  la  Banca  d'Italia,  avrebbe  dovuto  limitare  le  sue 
operazioni  negli  strettissimi  confini  segnati  dalla  legge  e  restringere 
la  circolazione,  diminuendo  così  la  fonte  dei  guadagni,  ma  nello  stesso 
tempo  avrebbe  dovuto  raccogliere  profitti  tanto  larghi  da  ricostituire 
il  suo  patrimonio  e  da  soddisfare  almeno  in  parte  ai  desideri  degli 
azionisti. 

Da  questa  antinomia  fra  i  doveri  che  incombono  ad  un  istituto 
di  emissione  (doveri  troppo  poco  compresi  dagli  azionisti)  e  l'interesse 
proprio,  difficoltà,  lotte,  incertezze,  che  ostacolarono  una  azione  pronta, 
efficace,  risanatrice.  Le  convenzioni  fra  la  Banca  e  Io  Sfato,  durante 
i  ministeri  degli  onorevoli  Sonnino  e  Luzzatfi,  portarono  in  parte  ri- 
medio a  questo  stato  di  cose,  permettendo  di  dare  un  sia  i)ur  modesto 
dividendo  agli  azionisti  (mentre  se  si  fossero  volute  strettamente  se- 
guire le  norme  del  codice  di  commercio  nessun  dividendo  avrebbe  potuto 
esser  dato  fino  a  completa  ricostituzione  del  patrimonio),  di  accrescere 
i  profitti,  e  di  assicurare  l'avvenire  dell'istituto  anche  dopo  la  scadenza 
dell'attuale  convenzione,  sia  perchè,  esercitando  l'istituto  stesso  il  ser- 
viziodi  tesoreria,  lo  Stato  è  interessato  alla  sua  conservazione,  sia  perchè 
la  proroga  è  promessa  come  un  premio  alla  fedele  osservanza  della  leo'oe. 
Ma  ciò  malgrado,  il  pericolo  che  deriva  dal  contrasto  fra  l'interesse 
pubblico  e  il  privato  non  fu  interamente  evitato,  né  è  quindi  cessata 


IKi  GLI   ISTITUTI   DI   CREDITO    IN"    ITALIA 

la  pressione  dej>:li  azionisti  perchè  la  Banca  dia  maggior  impulso  ali- 
operazioni  e,  uscendo  dalla  ristretta  cerchia  degli  affari  propri  ad  un 
istituto  di  emissione,  raccolga  in  un  campo  |)iù  vasto  benefici  più 
larghi.  Pi'essioni  alle  quali  tratto  tratto  si  aggiunge  quella  degli  opi'- 
ratori  di  borsa  e  di  alcuni  uomini  d'affari  che  nell'allargamento  dellii 
circolazione  vorrebbero  trovare  alimento  alla  speculazione. 

A  queste  pressioni  la  Banca  ha  saputo  quasi  sempre  resistere. 
Non  forse  sempre  ed  interamente:  qualche  anno  fa.  come  abbiamo 
accennato,  non  ebbe  la  forza  di  opporsi  come  avrebbe  dovuto  a  tentativi 
di  soverchia  espansione  negli  affari  di  credito  mobiliare  e  di  borsa  e 
stava  per  lasciarsi  trascinare  su  una  via  che  avrebbe  condotto  il  Paese 
e  la  Banca  stessa  sopra  un  terreno  pieno  di  pericoli.  Per  buona  sorte 
se  ne  ritrasse  a  tempo. 

Non  miglior  fortuna  ebbe  la  campagna  aperta  pii!i  tardi  per  modi- 
ficare la  legge  bancaria,  sopratutto  nei  rispetti  del  limite  della  circo- 
lazione. Si  diceva,  e  si  pretendeva  dimostrare,  che  i  limiti  fìssati  dalla 
legge  del  1893,  se  suftìcienti  in  condizioni  di  depressione  economica, 
divenivano  troppo  ristretti  ora  che  il  commercio  e  l'industria  avevano 
ripigliato  ardire  e  vigore,  e  si  accusava  Banca  e  Governo  di  non  voler 
favorire  la  restaurazione  economica  del  paese  negandogli  i  mezzi  di 
lavoro.  La  legge  non  fu  modificata,  i  limiti  della  circolazione  restarono 
gli  stessi,  eppure  non  solo  il  lavoro  sano  e  onesto  trovò  sempre  alimento 
nel  capitale  italiano  a  condizioni  eque,  ma,  assodato  il  credito  del 
paese,  scomparso  l'aggio  sull'oro  ed  assicurata  la  fiducia  verso  l'Italia, 
il  capitale  estero  si  offrì  abbondante  e  a  buon  mercato. 

Una  tale  situazione  non  deve  per  altro  far  credere  che  il  tempo 
abbia  cancellato  o  diminuito  i  difetti  della  legge  del  1893.  L'azione 
benefica,  ausiliatrice  e  moderatrice,  ad  un  tempo,  esercitata  dagli  isti- 
tuti di  emissione  è  dovuta  non  alla  legge,  ma  al  modo  con  cui  da 
qualche  anno  a  questa  parte  quegli  istituti  sono  guidati.  Le  ultime 
relazioni  del  direttore  generale  della  Banca  d'Italia  pongono  in  chiaro 
l'efficacia  dell'opera  sua,  ma  non  nascondono  la  difficoltà  contro  cui 
si  deve  dibattere  ancora  il  maggiore  istituto. 

Noi  non  crediamo,  come  abbiam  detto  più  sopra,  che  il  limite 
della  circolazione  debba  allargarsi,  ma  crediamo  possa  consentirsi  con 
le  debite  garanzie  una  maggiore  elasticità  ;  non  crediamo  che  si  debba 
permettere  agli  istituti  di  emissione  di  fare  operazioni  non  consentanee 
all'indole  loro,  ma  crediamo  che  una  maggiore  libeità,  in  quei  servizi 
che  non  importano  rìschio,  si  dovrebbe  pur  lasciare  e  che  per  alcune 
operazioni  si  dovrebbe  tollerare  maggiore  larghezza.  È  assurdo,  per 
citare  un  solo  esempio,  che  oggi  essendo  i  nostri  titoli  di  Stalo  e  le 
cartelle  fondiarie  al  di  sopra  della  pari  non  si  possano  fare  anticipa- 
zioni se  non  fino  ai  quattro  quinti  od  ai  ti'e  quarti  del  loro  valore; 
questa  limitazione  e  la  tassa  di  un  centesimo  al  giorno  per  mille  lire 
rendono  impossibile  l'anticipazione  presso  gli  istituti  di  emissione  e 
possono  costringere  in  determinate  contingenze  (e  si  è  visto  in  occasione 
dell'emissione  del  3  '  .,  per  cento)  a  sostituire  almeno  transitoriamente 
alla  forma  corretta  e  legale  delle  anticipazioni,  quella  meno  schietta 
della  sovvenzione  col  mezzo  delle  stanze  di  compensazione.  Strunìento 
questo  che  torna  oggi  utilissimo,  anzi  indispensabile  come  sovventore 
giornaliero,  ma  che  può  divenire,  sotto  amministrazioni  meno  rigide, 
pericoloso  ed  al  quale  converrebbe  quindi  poter  sostituire  con  eguali 
fini  e  con  eguali  mezzi  l'anticipazione  o  il  conto  corrente  garantito  da 
titoli  di  primo  ordine. 


GLI    ISTITUTI    DI    CREDITO    IN    ITALIA  117 

Ed  infine,  bandite  ormai  ie  diffidenze  che  lianno  inspirato  la  parte 
della  legge  del  1893  ritlettente  la  vigilanza,  si  dovrebbe  ricondurre 
l'ingerenza  del  Governo  neiraraniinistrazione  degli  istituti  di  emissione 
a  più  ristretti  e  giusti  contini:  impedire  che  la  sorveglianza  continui, 
come  è  ancora  oggi,  minuziosa  e  vessatoria,  inspirata  al  sospetto, 
pronta  a  cogliere  ìq  fallo  gli  istituti  per  i  minimi  atti,  tale  da  sovrap- 
porsi alcune  volte  non  solo  ai  direttori  degli  istituti  ma  ai  più  alti 
funzionari  dello  Stato  ed  agli  stessi  ministri  ;  un  vero  comitato  insomma 
di  salute  pubblica,  un  tribù uale  dei  sospetti,  una  inquisizione,  senza 
ghigliottina  e  senza  roghi,  ma  armata  di  leggi,  di  regolamenti,  di  de- 
creti, pronta  a  lanciare  ad  ogni  minimo  dubbio  eserciti  formidabili 
di  note  e  di  divieti. 

Gli  uomini,  è  vero,  possono  mutare,  gli  istituti  di  emissione  pos- 
sono, è  vero,  cadere  nell'avvenire  in  mani  meno  sicure  di  quelle  che 
oggi  li  governano,  ma  ormai  il  Paese,  il  Parlamento,  il  Governo  hanno 
compreso  quali  siano  i  doveri  dei  banchi  di  emissione,  ed  assai  diffì- 
cile sarebbe  il  ripetersi  degli  errori  passati.  Una  maggior  libertà  di 
movimenti  è  necessaria,  pur  serbando  ai  poteri  dello  Stato  un'azione 
integratrice  e  sorveghatrice  :  che  se  gli  uomini  mutassero  o  venissero 
meno  alle  regole  della  prudenza,  l'opinione  i)ubblica  prima,  lo  Stato 
poi  (grazie  anche  al  sistema,  che  dev'essere  mantenuto,  delle  inchieste 
triennali)  saprebbero  sempre  ricondurre  o  col  consiglio,  od  occor- 
rendo anche  coi  provvedimenti  legislativi,  gli  istituti  all'osservanza 
dei  loro  doveri. 

I  banchi  di  emissione  potranno  esercitare  sull'ordinamento  eco- 
nomico del  Paese  l'azione  regolatrice  e  moderatrice  che  loro  compete 
con  tanta  maggiore  efficacia,  quanto  più  liberi  essi  saranno  dai  legami 
che  oggi  ne  imiiediscono  i  movimenti  e  che  in  ogni  modo  distolgono 
spesso  l'opera  e  l'ingegno  di  chi  li  dirige  dai  più  elevati  problemi,  per 
immiserirli  in  minute  polemiche,  e,  col  considerarli  quasi  dei  pupilli  o 
degli  imputati,  tolgono  ad  essi  prestigio  ed  autorità. 

Aiireus. 


IL  PROFESSORE  KOERBITZ 


Ricordatevene;  avrete  pur  dovuto  incoiitrailo  qualelie  volta,  nelle 
ore  del  vespero,  lungo  la  via  Nazionale,  al  Macao,  su  pe'  Quartieri 
Ludovisi. 

Sono  i  siti  ov'egli  jìasseggia  di  preferenza. 

Anche  gli  osservatori  meno  superfleiali,  a  prima  vista,  lian  da 
concepire  di  lui  la  migliore  opinione. 

Alto,  corpulento,  dall'incesso  maestoso;  col  magnifico  cappello  a 
stajo  a  larghe  tese,  un  po'  indietro,  affinchè  la  bella  fronte;  gli  si  veda 
tutta;  gii  scintillanti  occhiali  d'oro  sul  naso  aquilino;  l'alta  soddi- 
sfazione personale  impressa  nella  bella  faccia  quadra,  ornata  dalla  ma- 
gnifica barba,  che  gli  scende  fin  sull'ampio  torace  sporgente;  la  zazzera 
inanellata,  da  dio  Odino,  spiovente  sulle  spalle  erculee  ;  piena  di  dolce 
austeiità  la  fisonomia,  come  di  solennità  tutta  la  persona,  degiiaiiiente 
modellata  dallo  stiffellio  autoritario. 

È  un  principe  oltramontano"?  un  addetto  a  qualche  ambasciata? 
lina  personalità  esoticav  un  letterato  slavo"?  un  drammaturgo  scandi- 
navo"? un  poeta  sassone,  o  semplicemente  un  qualunque  miliardario 
a  piedi? 

Certo,  voi  potete  scambiarlo  per  uno  di  questi,  o  per  tanti  altri 
simili  semi-dei;  ne  avete  il  diritto:  il  suo  fisico  e  la  frequenza  dei 
forestieri  d'alto  bordo,  nella  capitale  d'Italia,  può  farvi  cadere  in 
errore. 

E  quale  errore!... 

Colui  è  semplicemente  un  maestro  privato  di  lingua  tedesca,  a 
trenta  soldi  l'ora,  il  professore  Waldemaro  Koerbitz. 

Da  anni,  egli  vive  a  Roma;  vive  solo,  più  per  timidezza  che  per 
tendenza  alla  misantropia. 

Timidezza:  e  come  no"?  combattetela,  se  siete  bravi;  cercate  di 
non  lasciaivi  sopraffare,  dopo  certe  grottesche  vicissitudini  della  vita, 
dalla  triste  scontrosità  che  tien  dietro  alle  sventure  domestiche"?... 

Dato  il  caso  occorso  al  professore  Koerbitz.  delle  due  l'una,  o  si 
diventa  spudorati,  o  timidi. 

Più  naturale  la  seconda  cosa. 

La  fatalità,  pel  povero  Waldemaro,  tu  la  sua  passione  per  l'Italia. 
Oh,  rttalia  non  gli  portò  proprio  fortuna!... 

Quando  non  si  crede  al  contagio!  Da  giovane,  nel  suo  ])aese, 
ebbe  per  maestro  un   innamorato    dell'Italia,  dell'arte   italiana,    della 


IL    PROFESSORE   KOERBITZ  119 

vita  nel  mezzogiorno  del  nostro  bel  paese,  e,  per  amico,  il  figlio  di 
uno  squilibrato  inventore  siciliano,  il  quale,  dopo  lungbe  peregrina- 
zioni, era  andato  a  morire  colà.  Quel  suo  primo  amico  soffriva  di  qo- 
stalgìa,  e  Waldemaro  fini  per  soffrir  dello  stesso  malore,  peggio  che 
se  fosse  nato  quaggiù. 

Una  bella  mattina,  pianta  Stoccarda,  gli  onesti  bottegai  che  gli 
avevano  data  la  vita,  e,  via  pel  Brennero,  in    Italia. 

Aveva  poco  più  di  vent'anni,  quando,  fuori  di  sé  dalfeutusiasmo 
per  Roma,  decise  di  finirvi  i  suoi  giorni. 

Andava  per  le  vie,  respirando  a  pieci  polmoni,  palpitando  nella 
soddisfazione  di  quA  suo  immenso  desiderio,  di  quel  sogno  di  luce, 
d'aria,  di  tripudio,  realizzato.  Passava  giornate  intere  a  Villa  Borghese, 
al  Pincio,  a  Mila  Pamphily,  a  Monte  Mario,  componendo,  dentro  di 
sé,  odi,  canzoni,  elegie,  e  dimenticando  di  mangiare.  Sì,  qualche  volta 
entrava  nella  prima  bettola  che  trovasse  sulla  sua  via,  per  mandar 
giù,  alla  svelta,  una  dozzina  di  pagnottelle  gravide,  con  un  litro  di 
vino... 

Amava  Roma;  ma  più  che  FArte,  le  memorie  gloriose,  amava  il 
limpido  color  turchino  del  cielo  latino,  il  tiepido  .sole,  l'aria  vagamente 
piofumata  de"  colli.  Amava  Roma  tanto,  da  dimenticar  che  la  Germa- 
nia, che  il  resto  del  mondo  esistes.sero  ancora:  e  tale  «  colpa  »  gii  valse 
l'addio  esti'emo  de'  suoi,  in  una  lettela  che  Waldemaro  non  terminò 
nemmeno  di  leggere. 

Amava  Ronia,  tanto  che  fini  per  dare  il  propiio  nome  alla  figlia 
della  sua  «  padrona  di  casa  »  ;  la  quale,  una  notte,  aveva  scambiata 
la  propria  camera  con  quella  di  Waldemaro  :  e  poiché  il  gruzzolo  che 
s'era  portato  da  casa  stava  per  esaurirsi.  ^Valdemaro,  a  sua  volta, 
scambiò  Lalletta  per  la  provvidenza,  quindi,  il  matrimonio.  Altro  che 
provvidenza!...  Una  mattina,  nel  rincasare,  trova...  un  secondo  equi- 
voco di  Lalletta:  aveva  «  equivocato»  con  un  altro. 

Coljnto  in  pieno  petto,  Waldemaro  fuggì  via  come  un  disperato; 
ed  i  Monti  Albani  furon  testimoni  delle  sue  lagrime,  de'  suoi  lamenti, 
de'  suoi  sospiri. 

Quindici  giorni  dopo,  risoluto  a  togliere  dal  mondo  l'indegna  si- 
gnora Koerbitz,  torna  a  casa,  e  vi  trova  soltanto  la  suocera,  nuotante 
in  un  mare  di  lagrime  : 

—  Qua'  poera  cratura  s'è  annata  a  hiittù  a  finme'.... 

Waldemaro,  stupefatto  dallo  spavento,  aspetta  la  scoperta  del  ca- 
davere: e,  due  giorni  appresso,  arriva  una  lettera  da  Livorno:  Ma- 
dama Koerbitz  dichiarava  che  il  proprio  carattere  non  andando  d'ac- 
cordo con  quello  del  «  tomo  »  cui  apparteneva,  aveva  voluto  provare 
l'altro  polo  dell'antitesi,  ond'era  scap])ata  da  Roma  con  un  canzonet- 
tista francese. 

—  Fio!  non  me  l'ammazza'....  -  strillava  la  madre,  ai  ginocchi  del 
genero:  mentre  costui  pensava  a  ben  altro. 

Pensava,  nel  primo  avvilimento,  il  povero  Waldemaro.  che  i  ca- 
daveri non  ammazzano,  e  poiché  tale  sentiva  che  lo  aveva  reso  quella 
disgraziata,  egli,  nonché  lei,  avrebbe  dimenticato  financo  d'esser  mai 
esistito  al  mondo  egli  stesso  ! 

Cosi  fece,  piantò  la  vecchia  ;  cambiò  camera,  andò  a  depositare 
orologio,  spillo,  anello  nella  pia  istituzione  per  gli  spostati,  e  fece  an- 
nunziar nel  Messaggero  che  il  professore  Waldemaro  Koerbitz,  da 
Stuttgard,  dava  lezioni  di  lingua  tedesca  a  trenta  soldi  l'ora. 


120  IL    PROFESSORE   KOERBITZ 

Il  sipario  era  calalo  sulla  sua  vita  ;  a  tutto  rinunzia  va,  meno  alla 
sua  fatale  Italia,  a  Roma  :  d'ora  innanzi,  al  lutto  del  proprio  cuore, 
avrebbe  fatto  contrasto  il  sole  eterno  del  bel  paese.  Dal  contrasto, 
l'unica  consolazione,  povero  VValdemaro  ! 

E  gli  scolari  vennero  :  una  dozzina,  che  gli  permisero  di  vivac- 
chiare meschinamente  ;  né  mai  gli  mancarono  :  diavolo  !  chi  poteva 
fargli  concorrenza,  col  modesto  emolumento  del  quale  si  contentava? 


Nella  monotonia  della  sua  nuova  esistenza,  l'anima  aveva  fatto 
presto  ad  invecchiare.  Appagata  quella  sua  ardente  smania  giovanile, 
il  fuoco  degli  anni  migliori  s'era  smorzato,  e.  in  essa,  pareva  gli  si 
fosse  esaurita  ogni  energia. 

Non  vedeva  più  nessuno;  sfuggiva  specialmente  le  poche  conoscenze 
che  aveva  fatto  a  Roma,  ne'  primi  tempi.  Una  preoccupazione  lo  per- 
seguitava :  che  qualcuno  (v'han  tanti  indiscreti  che  si  tingono  inge- 
nui !)  non  gli  dicesse  : 

—  Professore,  jersera,  al  Caffè-concerto  Margherita,  abbiamo  ap- 
plaudito freneticamente  la  vostra  signora  ! 

A  poco  a  poco,  Waldemaro  era  riuscito  a  farsi  dimenticare  da 
tutti;  a  sparire.  L'apatica  quiete  della  sua  solitudine  gli  assorbiva 
l'esistenza. 

La  mattina  era  con  gli  scolari. 

Venivano  Tun  dietro  l'altro,  quelli  del  primo  corso:  sedevano  intorno 
ad  una  larga  tavola,  nella  stanza  che  gli  serviva  anche  per  ricevere 
e  per  desinare  ;  e  avanti  :  «  lei)  hin  -  Du  List  -  Er  ist  -  \\  ir  shid  -  Ihr 
seid  -  Sie  shid  ».  E  questo,  per  due  ore  di  seguito. 

Poi,  la  zuppa  flaccida,  il  lesso  sciapito.  la  montagna  di  patate  ed 
il  boccale  di  birra  romana,  acidula. 

Dopo  il  sonnellino  del  pomeriggio,  arrivavano  gli  scolari  del  se- 
condo corso. 

La  sera,  usciva  a  prendere  una  boccata  d'aria,  a  fare  un  po'  di 
moto,  in  vie  lontane  dal  centro:  e  talvolta  andava  a  leggere  qualche 
giornale  in  uno  de"  caffè  meno  frequentati,  ed  a  casa,  per  ricominciar 
l'indomani  la  stessa  vita,  per  riveder  le  stesse  facce,  gli  stessi  sco- 
lari :  giovani,  per  lo  più,  destinati  al  commercio  :  solleciti,  rispettosi, 
avidi  di  saper  presto  scrivere  una  lettera  e  dir  quattro  parole  nella 
lingua  di  Schiller. 

Non  c'era  da  scambiar  nemmeno  un'idea  con  quella  gioventù  ta- 
pina, la  quale  poteva  appena  pagargli  i  soldi  delle  lezioni. 

Bravi  ragazzi,  nondimeno,  che  sapevano  dir  tanto  bene  del  pro- 
fessore attorno,  da  non  fargli  mancar  mai  nuove  lezioni. 

Unica  vanità  del  buon  Waldemaro  era  il  comparir,  per  le  vie,  nella 
signorile  decenza  di  persona  rispettabile,  a  seconda  del  grado  sociale 
che  gli  spettava  :  negli  abiti  degli  insegnanti,  di  tutte  le  persone  serie 
del  suo  paese. 

E  una  cura  minuziosa,  amorosa,  per  la  propria  persona,  per  la 
toletta  :  si  capisce,  non  aveva  da  pensale  ad  altro  ! 

Bisognava  vederlo,  la  sera,  prima  di  andare  a  letto  spazzolarsi  il 
soprabito,  i  calzoni,  la  giubba,  lucidarsi  le  larghe  scarpe,  lisciarsi  te- 


IL    PROFESSORE    KOERBITZ  l!21 

eramente  la  tuba  ;  e,  a  prim'ora,  al  bagno  salutare  nella  conca,  ove 
iguazzava  beato,  lavorandosi  di  spugna  per  tutto  il  corpo. 

Finalmente  la  tazza  di    tè,  la  grossa   pipa  di    porcellana  ;  poi  : 

—  Professore,  sono  di  là  -  veniva  ad  avvertirlo  la  padrona  di  casa. 

—  Gruten  Morgen,  meine  Kinder! 
Principiava  la  lezione. 

Cosi,  tìn  presso  alla  quarantina. 

D'allora,  le  sue  veccbie  preoccupazioni  andarono  abbandonandolo: 
rano  anni  che  nessuno  de'  rari  superstiti  tra  le  sue  antiche  cono- 
cenze,  incontrandolo,  lo  ravvisasse.  I  suoi  scolari  gli  raccontavano 
he  i  quartieri  nuovi  della  Roma  alta,  tra  il  colle  Esquilino  ed  il  Qui- 
inale,  si  facevano  sempre  più  belli  :  perchè  non  allargherebbe  egli  il 
ircuito  delle  sue  passeggiate  vespertine  '? 

Una  sera,  invece  di  andarsene  a  giionzare  lungo  quel  malinconico 
Taccio  di  Via  Cavour,  da  Santa  Maria  Maggiore  al  Foro  Romano,  come 
i  solito,  quando  usciva  dalla  sozza  stradetta  degli  Zingari,  ove  di- 
lorava,  salì  un  po'  più  su,  verso  la  stazione  ;  di  là,  giunse  al  Macao, 
irò  per  Castro  Pretorio,  arrivò  a  Porta  Pia,  svoltò  pel  Corso  d'Italia, 
rimase  estatico  davanti  alla  magnificenza  dei  Quartieri  Ludovisì. 

Vi  mancava  da  anni  ;  li  aveva  lasciati  cosi  che  parevano  una  de- 
olata  pianura,  irta  di  «  ruderi  moderni  »,  e  li  ritrovava  irriconosci- 
ili  :  tagliati  da  belle  vie  regolari,  spiranti  la  signorilità,  fiancheggiati 
a  vaghi  villini,  da  svelte  palazzine,  disegnate  con  simpatica  bizzarria, 
ircondate  da  piccole  a.juole,  vagamente  screziate  di  fiori,  di  fontanine, 
i  statue  ;  e,  di  tratto  in  tratto,  alberghi  sontuosi,  pensioni  eleganti. 
u  tutto  ciò,  sorrideva  il  più  bel  cielo  del  mondo. 

Colassù,  si  respirava  ogni  benessere  dell'esistenza  ! 

Pochi  minuti  in  quella  delizia  di  città  nuova  bastarono  perchè 
^'^aldemaro  si  sentisse  tornato  come  da  morte  a  vita. 

Quella  sera  doveva  segnare  un'epoca  per  lui.  Dopo  l'intorpidimento 
urato  oltre  quindici  anni,  egli  si  ridestava  e  si  accorgeva  di  quelli 
he  gli  vivevano  intorno,  assai  meglio  del  modo  com'egli  vivesse. 

Tutte  quelle  palazzine,  que'villini,  la  sfilata  delle  carrozze  eleganti, 
i  corsa  vertiginosa  degli  automobili;  tutti  qiie'signori  che  prendevano 
fresco  davanti  ai  caifè,  alle  birrarie,  alle  trattorie,  confortandosi  con 
none  bottiglie;  ma  specialmente  quegli  alberghi  per  gli  oltramontani 
'alto  bordo,  quelle  pensioni  pe' forestieri  ricchi  (li  vedeva  aggrupparsi 
avanti  ai  magnifici  vestiboli)  gli  parlavano  alla  fantasia  un  linguaggio- 
uovo,  che  egli  traduceva  pel  Lazare,  veni  foras! 

La  vita  dello  spirito,  con  tutti  i  bollori  della  poesia  giovanile, 
ramai  era  tramontata;  e,  adesso,  quasi  d'un  subito,  si  sentiva  spri- 
ionar  dentro  tutta  una  falange  di  desideri  inaspettati;  i  quali,  presto 
tardi,  sarebbero  diventati  bisogni,  e  Io  avrebbero  fatto  sofirire  ben 
iversamente  dall'ardente  aspirazione  sui  A'ent'anni,  a  Stuttgard  :  gli 
vrebbero  intlitto  il  martirio  d'ogni  ora,  d'ogni  momento. 

E  gli  parve  tanto  strana  l'occasione  di  quel  suo  risveglio,  che 
srvì  come  da  punto  di  partenza  a  quanto  aveva  concepito  di  poi. 
i'^aldemaro  si  era  fermato  dietro  allo  «  Schweitzerhoff  »  di  Via  Veneto, 
ella  piccola  via  Liguria,  ad  osservar  giù,  nel  sottosuolo  di  quell'al- 
ergo,  l'aftàccenda mento  nelle  cucine:  vaste,  pulite,  lucenti,  come 
5mpi  evangelici,  e  fragranti,  poi!...  Ecco,  ecco,  proprio  l'inebriante 
'agranza  del  pranzo  sontuoso  che  apparecchiavano  laggiù,  gli  era 
alita  alla  testa,  gli  aveva  messo  dentro  come  un'anima   nuova,  sle- 


l!22  IL    PROFESSORE    KOERBITZ 

gandogli  le  ali  della  fantasia,  intorpidita  dalla  lunga  vita  grigia  che 
aveva  menato,  ridestandogli  lo  stomaco,  atrotìzzato  da  quelle  eterne 
minestre  flaccide,  dagli  immutabili  lessi  sciapiti,  dalla  crudele  birra 
acetosa. 

Inconcepibile!...  l'odore  delle  sfogliantine  à  ht  fiìiaucière,  che 
stavano  sfornando  laggiù,  gli  aveva  fatto  tornare  alla  mente  la  sua 
infanzia:  tutfuna  sorprendente  visione...  Come  al  solito  «  Wald  »,  uscito 
di  scuola,  correva  dal  pasticciere,  volava  alla  gioia  de'  pasticcini  caldi 
caldi,  ripieni  di  carne,  di  tartufi,  di  fegato  grasso  sti-asburghese  e  d'altre 
delicatezze  !  Ecco,  sentendo  lo  stesso  odore,  il  professore  Koerbitz  era 
tornato  il  piccolo  «  Wald  ». 

E  il  poveraccio  pensava,  poi,  amaramente: 

—  «  Non  mi  avevano  ancora  parlato  dell'  Italia,  in  quel  tempo!...  » 
Quando  quella  sera  fu  a  casa,  invece  di  risentirsi  del  piacere  che 

tutti  i  sensi  pareva  avessero  aspirato,  il  professore  Koerbitz  era  pieno 
d'uggia,  d'impazienza,  di  scontento;  e  non  capiva  che  tutto  ciò  gli 
venisse  da  una  subita  ribellione  all'esistenza  da  tal|ia,  durata  fino 
allora. 

Nonj)ertanto,  messosi  a  fumare  nella  grossa  pipa  di  porcellana, 
seduto  al  balconcino  che  rispondeva  in  un  vicolo  buio,  Waldemaro  si 
abbandonò  alle  più  affliggenti  resipiscenze. 

—  «  Povero  imbecille  !...  -  pensava  -  a  che  mai  f  ha  menato  l'ubria- 
catura, il  malanno  nella  tua  prima  giovinezza?  A  durare  nella  più 
umile  tra  le  esistenze,  che  oramai  non  si  cangerà...  oh,  questa  è  cosa 
certa  !  Bella  piospettiva,  se  cosi  ! 

«  Ma  di',  ]irofessore  mio?  era  quella  la  maniera  di  soddisfar  la 
tua  passione  |)er  la  terra  wo  die  Citronen  hWin''.  1  poeti  tedesclii, 
gli  storici,  i  filosofi,  ed  anche  i  bottegai  tuoi  connazionali,  vengono 
qui  a  dimorare  per  qualche  tempo:  gli  uni  si  pigliano  un  bagno  di 
classicismo,  di  archeologia,  di  estetica;  gli  altri  vi  fanno  una  provvista 
di  luce,  d'ai  ia.  di  calore,  di  delizie  naturali,  e  poi  se  ne  tornano  a  casa... 
Ma  -  un  momento!  -  come  vengono  essi  in  Italia,  i  tuoi  connazionali?... 
con  la  scarsella  gonfia  di  fiorini,  di  marchi,  per  sentire,  per  saggiare, 
con  le  bellezze  dell'arte  e  della  natura,  anche  le  altre,  che  confortano 
l'esistenza  negli  alberghi  di  prim'ordine.  Persuaditene,  i  tuoi  conna- 
zionali vengono  ad  ammirare  comodamente  la  patria  di  Dante,  di  Ma- 
chiavelli, di  Michelangelo:  essi,  prima  di  dedicar.'^i  alla  via-crucis 
dei  musei,  al  calvario  de'  ruderi  e  dei  panorami,  fanno  semplicemente 
colezione  (e  che  colezione!);  prima  di  passar  la  serata  ne' teatii,  a 
russare  in  cadenza  della  vecchia  musica  italiana,  trascorrono  lunghe 
ore  alla  tavola  rotonda  -  da  veri  paladini  della  forchetta!  -;  insomma, 
i  tuoi  connazionali,  al  poetico  purgatorio  deirainmiiazione.  fan  prece- 
dere il  prosaico  paradiso  della  buona  mensa. 

«  Ecco  come  avresti  dovuto  fare  anche  tu,  niein  armen  Freiind! 
Prima  il  covo  a  casa  tua.  metter  da  ])arte  il  superfluo,  e,  col  superfluo, 
soddisfar  comodamente  il  tuo  idrofobo  entusiasmo  per  l'Italia. 

«  Che.  forse,  Goethe  fece  diversamente,  lui?...  e  tutti  gli  altii 
famosi  della  Germania,  non  fecero  altrettanto? 

«  Vuoi  te  lo  dica,  in  questo  momento  di  sincerità?...  A  te.  la 
saviezza  è  venuta  do])o  i  quarant'anui:  questo,  il  guaio! 

«  Adesso,  che  vuoi  f'aici  più?...  a  Stuttgard  i  tuoi  se  ne  saranno 
andati  tutti  all'altro  mondo,  e  fin  gli  amici  avran  dovuto,  da  un  pezzo, 
■dimenticare  quel  matto  di  Wald  ! 


IL   PROFESSORE    KOERBITZ  123 

«  Protessore  mio,  non  si  può  tornare  indietro;  troppa  premurati 
ésti  di  bruciar  le  tue  navi  :  resta,  dunque,  a  far  la  fine  delle  cicale, 
ella  tua  bella  Italia!...» 

Questa  conclusione,  o  il  fumo  della  sua  pipa  negli  occhi,  gli  pro- 
ocarono  una  lagrima  dolorosa. 

Sul  fatto,  prese  un'eroica  risoluzione:  spense  la  pipa,  e  se  ne  andò 
letto. 


in. 


Sì,  ma  il  di  appresso,  non  seppe  trovar  la  forza  di  prendere 
n'altra  risoluzione:  dimenticare  quanto  aveva  visto,  provato,  il  giorno 
recedente,  e  tornare  all'esistenza  solita,  senza  pensar  più.  Niente!...  e, 
oichè  un  suo  scolaro  (caso  unico  più  clie  raro)  gli  aveva  regalato  un 
Manilla  »  da  venticinque  centesimi,  il  professore  Koerbitz  andò  a 
limarselo  sui  Quartieri  Ludovisi. 

Colassù,  quell'aria  del  lusso,  de'  milioni,  delle  mollezze  che  circon- 
ano  i  privilegiati,  resuscitò  la  sua  fantasia,  meglio  ancora  del  giorno 
irecedente. 

Mentre  accendeva  il  «  Manilla  »,  ecco  un  hrenck  venire  a  corsa 
frenata  e  fermarsi  dn  vanti  al  Savoy  Hotel.  Era  un'allegra  comitiva 
sotica,  coperta  di  polvere,  reduce  da  qualche  scampagnata.  Q)uei  gran 
ignori  aiutavano  chiassosamente  le  dame  a  scendere,  mentre,  dall'al- 
lergo,  venivano  a  riceverli  due  statuarii  camerieri:  i  quali,  cavati 
uori  dall'  interno  della  carrozza,  un  cestone  vuoto  ed  una  paniera  che 
,veva  dovuto  contenere  la  provvista  dei  vini  di  lusso,  rientravano 
iella  casa  dietro  alla  comitiva;  ed  il  breack  si  allontanò. 

Osservando  la  scena.  Waldemaro  tirava  lunghe  boccate  di  fumo 
lai  sigaro;  e  (curioso!)  quell'elegante  profumo,  per  un  momento,  gli 
liè  così  chiara  l' illusione  di  aver  fatto  parte  della  comitiva,  che  si 
orprese  a  gridare  all'albergo  : 

—  Aiif  ìviedersehen'... 

Quando  la  sera,  seguente,  ripreso  dalTavidità  di  rivedere  e  di  ri- 
entire  la  bella  vita  degli  altri,  il  professore  usci  di  casa  per  dedi- 
arsi  ad  una  passeggiata  lungo  via  Nazionale,  ebbe  un'idea  :  entrare 
n  una  spaccio  di  .sigari,  e  chiedere  un  «  Manilla  »  ;  cosi  fece. 

L'accese,  ne  aspirò  forte  il  fumo,  poi  si  squadrò,  con  un  immenso 
ospiro  di  soddisfazione  :  il  miliardario  della  sera  precedente  gli  era 
ornato  dentro. 

Prese  a  passeggiare  con  un  beato  sussiego  :  la  testa  g'^ttata  in- 
lietro,  le  falde  dello  sfiffellio  al  vento,  il  sorriso  di  sovrumano  piacere 
legli  occhi. 

Si  sentiva  come  se  avesse  tracannato  una  l)uona  bottiglia  del- 
'eccellente  «  Kirscbwasser  »  dei  suoi  vent'anni. 

Difatti,  passando  d'avanti  all'Albergo  del  Quirinale,  si  sentì  spinto 
id  entrare  nel  gran  vestibolo  :  muto,  silenzioso,  discreto. 

Il  portiere,  dalla  marsina  sopraccarica  d'oro,  gli  mosse  incontro. 
!ol  berretto  gallonato  in  mano,  per  aspettar  gli  ordini. 

Waldemaro  usci  da  un  naturale  momento  di  confusione,  per  do- 
nandargli,  alteramente  : 

—  Ist  der  Pfinz  von  Schtvartzenberg  schon  yekunimen?.. 


124  IL    PROFESSORE   KOERBITZ 

—  Nein,  mein  Herr,  tvir  haben  keinen  Prinzen  von  Schìvart::i'ii~ 
berg  hier. 

—  Ich  clanke  Ihnen,  aher  er  schnell  kommen  wird  -  rispose  il 
professore,  ed  uscì  come  volando  sulle  nuvole,  maestosamente. 

Poco  appresso,  egli  si  scosse,  e  rimase  estatico  di  fronte  a  qin! 
grosso  mascalzone  di  marmo,  col  quale  lo  scultore  cremonese  volle 
ditfamare  il  Condottiero  degli  El)rei,  sulla  fontana  di  Piazza  San  Ber- 
nardo. 

—  «Oh,  che  mai  aveva  egli  fatto?!  E  chi  era  ipiel  Principe  della 
Montagna  Nera,  di  cui  aveva  chiesto,  poc'anzi,  all'Hotel  Quirinale  .'... 
Ma  che  ammattiva  egli,  forse  ?  » 

No,  Waldemaro  era  entrato  così  bene  nell'altro  personaggio,  tla 
andare  a  chiedere  d'un  nobilissimo  teutono  della  sua  imaginazioni', 
in  uno  de'  primi  alberghi  di  Roma,  annunziandone,  poi,  l'immineiih 
arrivo!...  Ma  e  che  perciò?  Egli  era  tanto  felice!...  egli  si  sentiva 
una  così  schietta  giocondità  addosso!... 

Non  si  die,  quindi,  la  pena  di  spiegarsi  niente;  mentre,  sceso  per 
Santa  Susanna,  risalÌA'a  ai  Quartieri  Ludovisi. 

Andò  a  fermarsi  a  Via  Liguria. 

Quando  giunse  dietro  allo  Schweitzerhoff  :  , 

—  Ci  siamo!  -  esclamò,  nel  risentire  l'odore  delle  cucine.  1 
Che  concerto  di  vertiginose  esalazioni  !...  Alla  fragranza  del  pescea 

in  casseruola  (doveva  essere  un  dentice,  non  s'ingannava),  si  univa 
quella  dell'arrosto  allo  sj^iedo  (eccolo  laggiù,  a  sinistra,  girante  sulla^ 
bragia,  come  sur  un  letto  di  rubini);  al  profumo  dei  brodetti  e  delle 
salse,  si  mischiava  il  forte  odore  de'  pasticci  al  forno  :  cento  vivande 
delicate  formavano  una  sinfonia  degna  d'un  Beethoven  gistrononio. 
alla  quale  facevan  da  «  dominante  »  le  inebrianti  emanazioni  de'  piii 
famosi  vini  da  ]iasfo.  che  i  camerieri  imbottigliavano  nella  vicina  di- 
spensa. 

D'un  subito,  le  finestre  al  piimo  piano  sulle  cucine,  furono  avvam- 
pate di  luce  elettrica,  e,  contemporaneamente,  un  giocondo  scampa- 
nellare risonò  dall'interno  :  la  campana  dell'albero  chiamava  i  fore- 
stieri alla  tavola  rotonda. 

Addossato  ad  un  fanale  di  rimpetto.  Waldemaro  chiuse  gli  occhi, 
e  ci  si  trovo  anch'egli  nel  tepore  fragrante  del  salone  sontuoso;  seduto 
intorno  alla  lunga  tavola,  scintillante  pei  cristalli,  pei  vasellami,  pei 
trionfi,  per  le  fioriere,  per  le  dolciere  dorate,  per  gli  scaldavivande 
d'argento,  per  la  tersa  porcellana,  sulla  candidezza  della  tovaglia 
istoriata. 

Gli  girava  la  testa  :  lì  dentro,  la  sinfonia  delle  fragranze  era  ben 
più  inebriante  d'un  momento  fa  1... 

—  Pardon,  Moìisieiir.  me   dontieriez-voiis  evcore  de  la  sauce? 

—  Certame»ie>ìf..  Madame  -  ed  aveva  servita  quella  gran  dama, 
russa  probabilmente,  carica  di  brillanti,  di  merletti  e  di  languore. 

—  Bitte,  die   Wasserfìasche  ? 

—  Geviss  -  ed  aveva  versata  l'acqua  al  rotondo  signore  che  gliene 
aveva  chiesta  la  bottiglia. 

—  Zn  gate,  mein  Herr! 

Intorno,  i  camerieri  superbi  nelle  eleganti  marsine,  officiavano  in 
quell'atmosfera  ove  si  respirava  la  gran  vita  del  lusso,  e  le  sterline 
jiareva  fiammeggiassero  per  terra  ;  tra  l'acciottolio  dei  piatti,  il  tin- 
tinnar dei   cristalli  e  l'eco  lontana  dei  campanelli  elettrici. 


IL    PROFESSORE   KOERBITZ  125 

—  Encore  do  la  timballe  aux  macaroni,  s' il  vous  plait? 

Il  cameriere,  che  aveva  in  custodia  lui  ed  i  suoi  due  compagni  che 
li  sedevano  affianco  si  era  avvicinalo  per  servirlo,  mentre  il  dispen- 
ere,  con  due  pretensiose  boltigUe,  avvoltolate  per  metà  nei  tovaglioli, 
li  domandava  neirorecchio,  quasi  gli  chiedesse  la  rivelazione  d'un 
;greto  di  Stato  : 

—  Dii  Saiiterne,  oh  bien  da  Chahly,  Monsieitr  ?... 

—  Verses  dìi  Saiiterne. 
«  Ah  !...  delizioso  !...  » 

Ed  aveva  riaperto  gli  occhi. 
«  Follie  !  !  !  » 

Era  scesa  la  sera.  Intorno  non  passava  un'anima  ;  sulla  strada 
uia,  era  il  ritlesso  della  luce  delle  finestre  ove  si  pranzava. 

—  «  Follie  !...- ripetè  il  professor  Koerbitz,  con  una  poderosa 
jroUata  delle  spalle  erculee,  all'indirizzo  della  sua  visione. 

«  Follie"?...  e  perchè  follie"?...  ragioniamo  -  si  disse,  poi,  riac- 
3ndendo  il  sigaro.  -  La  fragranza  di  quelle  cucine,  il  profumo  di 
uesto  «  Manilla  »  giungono  a  darmi  visioni  tali  che  si  confondono 
3n  la  realtà.  E  l'abbandonarraici  sarebbe  proprio  follia  "?  Ma  e  che, 
)rse,  di  fantasticaggini,  d'illusioni,  di  sogni  non  si  compone  per  tre 
uarti  la  vita  "?  La  vita  dello  spirito  non  è  dessa  composta  di  tutto 
io?...  Si,  e  per  questo  appunto  è  più  lunga,  più  piena,  più  intensa, 
iù  continua  :  tale  da  portarci  al  convincimento  che  la  fantasia,  «  la 
azza  della  casa  »,  come  la  chiatiiano,  sia  la  più  positiva  tra  le  fa- 
oltà  del  cervello. 

«  Per  prova,  se  andiamo  a  consumarci  la  salute,  o  a  dar  di  fondo 
i  una  considerevole  fortuna,  in  pochi  anni  di  quella  vita  lì  (quella 
e'  felici  dello  Schweitzerhoff  a  tavola),  trascorso  qualche  tempo, 
uando  ci  desteremo  fradici,  o  ridotti  al  verde,  non  dovrem  noi 
passarcela  con  la  vita  della  spirito,  fantasticando"?...  Quella  ci  sem- 
rerà  durata  un  attimo,  questa,  un'eternità!...  Or,  dunque,  se  tale  è 
predominio  della  fantasia  sulla  nostra  vita,  godiamo  de'  doni  che 
5sa  ci  dispensa,  ridiamo  dell' «  attimo  fuggente  »,  e  consacriamoci... 
ir  eternità  !... 

«  Codesta,  no,  non  è  filosofla  dei  Grandi  che  furono  nel  mio 
aese  :  è  semplice  buon  senso  !...  » 

Con  simili  consolanti  sillogismi,  il  brav'uomo,  quella  sera,  se  ne 
)rnò  a  casa  come  se  si  fosse  tolto  parecchi  quintali  che  gli  grava- 
ano  sullo  spirito. 

E,  d'allora,    Waldemaro   Koerbitz    si  vide,  si  senti    in  un  mondo 


IV. 


Primi  a  notare  la  trasformazione  del  professore  Koerbitz  furono 
suoi  scolari.  Usi  ad  incontrarlo  soltanto  di  sera,  in  vie  solitarie, 
on  quell'aria  allampanata,  stanca,  attediata  da  qualcosa  che  loro 
iusciva  incomprensibile,  stentarono  a  riconoscerlo  nel  trionfante  per- 
onaggio,  con  la  testa  erta,  gittata  indietro,  aspirando  l'aria  baldan- 
osamente,  come  riconciliato  con  l'esistenza  ;  la  cravatta,  il  panciotto, 
3  dita,  i  polsi,  pieni  di  scintillamenti. 


126  IL    PROKESSOKE    KOERBTTZ 

—  «  Ohe!...  ch'è  mai  quella  roba?  »  —  «  Brillanti,  vi  dici»!  • 
—  «  Ma  siete  pazzi?!...  »  — «  Bravo!...  se  ne  sarà  fornito  coi  trenta 
soldi  delle  nostre  lezioni  !...  —  «  Imbecilli!...  non  vedete  che  ha  chi  li- 
biato  umoie ".'...  avrà  fatto  iin'ei'edità  »  —  «  E  vi  pare  che  avrelil.e 
continuato  a  seccarsi  lanima.  insegnandoci  il  tedesco?...  »  —  «  l!|i- 
pure  è  così  !  » 

Poveri  giovanotti  !..  era  tale  il  rispetto  pel  loro  professore,  da 
non  andar  all'idea  che  egli  si  fosse  provveduto  di  tutta  queirorj)(l- 
leria  gemmata,  in  qualche  minuteria  del  Corso,  profondendovi  i  suoi 
lisparmì. 

E  come  si  era  sentito  felice,  quando,  riscintillante  come  una  bal- 
lerina, aveva  esclamato  di  fronte  allo  specchio  : 

—  Porto  almeno  diecimila  lire  di  brillanti  addosso  :  giù  il 
cappello  ! 

Poche  sere  appresso,  uno  degli  scolari  raccontò  agli  altri  di  avere 
incontrato  il  professore  Koerbitz  davanti  all'Albergo  di  Londra,  in 
piazza  di  Spagna,  in  un  circolo  di  forestieri,  che  aspptta\ano  le  cai- 
rozze  per  una  qualche  gita. 

Al  che,  un  altro  : 

—  Dunque,  non  m'ingannai  -  disse  sorpreso  -  quando,  giorni  la. 
mi  parve  riconoscerlo  dinanzi  all' H(itel  Continentale,  a  discorrere  con 
certi  personaggi  oltramontani,  scesi  da  un  magnifico  automobili'  : 
gente  di  tanta  boria,  da  dissuadermi  dal  salutare  il  professor»;  Koerbitz. 

—  Bazzica  !  clie  conoscenze  fa  egli  !... 

—  Che  amicizie  va  scegliendosi  !... 

Niente,  poveri  giovanotti  !...  né  conoscenze,  né  amicizie.  Al  pin- 
fessore  era  entrata  un'altra  smania  addosso:  strofinarsi  ai  foresi irii 
d'alta  importanza,  mettersi,  in  qualunque  modo,  al  contatto  coi  mi- 
liardari :  e,  dopo  averli  tanto  invidiati,  ammirandoli  per  le  vie,  nei 
caffè,  in  carrozza,  dopo  averli  attesi  dinanzi  agli  alberghi,  alle  pen- 
sioni, si  concedeva  il  piacere  di  confondersi  con  loro,  di  entrar  nei 
loro  discorsi,  con  ogni  pretesto,  sempre  anonimamente  :  dava  spie- 
gazioni, avvertimenti,  consigli,  e  diceva  la  sua,  nelle  discussioni  ch'essi 
legavano  tra  loro. 

Smania  non  priva  di  pericoli,  codesta.  Una  sera,  per  esempio, 
quando  egli  ebbe  voltato  i  tacchi,  udì  un  connazionale,  con  cui  aveva 
scambiato  qualche  parola,  domandare  ad  un  altro  : 

—  Ma  colui  chi   è  ?... 

—  E  chi  ne  sa  niente!... 

—  Ohe,  siamo  in  Italia  :  attenti   al  portafogli!... 

Credete  che  da  simili  lezioni,  la  smania  di  Waidemaro  restasse 
domata?...  Ohibò  !.. 

Un  giorno,  mentre  s'era  ficcato  in  una  conversazione  tra  parecchi 
forestieri,  volle  dir  imprudentemente  la  sua:  ed  allora,  un  superbo 
uomo  politico  francese,  voltosi  di  botto  a  lui.  gli  tiiidò  in  faccia  : 

—  Monsieur,  je  ne  voiis  coniiais  pas .' 

—  Et  nioi  non  plus  ! 

—  Fichez-moi  la  puix,  alors  !'.! 
Povero  Koerbitz!  dovè  allontanarsi  borbottando  :    e.  per  (jualche 

sera,  si  contentò  di  guardar  da  lontano  la  turba  dei  «  ])rivilegiati 


IL    PROFESSORE    KOERBITZ  127 


^■ 


Era  una  limpida  serata  d'inverno. 

Koerbitz  se  la  passeggiava  dinanzi  alla  sfolgorante  cascata  d'acqua 
della  fontana  di  Piazza  Terme,  che  si  rifletteva  sulla  sua  oreficeria, 
accendendovi  miriade  di  fiammelle. 

Andava  da  li  al  Grand  Hotel,  e  viceversa,  aspirando  in  estasi  il 
fumo  del  solito  «  Manilla  ». 

Il  massimo  albergo  di  Roma,  nella  migliore  stagione  dell'anno, 
era  in  piena  animazione  ;  fasci  di  luce  elettrica  illuminavano  super- 
bamente ogni  camera  prospiciente  sulla  via.  11  regale  cortile  era  ri- 
schiarato come  a  festa,  e  la  candida  luce  si  diffondeva  davanti  al 
palazzo,  facendo  splendere  i  facchini  della  casi,  dalla  rossa  divisa, 
allineati  a  pie  delle  colonne,  come  tanti  corifei  da  ballo. 

Koerbitz  si  fermava  in  mezzo  alla  piazza,  per  levare  il  capo,  e 
vedersi,  fantasiosamente,  lassù,  dietro  ad  una  di  quelle  finestre. 

Si  sentiva  il  padrone  del  mondo!... 

Oh,  ma  perchè  mai  tutta  quella  gente  deli'  albergo,  schierata  in 
bell'ordine,  assumeva  il  sussiego  dell'aspettazione  d'un  qualche  im- 
portante avvenimento"?... 

—  Ah  ecco...  ecco  chi  aspettano!..  -  sclamò  il  professore,  nel 
veder  giungere  dalla  vicina  stazione  sei  carrozze  padronali  cariche  di 
signori. 

Difatti,  in  un  momento,  tutto  l'albergo  pare  elettrizzato.  I  came- 
rieri, impettiti,  rigidi,  si  accostano  alle  carrozze  :  i  facchini  si  occu- 
pano delle  valigie,  delle  casse. 

Waldemaro  s'avvicina  anch'eglì,  tra  la  folla  che  incornicia  a  far 
circolo,  e  ode  mormorar  nei  crocchi  che  quella  è  tutta  un  ambascerìa 
oltramontana,  mandata  al  Re  d'Italia  da  qualche  potenza  amica,  per 
felicitarsi  della  nascita  dell'erede  al  trono. 

I  camerieri,  dignitosamente,  aiutano  a  scendere  tutti  quegli  sta- 
tuarii  personaggi,  imponenti  nelle  grandi  barbe  fulve,  nei  soprabiti 
autoritari,  nelle  fisonomie  l)iubanzose. 

Valdemaro  li  ammirava,  e,  senza  che  se  ne  accorgesse,  la  sua  faccia 
andava  atteggiandosi  come  quelle  dell'ambasceria. 

D'un  subito,  la  sua  smania,  rinatagli  prepotente,  lo  spinge  a  con- 
fondersi prima,  ed  a  farsi  largo,  \ìoì,  tra  i  camerieri,  per  porgere  la 
mano  ad  un  venerando  signore  : 

—  Erìaithcii  sic,  mein  llerr,  dass  idi... 

Di  botto  è  interrotto,  sos|)info  da  uno  dei  camerieri,  mentre  un 
altro  frettolosamente  lo  prega: 

—  Veuillez  entrer  vite,  Monsieiir,  car  la  fonie  des  badnuds  aug- 
ni citte:  voijez,  plidót?!... 

Intontito,  Waldemaro  è  sul  punto  di  volgersi  alla  folla  dei  curiosi 
assiepati  davanti  all'albergo,  quando  altri  camerieri  lo  ricacciano  presto 
nel  grupjìo  degli  arrivati,  e,  con  quelli,  lo  spingono  nel  cortile,  nella 
gran  sala  d'ingresso,  su  per  le  scale,  al  secondo  piano;  finché  uno 
di  loro,  aperto  violentemente  un  uscio  del  corridoio,  non  lo  caccia  in 
una  camera,  dicendogli,  con  un  inchino: 

—  C'est  votre  chambre,  Monsieur! 

Come  in  sonnambulismo,  Waldemaro  varca  la  soglia,  e  l'uscio  gli 
si  rinchiude  dietro. 


128  IL    PROFESSORE   KOERBITZ 

K  li.  impalalo,  a  fj:uanlai'e. 

Un  lelto  ilalla  coltrice  a  ricami,  col  piumino  di  raso  violaceo,  ciii 
sovrasta  il  haklaccliiuo  a  larghi  flocchi  pendenti:  uno  scrittoio  di 
ebano,  dalla  forma  svelta  :  una  lunga,  soiìice  poltrona  ;  una  graziosa 
cappelliniera.  un  piccolo  canterano,  un  fulgido  armadietto  a  specchio, 
un  lavabo  di  lacca,  un  morbido  tappeto,  armonizzante  col  parato  bianco. 
a  fiorami  d'oro;  tutto  ciò,  inondato  dalla  vaga  chiarezza  della  lini 
elettrica;  tutto  ciò  soavemente  silenzioso,  respirante  in  un'aria  conic 
di  dolce  riconcentramento. 

E  Koerbitz  rijìlglia  a  fantasticare  secondo  il  solito  ;  si  volge  al 
cameriere  (che  non  c'è  più),  per  rispondergli: 

—  Benissimo,  dica  a  Sua  Altezza  die  aspetto  gli  ordini  per  accom- 
pagnarlo domani  a  Palazzo  Reale  ;  ella  può  ritirarsi. 

Poi  va  alla  finestra,  guarda  giù.  la  via  ancora  gremita  di  popolo, 
e  dà  un  sussulto.  Ricorda. 

—  Ma  è,  o  pur  no,  un  sogno  codesto '^.. 

Torna  a  girar  gli  occhi  per  la  camera;  tutto  il  consueto  allesti- 
mento scenico  delle  sue  fantasticherie  lo  circonda  :  è  la  sontuosa  ca- 
mera d"un  albergo  di  prim'ordine. 

Non  volendo  credere  ancora  d'esser  desto,  Waldemaro  incomincia 
a  darsi  una  quantità  di  pizzicotti  per  tutta  la  persona;  e  .si  persuade 
cosi  che  non  dorme. 

Egli  sospira  di  beatitudine,  nel  sentirsi  lentamente  pervaso  dai 
lievi  profumi  de'  suo'  sogni  :  il  legno  del  piancito,  la  lana  orientale 
del  tappeto,  l'essenza  d'Ireos  della  biancheria,  l'odore  naturale  della 
molilid  nuova,  l'acqua  da  lavanda  sulla  toletta,  e  tutte  le  blandizie 
per  l'olfatto,  che  seguono  i  privilegiati  nei  grandi  alberghi. 

Che  incanto! 

—  Là  quella  morbida  poltrona,  ove  i  milioni,  ieri,  stamane,  foisc 
ancora,  si  riposarono,  mi  chiama... 

Waldemaro  vi  si  lascia  cader  fra  le  braccia,  e  la  sensazione  del 
supremo  benessere,  gli  fa  dare  un  più  lungo  sospiro. 

—  Finalmente!!!  -esclama,  portando  lentamente  la  mano  disotto 
agli  occhiali,  perchè  due  grosse  lagrime  gli  scivolano  giù  per  le 
gote,  avvampate  dalla  commozione. 

«  Finalmente!...  Vero,  tutto  vero.  Dio  benedetto:  il  fantasticare 
è  una  gran  bella  delizia...  per  chi  non  possa  goder  di veisamente  ;  ma 
per  gli  altri,  pei  fortunati,  pei...  » 

—  Avanti!... 

Bussavano  discretamente  all'uscio. 

Entrò  il  cameriere:  l'autentico,  non  già  quello  dipintogli  dalla  fan- 
tasia un  momento  prima,  e  pel  quale  aveva  mandato  l'imbasciata  a 
Sua  Altezza...  Vattelappesca. 

—  Dica? 

—  Il  signore  pranza  alla  Table  d'Hóte,  o  in  camera?.. 
Waldemaro  stette  un  po'  sospeso;  poi: 

—  Gh  altri?.. 

—  Quelli  del  seguito  di  Sua  Altezza  sono  scesi  tutti  nella  sala  da 
pranzo. 

—  Tutti?... 

—  Tutti;  e  il  signore?... 

—  Ah,  io  no,  io  pranzo  qui,  in  camera. 

—  Subito?... 


IL    PROFESSORE    KOERBITZ  l'2M 

—  Al  più  presto,  vi  prego. 

—  Sarà  servito. 

Non  appena  l'uscio  si  rinchiuse,  a  Waldemaro.  d"un  tratto,  mancò 
ogni  coraggio,  e  precipitatosi  fuori,  uscì  sul  pianerottolo  per  richiamar 
il  cameriere:  mali,  tutt'una  fragranza  paradisiaca  saliva  dalla  tavola 
rotonda,  onde  il  povero  Koerbitz,  cedendo  alla  nuova  seduzione,  tornò 
in  camera. 

—  Per  una  volta.  Dio  mio.  per  una  volta  sola!...  -  sclamò,  e, 
sdraiatosi  sulla  poltrona,  chiuse  gli  occhi,  aspettando. 

Da  lì  a  poco,  arrivarono  due  cameriei'i.  con  una  piccola  tavola 
;d  un  canestro  per  l'imbandigione. 

In  un  attimo,  tutto  fu  pronto.  Sulla  tovaglia  fiorata,  le  piccole 
;aliere,  le  mostardiere,  i  poggiaposate,  i  portastecchini  ed  altri  nin- 
loli  d'argento,  rilucevano  vivacemente  intorno  alla  cristalleria  boema, 
^on  la  superba  sigla  dell'albergo. 

—  11  signore  è  servito. 

E  principiò  la  sfilata  degli  scaldavivande. 

Waldemaro  sedè  a  tavola,  con  una  fame  d' inferno,  e,  dimentico 
lei  mondo  intero,  si  mise  gagliardemente  all'opera. 

Dopo  che  ebbe  sorbito  il  brodo,  la  zuppa,  piena  di  misteriose 
lelizie,  cui  il  fumo  odoroso  gli  investiva  la  faccia,  l'altro  cameriere 
fli  si  presentò  con  due  bottiglie  fasciate  a  metà  ne'  tovaglioli:  doman- 
landogli  con  la  solita  discretezza  da  diplomatico: 

—  Crèpe  de  Savoie,  o..."? 

—  Lasciate  tutto  qui,  che  faccio  da  me  -  lo  interruppe  presto 
Valdemaro,  ricordando  certe   parsimonie  degli   alberghi  :  e  s'affrettò 

versarsi  e  a  trangugiar.  1"  un  dietro  Talfro,  tre  bicchieri  di  «Crèpe» 
elicatissima,  che  gii  lasciò  in  bocca  come  il  vago  ritornello  d'un 
oave  spumeggiamento. 

Attaccò,  poi,  gli  entre-méts:  iraprescrutabili  manicaretti,  l'uno 
ili  lusinghevole  dell'altro  pel  suo  povero  palato,  sino  allora  uso  ai- 
acquolina  che  lo  costringevano  ad  inghiottire  le  rappresentazioni  della 
intasia  :  di  nuU'altro. 

Seguirono  le  fritture  inspirate  da  angeli  ai  principi  del  «  berretto 
ianco  »,  ed  i  pesci,  preparati  da  un  qualche  discendente  in  linea 
stia  dal  sommo  \'afel. 

Ed  eccolo  qui.  il  vecchio  amico  britannico:  il  roastbeef  nella  sapo- 
3sa  salsa  vermiglia,  cui  dintorno  le  dorate  fettine  delle  patate  face- 
ano  corona. 

Frattanto,  tre  bottiglie  eran  già  li  vuote. 

—  Sciampagna?.. 

—  Certamente  -  aveva  risposto  Waldemaro  al  cameriere,  dopo  che 
altro  aveva  posato  sulla  tavola  un  piatto  d'argento,  su  cui  troneg- 
iava  il  puddiìKj.  in  mezzo    alla    sua  corte  di  frutta  candite. 

Sciampagna  !...  Che  accompagnamento  di  calici  al  dolciume  inglese! 

Pel  gelato,  dovè  comparire  una  seconda  bottiglia. 

Dopo  che  il  freddo  senso  di  ananasso  scese  a  tentare  inutilmente 
i  spegnere  l'incendio  che  le  cinque  bottiglie  avevano  acceso  nel 
etto  del  professore  Koerbitz,  venne  il  Moka  aromatico  e  la  fiala 
si  Kummel,  cui  accanto,  in  un  tondino  dorato,  si  allineavano  gli 
vana. 

A  tal  vista,  Waldemaro  ordinò  ai  camerieri: 

—  Lasciatemi  solo!... 

9  Voi    evi,  Serie  IV  .  1"  Inglio  1903 


130  II.    PROFESSORI-:    KOERIJITZ 

Se  ne  stelle  lungamente,  nella  realtà,  a  bere  ed  a  sognare,  inlrr 
voralo  dal  liquore,  come  un  eletto  da  Dio,  nella  contemplazione  ih  I 
suo  trono  celeste. 


—  Eh-.'.. 

—  Il  signore  è  stanco?... 

Il  cameriere  aveva  dovuto  desiarlo  per  sparecchiare. 

—  Oh,  molto  stanco,  amico  mio!... 

—  Vorrà  certamente  mettersi  a  letto... 

—  No!... 

—  Come,  no"?... 

—  Cioè...  sì...  A  domani. 

—  A  che  ora  la  sveglieròf... 

—  Alle  sei. 

—  Tanto  presto"?!!... 

—  Certo,  debbo  assolutamente  destarmi  a  (luell'ora;  un  incarico 
delicato  di  Sua  Altezza  mi   vi  costringe. 

—  Sarà  servita,  buon  sonno. 

—  Grazie. 

Per  un  momento,  Waldemaro  aveva  tentato  di  levarsi,  dappoiché 
la  prudenza  |)iù  elementare  gli  consigliava  d'intllar  la  porta....  ma 
sì!  e  le  gambe"?...  quelle  dormivano  già  da  un  pezzo,  ne  c'era  spe- 
ranza si  avessero  a  destare. 

Il  letto  ei'a  lì  :  il  letto  delle  sue  fantasticaggini,  ove  i  ricconi  suoi 
connazionali  riposarono  le  loro  membra  privilegiate...  quel  letto!... 

—  «Oh,  giaciglio  divino,  tu  mi  cliiami.  turni  vuoi,  eccomi,  sono 
a  te  !  » 

E,  senz'altro,  si  spogliò  faticosamente,  e  si  cacciò  tra  le  lenzuola 
di  batista;  ove  poco  mancò  non  isvenisse  dalla  suprema  voluttà 
delle  piume. 

Poi...  più  nulla:   il   sonno  riparatore  di  tante  commozioni. 


IV. 

Quando  aperse   gli   occhi,  non    capiva    niente.  Si  sentiva  il  capo 
come  pieno   di  piombo  liquefatto  e  le  gambe  spezzate. 
Di  fuori,  tempestavano  l'uscio  di  colpi. 

—  Che  c'è"?... 

—  Le  sei. 

—  Bene,  mi  levo  sul)ito!  —  rispose,  ricordando,  di  botto. 

In  cinque  minuti,  fu  pronto. 

Poi.  un  naturale  tremore  lo  assalì. 

—  «  Se    qualcuno,  giù,  per  le  scale,  nel  cortile,    mi    ferma...  mi 
domanda!...  Ci  siamo  al  redde  rationeni .'...  » 

Ma,  fortunatamente,  era  troppo  presto,  nessuno  lo  molestò. 
Soltanto,  giù,  nel  gran  vestibolo,  gli  si  accostò  uno  dei  portieri, 
per  domandargli  se  avesse  bisogno  di  qualcosa. 

—  Di  nulla  :  esco  per  un  telegramma  da  spedire. 

—  Dia  qua,  manderemo  subito  un  commissionario. 

—  No,  è  affare  di  Sua  Altezza  ;  affare  segreto. 

—  È  giusto,  faccia  piu'e. 


ir-    PROFESSORE    KOERBITZ  131 

Allorché  Waklemaro  fu  sulla  via,  prese  la  corsa,  per  quanto  glielo 
■mettesse  Fiufelice  condizione  delle  gambe. 

Ma,  all'angolo  di  via  Principe  Umberto,  volle  volgersi  per  guardar 
Itima  volta  il  Grand-Hotel,  la  sua... 

—  «  Eccola  lì,  la  mia  camera!...  -  sclamò,  vedendo  illuminata  ima 
mera  in  pieno  giorno.  -  Guarda!...  ieri  sera  dimenticai  di  girar  la 
iavetta  della  luce  elettrica...  Oh,  non  me  ne  stupisco:  ero  capace 
ben  altro,  Jeri  sera  !... 

«Addio,  dunque!...  -  gridò  intenerito,  all'albergo,  Waklemaro 
lerbitz.  -  Addio,  bella  vita  reale  !  Torno  a  quella  tanto  magra  e  fa- 
osa  della  fantasia,  addio  per  sempre!..  » 

E  disparve. 

Amilc.\re  Laurìa. 


RASSEGNA  MUSICALE 


La  passata  stagione  teatrale  —  Gli  spettacoli  a  Roma  ed  a  Milano  —  Le  difli- 
coltà  del  teatro  lirico  —  I  concerti  — I  saggi  scolastici  —  Libri  nuovi  S,;- 
lerti,  Dassori,  Codazzi  e  Andreoli)  —  Recenti  pubblicazioni  musicali  (Zamlli 
Martucci,  Gianturco,  Caetani). 

Nessuno  penserà  certo  che  io  faccia  oggi  la  necrologia  della  sta- 
gione teatrale  trascorsa.  In  quasi  tutti  i  teatri  d'Italia  essa  ha  tiialo 
avanti  a  furia  di  ripieghi,  tra  il  disordine  dell'oggi  e  l'incertezza  del 
domani:  anche  colà  dove  c'era  un  programma  artistico  prestahilito  lo 
si  è  dovuto  sacrificare  alle  necessità  del  momento:  a  conti  fatti  la  sla- 
gione  non  merita  nemmeno  un  postumo  rimpianto,  ed  è  andata  ad 
accrescere  il  numero  delle  tante  stagioni  negative  che  pur  troppo  si 
vanno  accumulando  da  parecchi  anni. 

A  Roma  in  proporzione  le  cose  sono  passate  abbastanza  liscie,  e 
come  regolarità  di  spettacolo  nessuno  s'è  potuto  lagnare:  hanno  cro- 
ciiìsso  persino  il  Morichini  che  da  parecchi  anni  alacremente  attende 
a  regolare  l'unico  spettacolo  invernale  lirico  degno  della  capitale,  ed 
hanno  fatio  benissimo.  Naturalmente  neanche  colla  migliore  volontà 
i  miracoli  si  possono  fare,  e  quindi  non  è  stato  colpa  dell'impresa  se 
il  Grani,  protagonista,  si  è  trovato  solo  o  quasi  a  sostenere  colle  ro- 
buste spalle  il  Siegfried,  se  per  VHaensel  e  Grefel  il  teatro  Costanzi 
è  parso  ambiente  troppo  vasto  e  se  Germania  di  Franchetti  ha  lascialo 
il  pubblico  in  una  indifferenza  assoluta.  Questa  Germania,  pur  avendo 
pagine  magnifiche  degne  del  superbo  ingegno  di  Alberto  Franchetti, 
appartiene  in  complesso  all'arte  che  si  potrebbe  diie  industriale.  Da 
quest'arte,  basata  pur  troppo  su  mezzi  termini,  Franchetti  si  era  finora 
nobilmente  tenuto  alieno  :  speriamo  che  il  compositore  trovi  l'energia 
di  riscattare  presto  il  presente  errore. 

il  rovescio  della  medaglia  come  nobiltà  inconcussa  d'aspirazione 
ce  lo  ha  dato  Antonio  Smareglia  colla  sua  Oceana  alla  Scala  :  e  se 
neanche  V  Oceana  come  risultato  pratico  immediato,  ha  risposto  alle 
speranze  dell'autore  (vittima  indubbiamente  di  ben  prevedibili  guerre) 
questo  non  toglie  che  lo  Smareglia  non  solo  ne  sia  uscito  col  pieno 
onor  dell'armi,  ma  sia  salito  ancora  nel  concetto  degli  artisti  veri  e 
serii.  E  V  Oceana  molto  probabilmente  volerà  all'estero  e  dirà  brillan- 
temente le  sue  l'agioni  :  come  le  disse  e  le  dice  in  misura  più  modesta 
presentemente  in  Germania  quella  Consuelo  di  Rendano  che,  difesa 
in  queste  colonne,  trovò  tanta  eccessiva  acredine  di  giudizio  l'anno 
scorso  a  Toiino. 

Del  resto  a  Milano  la  stagione,  pure  cominciata  bene  colla  Dannar 
sione  di  Faust,  si  svolse  un  po'  burrascosa  :  ed  alla  fine  si  manifesta- 


RASSEGNA   MUSICALE  13.3 

ino  forti  dissidi  fra  il  pubblico  ed  il  direttore.  Toscanini  finì  per 
bbahdonare  nò  irato  baracca  e  burattini,  e,  senza  nulla  detrarre  ai 
leriti  del  suo  successore,  la  sua  partenza  costituisce  per  Io  stoiico 
;atro  una  perdita  non  facilmente  riparabile. 

Ma.  ripeto,  la  necrologia  della  stagione  teatrale  non  entra  nel  mio 
roposito:  auguriamoci  che  corra  migliori  sorti  la  stagione  ventura,  la 
uale  intanto  ci  porta  fra  le  buone  notizie  quella  del  ritorno  di  Luigi 
[ancinelli  a  Roma,  come  direttore  al  teatro  (Sostanzi,  e  quella  di  al- 
ane novità  che  il  pubblico  aspetta,  come  la  Madatìia  Butterfly  di 
'uccini,  e  la  Siberia  di  Giordano.  E  nella  stagione  ventura  sapremo 
ure  il  risultato  della  colossale  covata  di  nuovi  operisti  die  ha  fatto 
editore  Sonzogno  col  suo  concorso.  Chi  avrebbe  mai  detto  che  i  neo- 
ti  della  scena  in  Italia  si  contassero  non  a  dozzine  ma  a  centinaia  f 

Evidentemente  tutta  questa  gente  che  sacrifica  tempo  e  fatica  non 
a  esatto  concetto  o  non  pensa  alle  difficoltà  tra  le  quali  si  dibalte 
a  noi  il  teatro  lirico.  lidotto  in  realtà  ad  uno  stato  d'anemia  da  met- 
ìre  seiiamente  in  pensiero  tutte  le  persone  che  credono  che  al  teatro 
iano  annessi  interessi  artistici  ed  economici  rilevantissimi. 

La  buona  volontà  di  una  riscossa  sarebbe  generale:  qua  e  là  ap- 
aiono dei  sistemi  ben  chiari.  A  Parma  si  ritorna  al  sistema  della 
ote;  a  Torino  una  Società  forte  a  denari  offre  di  fare  immediatamente 
1  vecchio  Teatro  Regio  le  migliorie  necessarie  secondo  le  esigenze  del 
ionio;  a  Roma  si  presenta  al  Consiglio  comunale  una  nuova  proposta 
nde  si  abbia  un  regolare  funzionamento  del  teatro  lirico  nella  capitale. 

Da  cosa  nasce  cosa:  e  faccio  i  voti  più  sinceri  perchè  tutte  le  co- 
iggiose  iniziative  di  questo  genere  conducano  a  risultati  effettivi. 

Ma  c'è  una  questione  preventiva  da  risolvere  onde  non  rendere 
lutili  tutti  gli  sforzi  passati,  presenti  e  futuri  pel  rinnovamento  del 
iatro  lirico  nazionale.  La  prima  necessità  pel  teatro  lirico  da  noi  è 
nella  che  esso  sia  restituito  alla  indispensabile  libertà  di  movimento: 
idotto  come  è  ora,  esso  non  può  che  intisichire. 

L'argomento  è  ampio:  la  dimostrazione  non  è  diffìcile:  dell'attuale 
ondizione  di  cose,  come  spesso  succede,  hanno  colpa  tutti  e  ne.ssuno. 
1  tempo,  modificando  ben  prossimamente  le  condizioni  dei  diritti  di 
utore,  rimetterà  in  pubblica  circolazione  molti  spartiti,  e  cambierà 
avorevolmente  l'ambiente.  L'essenziale  sarà  di  vedere  se  frattanto  non 
uccederà  al  teatro  lii'ico  ciò  che  dicono  sia  capitato  a  quel  certo  asino 
he  un  ammaestratore  aveva  educato  a  non  mangiare:  venne  il  giorno 
Q  cui  l'animale  si  poteva  dire  ammaestrato,  ma  quel  giorno  la  povera 
lestia  era  morta  di  fame. 

Il  problema  del  teatro  lirico  merita  un  attento  esame  e  mi  propongo 
i  ritornare  altra  volta  ampiamente  sull'argomento.  Per  oggi  ho  più 
he  sufficiente  materia  alla  rivista  accennando  ai  concerti,  ai  saggi  sco- 
astici  ed  alle  nuove  pubblicazioni. 

La  stagione  dei  concerti  avrebbe  dovuto  compensarci  della  carestia 
ealrale,  ma  l'ha  fatto  in  misura  assai  scarsa.  Chi  ha  lavorato  di  più 
a  questo  campo  è  stato  Martucci:  nell'alta  Italia,  a  Roma,  a  Napoli 
gli  ha  portato  il  soffio  della  sua  arte  squisita,  della  sua  giusta  ed 
quilibrata  i)ercezione  interpretativa.  A  Santa  Cecilia  è  mancata  dopo 
1  Martucci  la  maggiore  attrazione,  cioè  il  Richter,  caduto  malato  dopo 
a  prima  prova  d'orchestra,  e  certo  non  ne  fatto  le  veci  lo  Che\illard 
imasto  a  Roma...  una  riputazione  parigina.  Ricomparve  il  Pugno 
biadendo  piuttosto  che   aumentando   l' impressione   favorevole   della 


134  RASSEGNA    MUSICALE 

venuta  precedente;  fu  simpaticamente  accolto  Popper,  uno  dei  principi 
del  violoncello,  e  lo  sarebbe  stato  di  più  con  un  programma  meno  pei  so- 
nale, e  si  festeggiò  1'  Hubay.  il  tipico  artista  ungherese.  Mi  sia  pernifs-D 
di  dolermi  che  non  abbia  avuto  l'elegante  cornice  e  lo  scelto  udilnrio 
di  Santa  Cecilia,  Franz  Oundrieeck,  il  fortissimo  violinista  bocnid. 
caduto  nelle  fila  di  uno  dei  tanti  pericolosi  organizzatori  di  concciii 
che  offrono  i  loro  servizi  agli  stranieri,  pronti  ad  invitarli  a  veii!;- 
in  Italia,  a  farli  sentire  in  qualche  paese  senza  T  indispensabile  prenci- 
razione.  Abbiamo  ancora  sentito  a  Santa  Cecilia  due  celebrità  canore  : 
la  medagliata  signora  Dolina,  che  imperterrita  e  con  metodo  corict- 
tissimo  ha  offerto  una  interminabile  sequela  di  arie,  romanze  e  can- 
zoni russe,  e  Adelina  Patti,  die  rimane  seini)re  malgrado  la  lun^a 
carriera  la  grande  maestra  e  l'incomparabile  fascinatrice.  Non  bisogna 
dimenticare  tra  le  audizioni  più  notevoli  il  concerto  di  musica  nli- 
giosa  italiana,  dato  sotto  gli  auspicii  e  cogli  elementi  dell'Accademia 
di  Santa  Cecilia  al  teatro  Argentina  in  occasione  del  Congresso  storieo. 
e  la  diligente  dilezione  del  maestro  Terziani  meritamente  apprezzala. 

A  Milano,  a  Bologna,  a   Firenze,  a  Torino,  niente  fanciulli   prò-  , 
digio  per  quest'anno,  niente  trionfi  acrobatici  di  solisti.  L'Hubermann 
violinista  assicurano  si  sia  rivelato  subito  artista  di  vero  ed  alto  sen-  ' 
timeiito:  qualche  altra  meteora  passò  rapidamente,  ma   senza   lasciai'  ] 
ricordo.  A  Milano  il  Qiiare,  fantasia  lirica  di   Gallignani,  non    trovò 
favorevole  il  pubblico  e  la  critica;  a  Bologna   il    Cantico   dei   Cantici 
di  Bossi,  dopo  reali  ed  anche  clamorosi  successi  all'estero,  fu  accolto 
con  simpatica  deferenza,  ma  ebbe  intojipi  d'ordine  amministrativo  che 
ne  troncarono  le  audizioni.  Ancora  a  Milano  un  Oratorio  di  Tinel,  del 
quale  si  profetavano  meraviglie,  fu  giudicato  una   sapiente,  pesantis-  | 
sima  palinodia,  e  rimase  l'ultimo  lavoro  allestito   nel  salone   Perosi,  ' 
la  cui  Società  è  attualmente  in  liquidazione,  non  avendo  trovato  suf- 
ficiente alimento  nel  fervore  del  j)ubblico  per   sopiìortare   le   gravi    e 
continue  spese. 

Ma  tutte  queste  miserie  effettive  di  insuccessi  e  di  speculazioni 
sbagliate  non  diminuiscono  il  contingente  sempre  nuovo  di  scolari  nei 
conservalorii  pubblici  e  privati  e  di  questi  giorni  ajipunto  le  più  rosee 
speranze  fioiiscono  nelle  colonne  dei  giornali  a  proposito  dei  numerosi 
saggi  che  hanno  luogo.  Si  comprende  die  anclie  agli  istituti  musicali 
ognuno  metta  in  mostra  la  più  bella  merce  che  ha  in  magazzino  ;  ma 
tuttavia  questa  esibizione  richiede  lungo  dispendio  di  tempo  per  pre- 
pararla, e  non  so  se  le  esagerazioni  congratulatorie  dei  compiacenti 
periodici  giovino  realmente  ai  neofiti  dell'arte.  I  rivali  di  Paderewski 
e  di  d'Albert  ormai  non  si  contano  più  fra  gli  allievi  degli  istituti: 
violinisti  e  violinisle,  solisti,  arpiste,  cantanti  sbocciano  d'ogni  in- 
torno con  una  abbondanza  ed  una  regolarità  spaventose:  e  dico  spa- 
ventose perchè  la  carriera,  e  specialmente  quella  «  del  solista  »,  alla 
quale  il  novanta  per  cento  di  questi  diplomati  e  medagliati  aspira, 
presenta  difficoltà  sempre  crescenti.  Non  potendosi  sospendere  per 
almeno  un  quarto  di  secolo  queste  fucine  tli  celebrità  in  erba,  è  evi- 
dente che  le  illusioni  cozzeranno  pur  troppo  maledettamente  colla  realtà, 
ma  cofesfa  pletora  è  legge  ormai  fatale  contro  la  quale  le  declama- 
zioni sono  perfettamente  inutili. 

Questi  esperimenti  almeno  non  sono  stati  inutili  per  provare  lo 
sviluppo  razionale  preso  in  questi  ultimi  anni  dalle  scuole  d'insieme, 
che  erano  state  per  lungo  tempo  come  un  mito  nei    nostri  principali 


RASSEGNA   MUSICALE  135 

istituti  per  quanto  si  fosse  detto,  scritto  e  raccomandato  in  proposito- 
La  vera  utilità  dei  conservatori  musicali  consiste  appunto  nella  pos- 
sibilità che  ivi  si  ha  di  dare  airalunno  l'educazione  artistica  completa, 
e  questa  non  si  può  certo  ottenere  senza  le  esercitazioni  di  quartetto, 
di  coro,  d'orchestra,  in  una  parola  senza  che  sia  ben  instillata  nel 
discepolo  l'idea  del  relativo  e  dell'assoluto,  e  le  rispettive  funzioni 
dei  singoli  elementi  nel  grandioso  complesso  delle  moderne  cieazioni. 
Da  questo  lato  delle  scuole  d'insieme  si  può  dire  che  abbiamo  ormai 
causa  vinta,  e  c'è  da  rallegrarsene  sinceramente,  perchè  solo  con 
questo  mezzo  potremo  non  trovarci  inferiori  agli  stranieri  nelle  grandi 
occasioni  di  feste  musicali  di  importanza. 


Ed  ora  chiudiamo  questo  molto  sommario  cenno  sul  movimento 
musicale  nostrano,  con  qualche  cenno  sulle  recenti  pubblicazioni  atti- 
nenti all'arte  musicale  che  hanno  diritto  ad  una  speciale  considera- 
zione. 

Un  voluuie  che  sarà  assai  letto  è  indubbiamente  quello  del  Solerti 
che  ha  per  titolo:  Le  origini  del  inelodrcimitia. 

Su  questo  argomento  vanno  in  giro  molte  errate  od  almeno  im- 
precise affermazioni  che  importa  rettificare,  ed  il  Solerti  lo  farà  proba- 
bilmente in  un  suo  prossimo  largo  studio  sugli  Albori  del  melodramma. 
la  cui  pubblicazione  è  annunziata.  Intanto  egli  col  presente  libro 
mette,  per  cosi  dire,  le  basi  dell'edifìcio,  e  raccoglie  le  tesfiìiìotìiaìize 
dei  contemporanei,  quelle  più  note  (come  le  prefazioni  e  le  dediche 
dei  primi  lavori  del  Cavalieri,  del  Peri,  del  Caccini,  di  Marco  da  Ga- 
gliano, di  Vitali)  e  quelle  meno  conosciute  del  Giustiniani,  del  Bonini, 
di  Pietro  de'  Bai'di,  del  Della  Valle  e  del  Doni.  Basterebbe  il  discorso 
sulla  musica  di  Vincenzo  Giustiniazii  per  dare  al  volume  un  simpatico 
sapore  di  vivacità:  il  quadro  dello  stato  della  musica  a  Roma  al  piin- 
cipio  del  1600  vi  è  dipinto  dal  vero  e  non  «  rulibato  da  buoni  autori 
antichi  e  moderni  »  :  e  chi  volesse  spigolare  in  questo  volume  trove- 
rebbe un'enorme  quantità  di  acute  osservazioni  sulla  musica  in  gene- 
rale e  sui  musicisti  romani  e  fiorentini  che  erano  allora  in  auge.  Le 
annotazioni  critiche  ed  estetiche  di  tutti  questi  autori  sono  curiosis- 
sime: ma  da  tutte  risulta  la  grande  importanza  che  fin  da  quei  primi 
tempi  si  diede  al  fatto  musicale  che  poi  costituì  l'opera  moderna.  Il 
Solerti,  mettendo  queste  interessanti  testimonianze  alla  portata  di  tutto 
il  mondo  mercè  l'edizione  che  ne  ha  fatto  il  Bocca  nella  Piccola  Bi- 
blioteca di  scienze  moderne,  ha  agito  molto  opportunamente,  perchè 
è  tempo  che  pensiamo  noi  a  lumeggiare  i  nostri  artisti  e  le  memorie 
del  glorioso  passato  :  lasciarne  Io  studio  solo  agli  stranieri  è  spesso 
troppo  pericoloso,  e  recenti  esem])i  l'hanno  provato. 

Mentre  l'attivissimo  Solerti  ci  richiama  alle  origini  dell'opera,  il 
Dassori  ci  mette  sott'occhi  la  falange  di  oltre  quindicimila  operisti  in 
un  Dizionario  lirico  universale  che  s'intitola  appunto  Opere  ed  operisti 
e  che  è  pubblicato  a  Genova  dalla  Tipografìa  dei  Sordomuti. 

II  Dassori  piglia  le  mosse  non  dal  Peri  e  dal  Caccini,  ma  dal  Della 
Viola  che  fece  rappresentare  nel  1.Ó41  F  OròeccAe,  commedia  in  musica, 
a  Ferrara:  ed  è  da  menargli  buona  questa  anticipazione  senza  discen- 
dere a  discutere  la  diretta  figliazione  della  forma  operistica,  tanto  più 


136  RASSEGNA    MUSICALE 

che  certamente  anche  Emilio  del  Cavaliere  ha  ben  diritto  di  contate 
per  qualche  cosa  prima  del  Zazzerìno  e  del  Bomuuo. 

11  volume  del  Dassori  forma  una  statistica  interessante  ed  oltic- 
modo  giovevole  per  tutti  coloro  che  per  ufficio  o  per  semplice  curio- 
sità entrano  nel  pelago  delle  ricerche  di  nomi  e  di  date.  I  31,40()  spartiti 
sono  allineati  con  doppio  sistema,  prima  sotto  il  nome  del  rispettivo 
autore,  poi  sotto  il  titolo  dell'opera:  una  premessa  succosa  e  chiara 
istruisce  il  lettore  sulle  vicende  generali  dell'opera,  e  porge  nozioni 
molto  curiose  sulla  classificazione  dei  lavori,  che  naturalmente  l'au- 
tore deve  arrestare  sulla  soglia  del  secolo  xix. 

Di  tutti  i  dizionari  lirici  questo  di  Carlo  Dassori  mi  sembra  il  più 
completo,  e  deve  essere  costato  una  fatica  immane  al  compilatore,  il 
quale  ha  diritto  ad  una  proporzionale  riconoscenza  per  parte  delle 
numerose  persone  che  indubbiamente  si  serviranno  delle  sue  pazienti 
ricerche.  Applaudo  quindi  senza  restrizione  al  lavoro  del  Dassori.  e 
gii  invidio  anche  l'ottimismo  col  quale  egli  scrive  :  «  Se  dal  passato 
è  lecito  arguire  dell'avvenire,  pure  che  la  musica  diammatica  sia  desti- 
nata a  subire  notevole  camhntmento  di  forma  e  d'  indirizzo...  già 
alcuni  tentativi  isolati  si  sono  prodotti  nella  musica  da  scena,  lasciando 
intra V vedere  nuovi  orizzonti...  » 

Confesso  che  ai  nuovi  orizzonti  del  giapponesismo  asmatico,  della 
miseria  melodica  e  dell'eccentricità  aimonica  elevata  a  sistema,  delle 
gonfiature  periodiche  e  delle  indiscrezioni  preventive  io  non  ciedo,  ne 
ho  solo  un  ribrezzo  giustificato  dall'esito.  E  duolmi  che  specialmente 
nella  lusinga  delle  indiscrezioni  preventive  sui  nuovi  orizzonti  cadano 
troppo  spesso  gli  arti.sti,  precisamente  come  è  accaduto  di  questi  giorni 
al  Giordano  jiei-  la  sua  Siberia. 

Ma  questo  non  impedisce  che  realmente  il  Dassori  sia  il  piìi  pre-  > 
ciso  e  benemerito  fornitore  di  dati  sul  lungo  e  glorioso  passato  dell'arte  ■ 
lirica  (e  non  nazionale  soltanto  ma  universale)  e  quindi  non  v'ha  dubbia  ■ 
che  il  suo  dizionario  deve  ti'ovar  sid)ito  posto  in  ogni  biblioteca. 

Un  ottimo  trattato  d'armonia  è  quello  dei  signori  Codazzi  ed  An- 
dreoli  che  l'editoie  Cogliati  ha  ripubblicato  testé  a  Milano,  essendo 
andata  esaurita  le  prima  edizione.  I  due  valenti  musicisti  hanno  lie- 
vemente ritoccato  il  loro  già  accurato  lavoro,  aumentando  ancora  gli 
esempi  musicali  e  gli  esercizi  pratici,  per  modo  che  questo  manuale 
ormai  si  può  dire  uno  dei  più  completi  e  dei  piìi  utili  per  imparare 
le  armoniche  discipline.  Nel  campo  dell'armonia  ognun  sa  che  le  di- 
spute sono  pem|ire  aperte:  ed  anche  la  rigida  e  rigorosa  esposizione 
di  questo  metodo  può  trovare  qualche  opposizione.  Ma  non  si  può 
negare  che  molto  abilmente  gli  autori  col  loro  sistema  arrivano  a  dare 
la  ragione  dei  più  moderni  accordi,  nulla  sfugge  alla  loro  indagine 
nella  infinita  varietà  delie  combinazioni  recenti.  Opportunissima  è  poi 
l'aggiunta  fatta  ai  partimenti  originali  coi  bassi  estratti  dalle  opere  di 
G.  S.  Bach:  il  cammino  di  un  allievo  intelligente  e  studioso  si  tro- 
verà indubbiamente  accorcialo:  e  questo  sarà  un  vero  beneficio  del 
quale  bisogna  essere  grati  ai  diligentissimi  autori. 

11  mannaie  è  |»ubblicato  in  un  comodo  foìiiiato,  il  volume  è  ele- 
gante e  correttissimo:  sotto  tutti  i  punii  di  vista  dunque  il  trattato 
è  raccomandabile. 

Entrando  ora  nel  campo  della  composizione  musicale  sono  assai 
lieto  che  l'avveduto  editore  Capra  di  Torino  abbia  pubblicato  la  partitura 
di  quel  poderoso  studio  struQientale  che  s'intitola  Fantasia  e  grande 


RASSEGNA   MUSICALE  137 

gaio  sinfonico  per  orchestra  e  pianoforte  di  Amilcare  Zanella.  Ognuno- 
jorda  che  detta  Fantasia  era  uno  dei  caposaldi  del  programma  dei 
ncerti  che  lo  Zanella  con  coraggio  degno  di  miglior  fortuna  intra- 
ese  in  Italia  due  jiriniavere  addietro  :  con  questa  pagina  e  con  una 
nfonia  in  quattro  tempi  il  giovane  maestro  si  segnalava  in  modo 
irticolare  anche  per  un  certo  senso  d'idealismo  che  certo  non  è  co- 
une  nel  tempo  odierno.  La  puhblicazione  della  partitura  ci  dà  agio 
notomizzare  ipiesta  veramente  riuscita  composizione,  così  salda  nella 
[a  architettura,  cosi  geniale  nel  suo  sviluppo:  essa  ha  ben  diritto  a 
ender  posto  nei  programmi  sinfonici  all'  estero,  quando  ben  inteso 
jda  al  pianoforte  l'artista  capace  di  renderne  il  vario  e  caratteristico 
lorito.  Ne  è  cosi  vivo  il  ricordo  che  ne  reputo  superflua  1'  analisi, 
a  non  posso  a  ment,  di  rilevarne  l'esemplare    sobrietà  di  disegno  e 

perizia  colla  quale  i  vari  gruppi  di  strumenti  son  disposti.  Lo  Za- 
;lla  giovanissimo  ha  visto  di  recente  coronata  la  sua  forte  attività 
Ha  nomina  a  direttore  del  Conservatorio  di  Parma.  Dicono  che  sia 
1  posto  di  combattimento:  gli  auguro  piena  vittoria:  l'essenziale  è 
le  egli  non  si  dimentichi  che  è  nato  compositore  e  che  ha  qualche  de- 
to  verso  la  nostra  arte,  poiché  ha  cominciato  cosi  splendidamente 
!l  dominio  di  quella  musica  strumentale  che  rimarrà  sempre  la  meta 
ù  eccelsa,  anche  quando  egli  trovasse  come  compositore  opeiistale 
ù  alte  e  meritate  soddisfazioni. 

Nuoto  tra  una  moltitudine  di  altre  piccole  partiturine  e  la  loro 
ibblicazione  è  segno  di  un  sempre  crescente  livello  di  educazione  ar- 
stica  generale.  Accenno  a  Quattro  piccoli  pezzi  per  orchestra  di  Giu- 
ppe  Martucci  che  sono  finissime  miniature  ;  la  giga  e  la  gavotta  hanno 
3  sapore  arcaico  delizioso,  la  canzonetta  è  un  hadinage  dei  più  ori- 
nali ed  il  noftiinio  passa  come  visione  delicatissima  sopra  lo  sfondo 

una  notte  stellata.  Tre  altre  partiturine  sono  di  un  maestro  che  è 
l  un  tempo  giurista  e  uomo  politico  insigne:  Emanuele  Gianturco. 
ssignori,  l'eminente  professore  napoletano  tra  le  disquisizioni  sul 
ure  in  Cassazione,  le  lezioni  all'ljniversità  ed  i  consulti  autorevo- 
5simi  si  compiace  di  lavori  musicali  che  sono  finamente  cesellati, 
o  sotto  gli  occhi,  ad  esempio  l'andante  della  l''  Sinfonia,  una  pagina 

una  ammirabile  chiarezza,  trattata  con  finezza  di  gusto,  fluida, 
!nza  pi'etese  ma  indubbiamente  geniale.  Anche  la  Baìtata  dedicata  al 
aestro  Serao  è  limpida  da  capo  a  fondo  ed  elegante  nei  suoi  contorni, 
compie  la  terna  una  Gavotta  in  re  minore  che  nella  infinità  delle 
le  consorelle  si  distingue  per  una  spontaneità  ed  un;i  franchezza  as- 
iluta.  Ai  pianisti  poi  addito  volentieri  un  Minuetto  di  Gianturco  in 
i  bemolle,  ai  quali  fa  riscontro  la  Marcia  dei  soldatini  di  piombo, 
M  inezia,  uno  schizzo,  ma  di.'<egnato  da  mano  maestra,  come  i  mi- 
jscoli  quadretti  dello  Schumann  e  di  tanti  altri  che  non  disdegna- 
mo  questa  delicata  pittura  di  genere. 

Una  arcaica  semi»licità  send)ra  esseie  l'obbiettivo  del  Gianturco: 
ìT  contro  Roffredo  Caetain,  nei  suoi  lavori  tutti  editi  dalla  casa  Schott 
i  Magonza,  sale  arditamente  le  vette  della  più  complessa  modernità  di 
itenti.  di  procedimenti,  di  risultati.  Sulla  sincerità  assoluta  dell'artista 
3n  vi  può  essere  dubbio,  come  non  ve  n'ha  sulla  lunga  e  fervo- 
»sa  preparazione  di  studio  che  ha  preceduto  la  manifestazione  mu- 
cale  11  Caetani  fin  dai  primi  lavori  (ed  oggi  ha  già  al  suo  attivo 
tt  nucleo  importantissimo  di  composizioni)  ha  dimostrato  di  voler 
imminare  per  vie  poco  battute,    ha   adottato  per   divisa  il  noto  odi 


138  RASSEGNA   MUSICALE 

profanum  viilgus:  tra  lui  e  i  dilettanti  c'è  sempre  stato  un  abisso,  e 
questo  va  detto  a  sua  lode  sincera. 

Proseguendo  impavido  per  questo  cammino  egli  ci  ha  dato  eia 
-  in  aggiunta  alla  sonala  per  violino  e  pianoforte,  alle  Dodici  vami- 
sioni  sopra  un  preludio  di  Ghopin,  alle  pagine  sinfoniche  di  cui  discoisi 
altre  volte  dopo  la  privata  audizione  del  teatro  Argentina,  e  ad  altre 
composizioni  -  quatti'O  impromptus,  una  ballata  ed  una  toccata  e!ie 
formano  un'opera  sola  e  che  sono  una  nuova  e  vigorosa  prova  di  mi 
peregrino  e  forte  talento  di  musicista. 

Questi  lavori  sono  tutti  ammirabili  per  la  costruzione  intima,  \<rr 
la  selezione  armonica,  per  certi  ardimenti  di  tecnica  e  di  forma  che 
sono  assai  originali,  ma  è  peccato  che  in  quasi  tutti  l'idea  scompaia 
spesso  sotto  il  velame  delli  versi  strani.  Non  c'è  che  dire,  all'analisi 
la  mano  sicura  e  la  maestria  vera  del  compositore  risaltano  vitti n  Ì(j- 
samente,  ma  l'attorcigliarsi  del  ritmo  e  dell'ornamentazione  va  spt--u 
a  danno  dell'etticacia,  e  musicalmente  l'opera  dell'alambicco  non  è 
sem[)re  piacevole. 

Comprendo  perfettamente  che  la  stessa  osservazione  è  slata  fatta 
a  molti  compositori  dallo  Schumann  al  Brahms  e  che  la  questione  di 
pletora  apparente  svanisce  colla  dimestichezza  che  si  piglia  coU'autoiv: 
ma  questa  in  tin  dei  conti  è  una  pecca  e  deve  cercare  di  liberarsenr  il 
poderoso  ingegno  del  Caetani,  il  quale  non  può  di  proposito  delibeialo 
rinunciare  alla  maggior  efficacia  del  suo  lavoro  per  quanto  alto  sia 
r  ideale  artistico  che  lo  guida. 

La  ballata  in  fa  diesis  minore,  chopiniana  a  primo  aspetto,  è  Ira 
i  sei  nuovi  lavori  quella  che  guadagnerebbe  di  più  da  questo  proc('s>u 
di  semplificazione.  Nella  toccata  l'accento  ritmico  spiccalo  e  mantenuto 
tale  diminuisce  l'inconveniente  e  la  composizione  scintilla  veracemente 
come  ini  prisma  sotto  un  fascio  di  luce,  ed  è  di  effetto  sicuro  e  pere- ' 
grino  :  la  virtuosità  e  la  tecnica  appaiono  di  ottima  fusione.  j 

I  quattro  impromptus  formano  un  anello  simpatico:  musica  da  gran  ' 
signore,  vibrante  di  geniale  vitalità  nel  primo  e  nell'ultimo  (al  quale 
io  darei  la  palma),  leggermente  romantica  nel  secondo  e  nel  terzo,  questi 
impromptus,  nella  loro  apparente  tenuità,  sono  un  valido  contrappeso 
alle  tante  vacuità  che  fioriscono  oggidì,  divagazioni  inutili  fatte  per 
mascherare  l' incapacità  presuntuosa.  Quando  all'atto  pratico  si  tro- 
vano tanti  artisti  dilettanti  è  provvidenziale  che  sorgano  tempre  come 
il  Caetani,  e  che  combattano  gagliardamente  con  tutto  il  fervore  della 
convinzione,  con  tutto  l'entusiasmo  della  forte  giovinezza. 

Per  ritornare  ora  all'antico,  ritorno  che  di  tanto  in  tanto  fa  tanto 
bene,  avrei  da  dare  un  tuffo  in  un  largo  lavoro  di  illustrazioni  mu- 
sicali compiuto  da  artisti  insigni  :  ma  oggi  la  misura  è  colma  e  quindi 
riprenderò  ben  presto  il  discorso. 

Valetta. 


INGflILTEm  ED  ITALIA  NELLA  OOESTIONE  DI  MALTA 


Non  solo  il  gliKiizio  della  stampa  lii)erale  inglese,  che  è  a  Cham- 
berlain  sisteniatieanienle  avversa,  ma  la  preoccupazione  dimostrata 
ialla  Camera  dei  Comuni,  ove  tre  volle  in  sette  giorni  -  il  ^23,  il  35  ed 
il  29  giugno  -  fu  sollevata  la  questione  di  Malta,  dovrebbe  persua- 
iere  il  ministro  delle  Colonie  che  egli  non  fu  felicemente  inspirato, 
sonducendosi,  in  argomento  sì  delicato  per  parecchi  titoli,  con  una 
brutalità  che  non  aveva  alcuna  ragione  d'essere,  e  che  può  recare  con- 
seguenze, almeno  morali,  assolutamente  sproporzionate  all'inteiesse 
che  intendeva  di  tutelare. 

Non  citiamo  l'agitazione  prodottasi  a  Malta,  e  neppure  l'eco  che 
essa  e  la  causa  da  cui  fu  provocata  ebbero  in  Italia:  il  signor  Cham- 
berlain  potrebbe  trovare  una  tale  citazione  ino])]Jortuna.  Ma  della  con- 
venienza degli  atti  compiuti  dal  loro  Cìoverno  quali  migliori  giudici 
rlei  deputati  britannici"?  Ora,  questi  hanno  mostrato  la  convinzione 
che  la  violenza  usata  ai  maltesi  non  sia  ne  legale,  ne  utile:  e  non 
si  è  saputo  dimostrare  clie  essi  avevano  torto. 

Quando  il  signor  Cliamberlain  fece  appello,  contro  i  membri  elet- 
tivi del  Consiglio  di  Governo  di  Malta,  a  quei  padri  di  famiglia,  nella 
questione  della  lingua,  e  gli  fu  chiesto  se  le  risposte  di  quei  padri 
sarebbero  comprese  nel  promesso  Blue  Book,  il  signor  Chamberlain 
eluse  la  questione;  quando  fu  chiesto  se  potevasi  nelle  Colonie  sospen- 
dere la  Costituzione  senza  il  voto  del  Parlamento,  la  questione  fu 
elusa  dal  Presidente;  ed  il  signor  Chamberlain  infine  giocò  sulle  parole, 
i|iiaii(lo  si  voleva  sapere  se  le  misure  adottate  contro  Malta  erano  state 
itgticlto  di  corrispondenza  col  Governo  italiano,  col  richiamarsi  alla  sod- 
disfazione espressa  dal  Governo  stesso  nel  gennaio  dell'anno  scorso. 

La  citazione  di  quel  precedente  era,  invero,  pericolosa;  poiché  alla 
soddisfazione  d'allora  non  può  che  fare  riscontro  adesso  un  non  minore 
malcontento.  Allora,  infatti,  il  signor  Chamberlain  aveva  promesso  so- 
lennemente di  usare  a  Malta  i  maggiori  riguardi...  per  riguardo  al- 
l' Italia.  Ora,  invece,  dai  desiderii  italiani  hu  fatto  completa  astrazione. 
Il  no.stro  Governo  non  ha  potuto  e  non  può,  naturalmente,  interve- 
nire, trattandosi  di  un  atto  di  politica  interna  di  un  Governo  straniero; 
ma,  ove  contìdenzialmente  gii  si  chiedesse  della  sua  impressioue  sul 
modo  come  quelle  promesse  furono  mantenute,  non  potrebbe  a  meno  di 
dichiarare  che  è  stata  spiacevolissima. 

Spiacevolissima,  non  tanto  per  projirio  conto,  quanto  pel  paese, 
e  per  l'intluenza  che  l'incidente  ])uò  esercitare  sulle  simpatie  italiane 
verso  l'Inghilterra. 

Non  occorre  dire  che  il  tanto  accusato  irredentismo  degli  ita- 
liani-quell'irredentismo,  che  non  si  può  negare  assuma  a  volte  forme 
di  scarsa  avvedutezza  politica  -   non  è  affatto  in  causa.  Nessinio   fra 


140  INGHILTERUA    ED    ITALIA    NELLA    QCESTIONE  DI  MALTA 

gl'italiani  ha  mai  pensato  alla  possibilità  che  Malta  debba  essere  po- 
liticamente annessa  al  Regno  d'Italia.  Ma  il  sentimento  della  solida- 
rietà nazionale  non  è  mai  tanto  vivace  fia  noi  come  quando  lo  si 
offende,  si  cerca  di  reprimerlo  e  di  sopprimerlo;  quel  sentimento  di 
solidarietà  fra  maltesi  e  italiani,  che  già  si  era  risvegliato  nelle  lotte 
pel  nostro  Risorgimento,  e  che  poi  si  era  assopito,  si  è  rifatto  vivo 
e  pugnace  appunto  quando  prima  fu  sollevata  per  Malta  la  questione 
della  lingua;  ora  si  riaccenderà  più  che  mai. 

Nessuna  ragione  più  infondata  di  quella  addotta  dal  signor  Cham- 
berlain  quando,  a  giustificale  l'ostiacismo  da  lui  voluto  daie  alla  lin- 
gua italiana  da  Malta,  disse  in  Parlamento  che  si  trattava  pei  mal- 
tesi di  una  lingua  straniera,  al  pari  dell'  inglese,  poiché  a  Malta  si 
parla  un  dialetto  che  con  la  lingua  italiana  ha  poco  o  nulla  a  che 
vedere.  A  questa  stregua  si  dovrebbe  ammettere  che  la  lingua  italiana 
sia  straniera  anche  in  Italia,  poiché  non  vi  è  alcuna  delle  nostre  popo- 
lazioni che  non  parli  un  dialetto,  e  spesso  un  dialetto  lontano  dalla 
lingua  ancor  più  che  il  maltese.  Negare  con  ciò  1'  italianità  di  Malta 
é  puerile,  tanto  la  storia,  come  la  geografia,  depone  in  favore  di  quella 
italianità,  assolutamente  indiscutibile. 

Malt.i  fu  infatti  siciliana,  cioè  italiana,  sin  dal  109U,  in  virtù  di 
quegli  stessi  Normanni,  dai  quali  deriva  quell'ordinamento  della  so- 
cietà inglese  che  dura  tuttora.  Ruggiero  conte,  vi  fondò  la  cattedrale 
della  Notabile;  Ruggiero  re  vi  estese  le  varie  forme  del  governo  si- 
ciliano. In  Malta  come  in  Sicilia  i  re  Normanni  godettero  il  privilegio 
della  Apostolica  Legazione,  erano,  cioè.  Pontefici  i  on  meno  che  Re, 
e  il  Vescovo  di  Malta  era  suffraganeo  della  Metropolitana  di  Palermo. 

Data  in  feudo  nel  1530  da  Carlo  V  all'Ordine  Gerosolimitano,  che 
aveva  perduto  Rodi,  Malta  non  troncò  mai  intieramente  i  suoi  vincoli 
coi  Re  di  Sicilia,  i  quali  erano  sempre  considerati  come  i  suoi  Alti 
Sovrani,  tanto  che  i  gesuiti  furono  cacciati  anche  da  Malta  nel  1768 
per  volere  del  Re  di  Napoli,  quantunque  quel  Vescovo  li  proteggesse. 

La  conquista  francese  del  6  giugno  179S  ruppe  i  vincoli  politici 
di  Malta  con  la  Sicilia  ;  ma,  né  quella  conquista,  né  l'occupazione 
inglese,  che  aA'venne  nel  settembre  18(X»,  grazie  ad  una  insurrezione 
popolare  contro  ie  improntitudini  francesi,  né  il  possesso  dell'isola 
riconosciuto  alla  Gran  Bretagna  col  trattato  del  1814.  potevano  di- 
struggere i  vincoli  nazionali. 

Questi  divennero  anzi  più  intimi,  trasformandosi  da  regi  ed  eccle- 
siastici in  popolari,  quando,  vinta  la  rivoluzione  del  1848,  molti  pro- 
fughi siciliani  ed  altri  italiani  trovarono  in  Malta  ospitalità  generosa 
da  quei  conijiatrioti,  ed  asilo  sicuro  presso  quel  Governo;  il  quale 
non  vi  faceva  che  raramente  eccezione:  come  quando,  per  opportunità 
momentanea,  espulse  nel  dicembre  del  1854  Francesco  Crispi,  col  pre- 
testo che  vi  pubblicava  un  giornale  politico  compromettente.  Nicola  e 
Paolo  Fabrizi  vi  erano  con  Giorgio  Tamajo,  con  Giovanni  Daniele 
Vasta  ed  altri,  alla  testa  del  movimento;  Diego  Fernandez  corrispon- 
deva da  Malta  con  Francesco  Bentivegna;  da  Malta  partiva  nel  maggio 
1854  Giovanni  Interdonato  con  due  amici,  all'intento  di  sommuovere 
la  Sicilia,  e  spiato  ed  assalito  a  Rocca  Lumera,  sfuggiva  per  miracolo 
alle  palle  borboniche.  Malta  era  tanto  divenuta,  di  fatto  e  nel  con- 
cetto generale,  il  centro  dell'agitazione  patriottica  specialmente  sici- 
liana, che  recavano  la  data  di  Malta  -  benché  stampati  a  Genova 
nell'officina  dei  fratelli  Orlando  -  i  primi  numeii,  usciti  nell'agosto 
del  1856,  de  La  Libera  Parola,  la  pubblicazione  incendiaria  a  cui  colla- 


INGHILTERRA   ED   ITALIA  NELLA    QUESTIONE    DI    M.ALTA  141 

doravano  Rosolino  Pilo,  Antonio  Mordini,  Bartolomeo  Savi,  Carlo 
Pisacane,  e  quel  Falcone  che  con  Pisacane  doveva  cadere  a  Sanza. 
Molle  famiglie  maltesi,  a  incominciare  da  quella  degli  Sceberas,  ave- 
vano fatto  propria  la  causa  italiana.  Nel  1859,  durante  i  suoi  viaggi 
<li  preparazione  della  rivoluzione  siciliana.  Francesco  Crispi  tornava  due 
volle  a  Malta:  ed  a  Malta  si  preparavano  elementi  per  la  spedizione  dei 
Mille,  sinché  da  Malta  sbarcò  a  Pozzallo,  Nicola  Fabrizi  con  Giorgio 
Tamajo  e  con  Abele  Damiani,  che  anch"egli  aveva  ricoverato  a  Malta 
■dopo  l'insuccesso  glorioso  del  4  aprile.  Ed  erano  con  essi  armi  e  muni- 
zioni, che  a  Malta  erano  state  raccolte,  ed  ancora  nel  giugno  del  IStJO 
seguitavano  a  giungere  a  Malta  dalle  più  varie  parti  del  mondo  patrioti 
italiani  anelanti  alla  guerra,  e  da  Malta  Emilio  Sceberas  li  dirigeva, 
insieme  ad  altre  armi,  in  Sicilia. 

Tutto  questo  creava  fra  Malta  ed  Italia  un  vincolo  ancora  più 
forte  delia  consanguineità;  e  se,  dopo  il  ]8()0,  questa  intima  corrispon- 
denza di  aifetti  e  d'opere  sembrò  assopirsi,  specialmente  coll'acuirsi 
■del  contlitto  fra  l'Italia  ed  il  Papato,  causa  il  clericalismo  di  molti 
maltesi,  bastò  che  questi  vedessero  minacciata  nella  lingua  la  loro  na- 
zionalità, perchè  ancora  si  dirigessero  all'Italia  come  alla  loro  tulrice 
naturale,  e  perchè  l'Italia  sentisse  il  dovere  morale  di  non  disinte- 
ressarsene. Tanto  che  lo  stesso  Governo  nostro,  per  solito  si  alieno  da 
ogni  iniziativa  men  che  prudente,  se  ne  occupò  presso  il  Gabinetto  di 
Londra,  e  nei  due  Parlamenti  di  Londra  e  di  Roma  quell'interessa- 
mento assunse  foroia  ufiicialmente  pubblica,  nel  modo  il  più  soddisfa- 
cente; grazie  anzitutto  alle  dichiaiazioni  di  quello  stesso  Cliamberlain, 
dal  quale  è  oggi  partito  il  colpo  di  Stato  che  ha  limesso  tutto  in  que- 
stione. Non  per  questo  gl'italiani  metteranno  oia  in  forse  la  legittimità 
del  dominio  biitannico  a  Malta.  Benché  in  linea  di  diritto  quel  do- 
minio abbia  avuto  origine  dal  consenso  della  popolazione,  che  accolse 
gl'inglesi  in  odio  ai  francesi,  e  benché  ragionevolmente  i  maltesi  si 
dolgano  oggi  di  esseie  trattati  come  un  paese  di  conquista,  con  di- 
spregio a  quella  libertà  che  l'Inghilerra  si  compiace  di  lasciare  nelle 
cose  interne  alle  sue  colonie,  se  nel  18ó5  Crispi,  in  uno  studio  dei 
Diritti  della  Corona  d' Inghilterra  sulla  Chiesa  di  Malta,  lamentava 
■che  il  Governo  britannico  avesse  rinunciato,  a  benefìcio  di  Roma,  al 
privilegio  sulla  Legazione  Apostolica,  non  vi  è  neppure  oggi  un  ita- 
liano che  vorrebbe  menomato  il  dominio  inglese  sopra  Malta  e  l'eser- 
cizio internazionale  di  quel  dominio.  Non  lo  vorrebbe  menomato,  per 
"la  amicizia  organica  che  anima  tutto  il  popolo  italiano  veiso  gl'in- 
glesi, e  perchè  lutti  riconoscono,  d'altronde,  che  il  volerlo  e  il  desi- 
derarlo sarebbe  assolutamente  vano.  Malta  è  oggi  necessaria  alla  Gran 
Bretagna  ancora  più  di  Gibilterra,  poiché,  a  lutto  rigore,  Gibilterra 
potrebbe  essere  scambiata  con  Ceuta,  senza  che  la  supremazia  inglese 
nel  Mediterraneo  ne  fosse  diminuita,  mentre  da  nessun'altra  posi- 
zione Malta  potrebbe  essere  sostituita,  specialmente  da  quando  la 
Francia  ha  fatto  di  Biserta  il  più  grande  porto  militale  d'Europa. 

Ma  è  appunto  l'inesistenza  morale  e  la  impossibilità  materiale  di 
qualunque  pericolo,  che  rende  assolutamente  oziosa  la  violenza  eserci- 
tata su  Malta  dal  signor  Chamberlain,  il  quale  mai  come  in  questo  caso 
avià  confermato  la  regola  che  vuole  ogni  qual  tratto  soggetti  ai  pic- 
coli errori  gli  uomini  di  vasta  levatura. 

Errore  piccolo  in  questo  caso,  ma  grave  nello  stesso  tempo  ;  poi- 
ché, se  i  maltesi,  come  essi  per  primi  riconoscono ,  possono  essere 
schiacciati  senza  fatica,  se  è  tolta  loro  persino  la  possibilità   di   una 


142  IXGHII.TEKRA   ED    ITALIA    NELLA    QIIESTIOXE    1)1    JL\LTA  I 

resistenza  qualunque,  l'effetto  di  tutto  ((uesto  nei  sentimenti  dejìli  ita- ; 
liani  può  essere  notevole.  Ora,  V  Italia  è  per  l'Inghilteria  ima  quan- 
tità tutt'altio  che  trascural)ile  nel  sistema  mondiale;  e  l'alleanza  in- 
glese era  tra  tutte  le  alleanze,  passate,  presenti,  future,  quella  che 
trovava  unanime  nel  consenso  tutto  quanto  il  popolo  italiano.  La  po- 
litica del  Governo  nostro  non  muterà  per  questo,  per  quanto  ess.i 
possa  far  sentire  a  Londra  il  suo  rincrescimento:  ma  la  politica  dei 
Governi  non  è  oggi  mai  tanto  forte  e  sicura  come  quando  è  appoggiata 
dal  suttragio  delle  popolazioni,  e  se  questo  venisse  a  mancare  all' In- 
ghilterra da  parte  del  popolo  italiano,  anche  le  relazioni  ufficiali  non 
potrebbero  non  risentirsene. 

Che  cosa  ci  guadagnerà  l'Inghilterra,  mentre  invano  si  tenterà 
di  sopprimere  l'antagonismo  franco-inglese,  mentre  l'avversione  ger- 
manica tace  a  fatica,  mentre  il  Nord-America  non  si  è  lasciato  sedurre 
dalle  profferte  d'alleanza  del  signor  Chamberlain,  ed  il  conflitto  con 
la  Russia  in  Asia  è  permanente,  per  ciuanto  ad  istanti  larvato  "? 

Il  signor  Chamberlain  ed  altri  uomini  politici  inglesi  hanno  van- 
tato le  gioie  del  superbo  isolamento  della  Gran  Bretagna  ;  ma  la 
grande  coscienza  che  il  Regno  LTnito  ha  di  sé  stesso  non  ha  impe- 
dito che  l'esplosione  di  antipatia  provocata  dalla  guerra  Sud-Africana 
gli  riuscisse  pesante,  e  che  tanto  più,  quindi,  fosse  grato  al  popolo 
inglese  il  contegno  tenuto  dagli  italiani,  ancora  non  offesi  nelle  loro 
suscettibilità  sentimentali. 

Che  quell'isolamento,  del  resto,  comprenda  pericoli  insieme  a  gioie, 
è  un  latto  di  cui  la  stessa  InghilteiTa  è  tanto  convinta  da  averne 
l'inspirazione  per  una  politica  che  renda  più  intimi  i  rapporti  della 
madre  patria  con  le  Colonie.  È  uscito  da  quella  convinzione  l'enun- 
ciato  della  nuova  politica  doganale,  che,  se  divide  l'opinione  pub- 
blica e  lo  stesso  Gabinetto  inglese,  ha  pure  la  sua  ragione  d'essere 
nelle  conseguenze  che,  in  certe  circostanze,  possono  all'Inghilterra 
derivare  da  quell'isolamento. 

Né  se  l'ideale  di  Chamberlain  si  realizzasse,  e  Regno  LTnito  ed 
Impero  Britannico  si  fondessero  in  un  solo  ente,  tutto  sarebbe  detto. 
Per  la  vastità  stessa  e  l'indole  di  quell'Impero,  il  concorso  immediato 
e  diretto  delle  Colonie  sarebbe  assolutamente  impossibile  in  più  casi. 
Che  cosa  potrebbero  esse,  ad  esempio,  in  una  gueri'a  come  quella  che 
l'Inghilterra  è  stata  costretta  ad  imprendere  nell'Africa  Orientale  contro 
il  Mad  Mullah'?  Il  buon  volere,  l'amicizia  dell'Italia  sono  stati  questa 
volta  più  necessarii  e  più  giovevoli  alla  Gran  Bretagna,  che  tutto  il 
denaro  e  tutti  i  soldati  che  le  Colonie  potevano,  essere  disposte  ad  of- 
frire. Molte  altre  volte  ciò  può  avvenire,  e.  se  anche  non  avvenisse, 
non  meno  preziosa  sarebbe  sempre  per  l'Inghilterra  quell'alleanza  mo- 
rale e  politica  dell'Italia,  che  tutti  gli  statisti  britannici  hanno  sempre 
professata,  almeno  a  parole.  E  che  ima  tale  alleanza  non  sempre  sia 
stata  servita  di  fatto,  è  rincresciuto,  non  men  che  a  noi,  airo|)inione 
pubblica  inglese.  Essa  non  risparmiò,  ad  esempio,  i  suoi  rimproveri  a 
lord  Salisbury,  quando  questi,  con  la  sua  lenta  freddezza,  non  ci  giovò 
in  Africa  come  avrebbe  potuto  e  dovuto;  e  quando,  per  le  dichiarazioni 
dell'on.  Prinetti  e  del  signor  Delcassé,  fu  proclamato  nei  due  Paria- 
lamenti  di  Roma  e  di  Parigi  l'accordo  franco-italiano,  quei  rimproveri 
divennero  anche  più  acerbi,  inspirati  dal  timore  che  l'Italia  si  fosse 
intieramente  allontanata  dalla  Gran  Bretagna. 

L'eco  di  un  tal  timore  risuona  anche  nelle  interrogazioni  rivolte 
ora  ai  Comuni,  e  noi  vorremmo  che  il  signor  Chamberlain  ne  traesse 


INGHILTERRA    ED    ITALIA    NELLA    QUESTIONE   DI    MALTA  14:3 

lorma.  se  non  altro  nell'applicazione  delle  misure  da  lui  escogitate  per 
ivere  ragione  della  resistenza  maltese  nella  questione  della  lingua. 

È  certo  che  il  Governo  britannico  ha  diritto   di  vedere    compresa 
!d  accolta  la  lingua  inglese  in  tutte  le  istituzioni  pubbliche  di  Malta; 
na  è  pur  certo  che  esso  non  riuscirà  mai  a  distruggere  con  la  violenza 
a  esistenza  nelfisola  della  lingua  italiana.  E  anche  se  dovesse  rimaner 
soppressa  la  Costituzione  del  1887,   ed  es.sere   quindi  puramente  illu- 
iorio  quel  Consiglio  di  Governo,  nel  quale  gli  elementi  elettivi  sono 
)rmai  in  minoranza  e  quindi  destituiti  d'ogni   potere,  il  Governo  in- 
glese avrebbe  tutto  l'interesse  a  procedere  nella  pratica  con  la   mag- 
giore  longanimità.    E    non    solo    per  ciò  che  riguarda  la  lingua  e  le 
lasse,  le  due  ragioni,  cioè,  del  conflitto.  Invece  di  sopprimere  addirit- 
tura la  Costituzione  del  1887,  meglio  dunque  avrebbe  fatto  il  Governo 
inglese  a  ricorrere  alle  elezioni  contro  il  Consiglio  di  Governo,    e   se 
inche  le  elezioni  gli  avessero  dato    toi'to,    avrebbe    potuto    riformare 
nella    Costituzione   il  capitolo  elettorale,  allargando  il  suffragio,  se  è 
vero  che  i  capi  famiglia  erano,  e  sono,  per  lui  contro  il  Consiglio  di- 
sciolto. 11  partito  scelto  dà  invece  diritto  ai  consiglieri  di  proclamare 
che  il  signor  Chamberlain  è  stato  insieme  violento  e  meno  corretto. 
Con  la  pseudo-costituzione  attuale,  il  governatore  ha,  ad  esempio, 
il  diritto  di  concedere  proprietà  immobiliari  senza  chiedere  l'approva- 
zione del  Consiglio  di  Governo.  Ora,  l'applicazione  di  questo  diritto, 
fatta  in  un  modo  piuttosto  che  in  un  altro,  potrebbe  far  nascere  il 
sosjietto  che  il  Governo  britannico  voglia  adoperarsi  a  snazionalizzare 
Malta,  eliminando  l'elemento  maltese  ed  italiano,  a  benefìcio  dell'ele- 
mento inglese.  Ma  se  cosi  fosse,  quale  frutto  ne  trarrebbe  1  Quale  so- 
spetto di  separatismo  può  mai  suscitare  luia  popolazione  che  è  in  tutto 
(li    180,(X)t)  anime  ?  Né  le  isole   maltesi  sarebbero   mai  suscettibili  di 
accogliere  una  immigrazione  italiana  così  numerosa  come  quella  clie 
a  Tunisi  finirà  col  rendere  formale  l'occupazione  francese,  tanto  era 
destino  segnato  dalla   stessa  nafuia.  che  Tunisi  divenisse  di  fatto  ita- 
liana, anche,  o  appunto  perchè  i  francesi  avevano  voluto  impadronir- 
sene d'un  tratto  e  per  vie  co|ierte.  Una  immigrazione  artificiale  inglese 
a  Malta  non  sarebbe  dunque  giustitìcata.  più  di  una  imposizione  vio- 
lenta della  lingua  inglese. 

Tutto  invece  consiglia  a  Chamberlain.  all'intero  Gabinetto  britan- 
nico, temperamenti  che.  acquetando  i  maltesi,  spegnino  in  germe  il 
malcontento  del  popolo  italiano,  e  lo  tengano  unanime  in  quel  senti- 
mento d'amicizia  verso  1"  Inghilterra,  che  è  supremo  interesse  reciproco 
dei  due  paesi. 

1  maltesi  si  sono  lagnati,  e  non  a  torto,  che  la  violenza  di  cui 
sono  vittime  al)bia  seguito  a  lireve  distanza  la  visita  di  Re  Edoardo. 
Quella  violenza  mal  risponde,  del  pari,  alle  liete  e  rispettose  accoglienze 
fatte  a  Re  Edoardo  in  Roma,  ed  a  quelle  che  Governo  e  popolo  inglese 
si  apprestano  a  fare  a  Re  Vittorio.  Sarebbe  atto  di  vera  sapienza  da 
parte  del  Gabinetto  di  San  Giacomo  il  far  sì  che  nulla  rimanga  del- 
l' incidente  attuale,  quando  il  ('apo  dello  Stato  italiano  giungerà  in 
Londra,  evitando  così  che  si  accrediti  nelle  masse  1  impressione  che 
nulla  valgono  e  a  nulla  conducono  quegli  scambi  di  visite  regali,  che 
nell'interesse  stesso  del  principio  monarchico  dovrebbero  invece  dimo- 
strare praticamente  di  contenere  la  maggiore  importanza  politica. 

XXX 


TRA  LIBRI  E  RIVISTE 


I  Congressi  di  Roma  —  Un  Dante  barbuto  —  Lo  spirito  scientifico  —  Zetto  - 
A  Campfer  nell"  Bngadina  —  «  II  Genio  »  di  H.  Bérenger  —  Marsigli.i 
i  porti  franchi  —  In  libreria  —  La  riabilitazione  dei  Carlyle. 


I  Congressi  di  Roma. 

La  Renaissance  Latine  è  una  ri- 
vista che  ha  pochi  mesi  di  vita,  ma 
si  è  affermata  fin  dal  principio  forte- 
mente. Essa  ha  anche  uno  spirito  in- 
formatore assai  spiccato.  Come  dal 
titolo,  essa  si  proi^one  d'illustrare  le 
manifestazioni  dei  popoli  latini  in 
tutti  i  campi  della  vita  moderna.  Di- 
retta dal  principe  Di  Brancovan,  ha 
per  collaboratori  molte  robuste  forze 
della  letteratura  francese  d'oggi,  Bar- 
rès,  Hermant,  De  Regnier,  Madame 
De  Noailles,  Paul  Adam,  Gregh, 
Jammes,  ecc.,  e  molti  amici  del- 
l' Italia,  Muret,  Loiseau,  ecc.  Ab- 
biamo letto  recentemente  un  articolo 
pieno  di  spirito,  di  Jacques  Vontade, 
intorno  alla  vita  romana,  intitolato 
Dii  Viminal  à  l' Aventin,  e  delle  Im- 
pressions  d'Italie  della  principi  ssa 
A.  de  Caraman-Chimay.  Nell'ultimo 
numero  il  signor  Julien  Luchaire 
scrive  intorno  ai  Congressi  di  Roma. 
Quest'articolo  è  il  più  importante  che, 
su  questo  soggetto,  sia  venuto  a  no- 
stra conoscenza.  Ne  riassumiamo  i 
punti  più  caratteristici. 


«  Roma  è  sempre  stata  agli  occhi 
dell'Europa  -  dice  il  Luchaire  -  una 
città  speciale  :  la  Città-art  heologia,  la 
Città-poesia,  la  Città-religione,  ma 
essa  è  divenuta  qualcosa  di  più.  Non 
è  certo  per  il  Papa  che  la  Francia 
ha  testé  mandato  Chaumié  e  Paul 
Meyer,  né  per  Augusto  o  Caracalla  ». 
È,  al  contrario,  per  1'  Italia  d'oggi. 
E  qui  lo  scrittore  nota  i  progressi 
economici  della  nazione  e  la  stima 
•ch'essa  va    acquistando    nel  mondo. 


Mentre  Roma  vedevasi  solcata  di 
nuove  strade  e  di  tram  elettrici, 
mentre  Genova  uguagliava  e  sorpas- 
sava Marsiglia,  mentre  il  cambio  colla 
Francia  diminuiva  fino  a  zero,  in- 
tanto i  medici  italiani,  i  giurecon- 
sulti e  gli  economisti  gareggiavano 
con  quelli  di  Germania,  d'  Inghil- 
terra e  di  Francia  ;  Marconi  maravi- 
gliava il  mondo  come  l'avevano  fatto 
maravigliare  Roentgen  e  Edison;  gli 
eruditi  di  Firenze,  di  Milano,  di  To- 
rino, di  tutte  le  pro\^incie,  produce- 
vano lavori  considerevoli  :  insomma 
un'  attività  individuale  eguale  all'at- 
tività economica  e  sociale.  Ecco  il 
legame  fra  le  visite  dei  re  e  quelle 
dei  congressisti  di  tutto  il  mondo. 
Gli  uni  e  gli  altri,  nelle  chiare  e  liete 
giornate  della  primavera  romana,  ve- 
nivano a  risalutar  l'Italia  rigenerata, 
ritornata  al  suo  posto  fra  le  grandi 
potenze  del  mondo. 

Lo  scrittore  nota  l'accento  fami- 
gliare e  fraterno  del  Congresso  La- 
tino e  trova  che  gli  altri  Congressi 
parevano  pure  far  rilevare  questo 
senso  :  pareva,  «  senza  poterne  dir 
precisamente  il  perchè,  una  gran 
festa  di  famig  ia,  a  cui  si  fossero 
invitati  alcuni  stranieri,  anglo-sassoni 
o  germani  ».  Il  Luchaire  nota  con 
piacere  che,  per  portar  il  saluto  al 
Re,  non  si  scelse  un  tedesco  o  un 
francese,  ma  un  belga,  mezzo  ter- 
mine, che  parlò  francese.  l'Qui  la 
memoria  gli  fa  difetto.  Il  Fiédèric 
parlò  italiano.  Meglio,  non  è  vero?)  I 
latini  si  distinguevano  e  si  riconosce- 
vano ;  e  pareva  che  avessero  gran 
voglia  di  affermarsi  capaci  anche  di 
qualità  che  loro  non  si  riconoscono 
di  sovente,  fermezza,  disciplina,  riso- 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


145 


luzione.  Perfino  lo  sciopero  dei  tipo- 
grafi e  i  tre  giorni  di  sciopero  gene- 
rale sembravano  dimostrare  di  propo- 
sito, tanto  dalla  parte  del  Governo 
quanto  del  popolo,  una  disciplina  che 
stupì  i  forestieri. 

Qui  lo  scrittore  riassume  i  risultati 
dei  lavori  al  Congresso  storico.  Come 
era  giusto,  i  primi  onori  si  fecero 
alla  produzione  italiana,  «  notevolis- 
sima sopratutto  per  la  storia  d'Italia 
e  particolarmente  del  medio  evo  ». 
I  Comuni  italiani  sono  per  le  nostre 
democrazie  moderne  un  soggetto  in- 
teressantissimo, che  dovrebb' essere 
classico  quasi  quanto  la  storia  d'A- 
tene e  di  Roma.  «  Gl'Italiani  sono 
altieri  della  loro  storia  comunale, 
ed  hanno  ragione  di  studiarla,  co- 
me fanno,  con  una  p  izienza  minu- 
ziosa, un  metodo  impeccabile  ».  Egli 
cita  la  riedizione  del  Muratori,  il  pro- 
getto di  un  Corpus  inscriptionum  ita- 
ìicarum  medii  erri,  di  un  Corpus  cìiar- 
tavum  Haliae,  di  un  Corpus  di  me- 
daglie del  Rinascimento.  Giovani  e 
anziani,  i  lavoratori  non  mancano  in 
Italia.  «  L'Istituto  di  studi  superiori 
di  Firenze  è  un  seminario  che  vale 
i  nostri  grandi  stabilimenti  scientifici 
di  Parigi,  la  «  Ecole  des  Chartes  >> 
o  «  des  Hautes  Etudes  »  o  le  Facoltà 
di  lettere:  e  gl'Italiani  hanno  qual- 
cosa che  a  noi  manca,  delle  Società 
provinciali  di  storia  perfettamente  av- 
viate nei  metodi  nuovi,  che  pubbli- 
cano riviste  locali  serie  e  delle  col- 
lezioni eccellenti  di  testi...  Gl'Italiani 
fanno  ora  la  storia  bene  quanto  i  Te- 
deschi o  noi  :  ecco  quel  che  appre- 
sero coloro  che  ancor  non  lo  sape- 
vano ».  Perfino  nelle  cose  d'arte, 
cittadella  dell'  Estetismo,  la  critica 
bandisce  il  falso  sentimento.  «  C  è 
in  Italia  tutto  un  partito,  contrario 
alla  rico.struzione  del  Campanile  di 
Venezia,  per  la  ragione  che  il  nuovo 
non  sarà  autentico  ;  sono  piuttosto 
-gli  stranieri  che  si  mostrano  senti- 
mentali a  questo  riguardo...  La  sezione 
di  Storia  dell'arte  ha  dichiarato  ad 
unanimità  che  conviene  lasciare  in- 
tatta la  facciata  del  Duomo  di  Mi- 
lano ». 

I  progetti  di  associazioni  interna- 
zionali per  la  storia  delle  scienze, 
dell'arte  medievale  e  moderna,  piac- 
ciono assai  al  Luchaire,  il  quale  si 
.associa  pure  al  voto  fatto  dal  Con- 
io 


gresso  affinchè  i  Governi  aprano  gli 
archivi,  almeno  quelli  che  non  vanno 
oltre  il   1847. 

Del  soggiorno  di  Roma,  delle  vi- 
site al'a  villa  Albani,  a  Ninfa  e  Xorba, 
lo  scrittore  è  rimasto  incantato.  «\'oilà 
des  beautés  que  Berlin,  dansdeux  ans, 
ne  nous  offrirà  pas  ». 


Il  Luchaire  rappresentava  la  Re- 
naissance Latine  al  Congresso  La- 
tino. Egli  ama  1'  idea  del  professor 
De  Gubernatis,  e  pur  criticando  una 
impresa  che  alla  sua  prima  manife- 
stazione non  può  d'un  balzo  mo- 
strarsi perfetta,  trova  che  il  Congresso 
fu  «  un  de  ces  spectacles  rares  en 
notre  siede  pratique,  où  reparait  le 
vieux  fonds  d'enthousiasme  pour  les 
grands  principes  et  les  grands  senti- 
ments,  de  confiance  naive  en  l'Idée, 
que  l'humanité,  heureusement,  n'a 
pas  perdu  ;  et  si  la  fagon  dont  il  se 
manifeste  parfois  donne  la  tentation 
de  sourire,  on  a  tort,    grand  tort  ». 

Egli  trova  che  la  consacrazione 
ufficiale  era  forse  superflua:  dalle 
persone  ufficiali  non  si  potevano  in 
questo  caso  attendere  che  frasi  so- 
nore: idealismo,  fede,  grandezza  ro- 
mana, ecc.  Trova  che  il  latino  è 
inoffensivo  quando  si  sbizzarrisce  nei 
meuus,  e  scrive  lumbos  z'itulinos  cuni 
pisis  nostratibus  (vitello  con  piselli)  o 
asparagos  burro  madidos,  ma  che  de- 
nominar gli  automobili  currus  in- 
terna vi  actos  è  piuttosto  curioso,  e 
offensivo  per  alcuni  chiamar  lo  scio- 
pero opificum  desertio.  In  tal  modo  si 
dimostra  quello  che  il  Congresso  non 
voleva  dimostrare,  cioè  che  il  latino 
non  serve  affatto  come  lingua  inter- 
nazionale moderna.  Un'  altra  cosa 
che  parve  allo  scrittore  poco  latina 
è  l'applauso  all'abate  di  Grottafer- 
rata  che  sermocinava  gli  scienziati 
imponendo  loro  «  certi  limiti,  al  di 
là  dei  quali,  ecc.  ecc.  ». 

Seguiamo  volentieri  il  Luchaire  nel 
tentativo  eh'  egli  fa  di  determinare 
l'idea  del  movimento  latino  promosso 
dal  prof.  De  Gubernatis.  «  Si  parlò 
molto  di  Roma,  faro  del  mondo,  d'in- 
tellettualità greco-latina,  e  anche  di 
pace  e  d'amor  fraterno.  Era,  presso 
certuni,  l'espressione  d'un  istinto  sin- 
cero e  giusto.  Ma  bisogna  sapere  che 
cosa  significhino  quelle  parole  e  dove 

Voi.  evi,  Serie  FV  -  1»  luglio  1903. 


146 


TRA    LIBRI   E   RIVISTE 


ci  conducano.  Se  c'è  un'idea  latina 
-  o,  più  esattamente,  neo-latina  (ed 
io  penso  che  c'è,  che  dev'esserci,  e 
che  è  necessaria  al  progresso  umano) , 
quest'idea  è  duplice:  è,  da  una  parte, 
quando  si  parla  d'educazione  clas- 
sica, l'idea  dell'Arte,  e  quando  si 
parla  di  pace,  l'idea  del  Diritto.  Non 
c'è  al  certo  nei  dominio  delle  idee 
alcuna  proprietà  esclusiva  ;  nondi- 
meno mi  sembra  che  il  mondo  latino 
può  rivendicare  quelle  due,  come  suo 
contributo  al  patrimonio  comune  del- 
l'umanità; idee  il  cui  sviluppo  ci  è 
particolarmente  confidato,  parallela- 
mente e  d'accordo  coli' idea  scienti- 
fica e  l'idea  economica,  le  due  altre 
grandi  forze  d'oggi  ». 

La  parola  felice  fu  trovata  dal  mi- 
nistro Nasi  :  «  un  nuovo  umanesimo  : 
l'umanesimo  sociale  »,  che  significa, 
secondo  il  Luchaire  :  -  Non  siate 
classici  stret.i,  ciechi,  reazionarii  ; 
non  affettate  disdegno  per  la  scienza 
moderna;  non  pigliate  un'attitudine 
d'esteti,  d'aristocratici.  Il  vecchio 
classicismo  è  finito,  sterile,  ridicolo. 
Se  volete  essere  qualcosa,  siate  i  pro- 
motori d'un  nuovo  umanesimo;  -  adat- 
tamento dell'antico  ai  bisogni  della 
vita  moderna,  bisogni  intellettuali, 
politici,  economici,  sociali.  La  qua- 
lità dominante  dell'intelligenza  della 
nostra  razza  è  il  buon  senso,  la  lo- 
gica, la  chiarezza;  il  classicismo, 
l'umanesimo,  furono  nel  primo  e  nel 
sesto  secolo  due  momenti  maravì- 
gliosi,  in  cui  la  nostra  razza  è  stata 
la  coscienza  profonda  e  chiara  del- 
l'umanità d'allora.  Siamo,  noi  latini 
d'oggi,  se  possiamo,  la  coscienza 
profonda  e  chiara  dell'umanità  pre- 
sente. Per  ciò  non  respingiamo  nulla, 
non  detestiamo  nulla,  nulla  di  ciò  che 
è  essenziale  e  vero  ;  comprendiamo 
tutto ,  coordiniamo  tutto,  siamo  im- 
parziali ed  armoniosi.  Cos'i  potremo 
conservare  e  far  trionfare  il  nostro 
retaggio:  il  senso  della  Bellezza  e  il 
.senso  della  Giustizia. 


Un  Dante  barbuto. 

Il  signor  Walter  Littlefield  parla 
nel  Critic  della  dibattuta  questione 
del  ritratto  di  Dante  scoperto  da  Ales- 
sandro Chiappelli  nella  Cappella  de- 
gli Strozzi  a  Firenze  (Vedi  Nuova  An- 


tologia, 16  aprile)  premettendo  che  ui 
ritratto  dal  vero  del  sommo  poeta  non 
fu  trovato  ancora,  e  che  tutti  i  ritratti 
noti  finora  sono  di  maniera,  poiché 
differiscono  dalle  indicazioni  che  ne 
abbiamo  nelle  opere  del  poeta  stesso  \ 
e  nella  l'ita  del  Boccaccio.  Già  Ro- 
mualdo Fantini  n^tWii  Nazione  (28  gen- 
naio) asseriva  che  il  ritrovamento  del 
Chiappelli  non  apporta  nessuna  riso- 
luzione nuova.  Il  Dante  tradizionale  è 
ben  noto,  una  faccia  sbarbata,  i  cui 
tratti  son  tutti  tirati  verso  il  mento, 
faccia  che  fu  deformata  sin  quasi  a  ri- 
durla una  maschera  di  vecchia  zitella 
astiosa.  Si  dovrebbe  ora  cercare  una 
immagine  che  possa  accordarsi  con 
l'affermazione  boccaccesca  di  un  Dante 
barbuto  e  coi  parecchi  passi  del  Poeta, 
dove  realmente  o  metaforicamente  par 
che  accenni  alla  sua  barba. 

Analogamente  conclude  il  Little- 
field. Egli  riporta  i  versi  del  Purga- 
torio,  XXXI: 

...  ed  ella  disse  :  «  Quando 
Per  udir  se'  dolente,  alza  la  barba, 
E  prenderai  più  doglia  riguardando  » , 

in  cui  Beatrice  accenna  alla  sua  barba 
perchè  ella  desidera  ricordargli  la 
sua  età  adulta. 

«  Io  non  dubito  menomamente  che 
Dante  portasse  la  barba  durante  il 
suo  esilio  e  fino  alla  morte.  Per  con- 
seguenza queste  effigie  che  lo  rap- 
presentano quale  autore  della  Divina 
Commedia  errano  tutte.  È  naturale  che 
gli  studenti  di  Firenze,  che  leggevano 
la  { 'ita  del  Boccaccio  o  ascoltavano 
le  sue  letture,  prendessero  il  ritratto 
della  cappella  del  Podestà  per  quello 
che  esso  raffigurava  -  il  Dante  che 
tutta  Firenze  avea  conosciuto  quale 
amico  di  Guido  Cavalcanti  e  di  Giotto, 
quale  era  il  giovanissimo  autore  della 
Vita  Nova.  Tutti  gli  artisti  posteriori 
ricevettero  la  loro  ispirazione  da  quel 
ritratto,  mutando  le  fattezze,  alteran- 
done l'abito  sì  da  conformarlo  alla 
loro  idea  d'un  Dante  d'età  matura. 

«  Le  ricerche  intorno  all'errante  Ali- 
ghieri del  divino  Poema  non  devono 
prefiggersi  un'  immagine  idealizzata 
del  ritratto  del  Bargello.  Forse  esso 
esiste  negli  affreschi  di  Verona  o  delle 
vicine  città,  Mantova,  Padova,  Ve- 
nezia. Un  giorno  può  venir  scoperto 
sotto  uno  strato  di  calce  o  traverso- 
il  rifacimento  di  qualche   artista  del. 


TRA   LIBRI    E    RIVISTE 


147 


(.'in 


.  inquecento.  Ma  l'ispirazione  alla  sco- 
jierta  dev'essere  l'immagine  di  un 
I  )ante   barbuto  ». 


Lo  spirito  scientifico 
di  fronte    all'attuale    letteratura. 

Nel  1901,  in  occasione  del  suo  giu- 
iiileo,  lo  scienziato  Berthelot  pronun- 
(  io  questa  frase;  «  La  science  est 
aujourd'hui  en  mesure  de  revendi- 
juer  la  direction  morale  et  matérielle 
i1l-s  sociétés».  Camille  Mauclair,  ri- 
cordando la  profonda  sensazione  che 
tale  frase  produsse,  ha  voluto  nella 
A'ez'ue  del  15  giugno  commentare  la 
sentenza  che  esprimeva  una  vera  fede, 
comune  a  tutti  i  devoti  dell'  ideale 
scientifico. 

Che  la  scienza  -  egli  scrive  - 
possa  rivendicare  la  direzione  mate- 
riale delle  società,  è  stato  general- 
mente ammesso,  poiché  assai  pochi 
sono  in  grado  di  valutare  lo  sforzo 
scientifico  moderno  e  questa  ignoranza 
della  scienza  non  permette  loro  di 
scorgerne  che  i  risultati  tangibili.  La 
evidenza  delle  applicazioni  li  conqui- 
sta. Alla  folla  il  sapiente  odierno,  in- 
ventore del  telefono,  del  fonografo, 
dell'acetilene  o  dei  raggi  X  sembra 
un  mago  moderno.  I  risultati  pratici 
delia  scienza  danno  agli  spiriti  co- 
muni una  visione  d'un  futuro  mondo 
meccanico  veramente  lusinghiera. 

Ma  altri  spiriti  -  continua  il  Mau- 
clair -  senza  misconoscere  i  benefici 
materiali  della  .scienza,  erano  risoluti 
a  sostenere  anzitutto  che  non  vi  è 
«  !a  Scienza  »  ma  semplicemente  «  le 
scienze  »  e  che  questa  distinzione  è 
grave  di  conseguenze  ;  e  in  seguito, 
che  le  scienze  non  possono  preten- 
dere a  una  direzione  morale  delle  so- 
cietà se  non  per  mezzi  molto  indi- 
retti. Per  esempio,  1'  introduzione 
progressiva  dei  dati  scientifici  nel  do- 
minio industriale  può,  modificando  le 
condizioni  della  produzione  e  delle 
tariffe,  generalizzando  l'igiene,  e  via 
via,  aver  un'influenza  sociologica... 

Per  una  .strana  inversione,  gl'in- 
tellettuali ,  che  consideravano  un  tempo 
la  scienza  come  una  sorella  della  fi- 
losofia, cominciarono  a  detestarla  per 
ragioni  opposte  a  quelle  che  le  ave- 
vano acquistata  la  simpatia  confidente 
della  folla.  Gli  intellettuali  le  rimpro- 


verarono di  allontanarsi  dai  problemi 
ideologici,  di  tornare  alla  specializ- 
zazione, di  dedicarsi  all'analisi,  anziché 
alle  idee  generali  :  e  per  conto  pro- 
prio continuarono  ad  architettare  dei 
sistemi  a  pi'iori,  a  dibattersi  nelle  ca- 
tegorie kantiane  e  neo-kantiane,  a  fare 
delle  bizzarre  variazioni  su  l'idealismo 
di  Cousin  o  di  Jouffroy,  a  trasformare 
l'idea  cristiana  o  a  risalire  all'elleni- 
smo, a  deformar  Schopenhauer,  ad 
amalgamar  la  metafisica  e  la  morale, 
a  conciliare  il  razionalismo  e  l'ani- 
mismo, infine  a  confonder  passioni, 
ragioni,  istinti,  ciascuno  secondo  il 
suo  gusto  personale,  e  a  costruire  ad 
ogni  momento  delle  sintesi  ipotetiche 
e  leggermente  declamatorie. 


Pertanto  essi  furon  inesorabilmente 
ricondotti  al  lor  punto  di  partenza, 
davanti  agli  stessi  problemi  originari 
della  causalità  e  della  finalità.  Avvenne 
allora  che  certuni,  stanchi  di  questi 
vani  discorsi,  si  voltarono  verso  la 
scienza  e  si  chiesero  se  essa  non  avesse 
trovato  nella  sua  marcia  lenta  e  poco 
brillante  qualche  punto  positivo.  Vi 
furono  due  ravvicinamenti  alquanto 
dannosi. 

Il  primo  si  fece  colla  divulgazione 
delle  idee  darwiniane,  che,  commen- 
tate a  torto  e  a  traverso  da  letterati 
e  moralisti  da  salotto,  e  considerate 
come  la  glorificazione  dell'ateismo  e 
la  consacrazione  del  Io  striigglefor  life, 
esercitarono  un'indignazione  fittizia  e 
senza  causa  :  invano  sopravvennero 
gli  sforzi  di  Taine  per  restituire  al 
determinismo  il  suo  vero  senso. 

Il  secondo  ravvicinamento  si  pro- 
dusse coli 'intervento  del  romanzo  na- 
turalista e  sociale  che  s'appoggiava 
su  Comte  e  su  Taine  e  lanciava  nella 
letteratura  la  pesante  teoria  dell'ere- 
tlità  coll'insufficienza  intellettuale  che 
sappiamo.  Gli  spiriti  liberi  reagirono 
questa  volta  più  vivamente,  trovando 
che  quel  commento  al  determinismo 
e  al  positivismo  era  veramente  troppo 
mediocre  e  che  si  trattava  in  fondo 
di  sostituzione  di  feticci,  non  di  pro- 
gresso. 

Fu  a  questo  punto  che  si  presentò 
il  romanzo  psicologico,  con  la  pretesa 
di  raccogliere  le  due  eredità  e  di  svi- 
luppare una  concezione  morale,  te- 
nendo conto  delle  osser\'azioni  deter- 


14S 

ministe.  «  Il  faut  dire  à  sa  louange 
que  c'était  une  tentative  du  moins  très 
supérieure  aux  monotones  cas  dt  con- 
science  du  déisme  de  Sorbonne  et  aux 
non  moins  monotones  documentaiions 
du  naturalisme.  Mais  si  l'une  et  l'au- 
tre  parlaient  des  jargons,  l'un  nébu- 
leux  et  l'autre  chiffré,  le  roman  psy- 
cologique  ne  manqua  pas  d'en  parler 
un  troisième  ;  et  avec  les  poupées  du 
sentimentalisme  et  les  mécaniques  du 
naturalisme,  il  inventa  la  poupée  mé- 
canique  perfectionnée,  à  la  fois  auto- 
matique  et  déclamatoire,  dont  les 
actes  piètres  furent  commentés  sen- 
tencieusement  ». 

Ma  anche  questo  romanzo  psicolo- 
gico non  resistette  all'orgoglio  di  voler 
introdurre  nella  letteratura  un  ele- 
mento di  certezza,  e  si  credette  ab- 
bastanza forte  da  risolvere  i  vecchi 
problemi,  smontare  il  meccanismo 
dell'anima,  soddisfar  ognuno  salva- 
guardando l'idealismo  convenzionale 
e  la  morale  rivelata,  evitando  insieme 
le  obbiezioni  rivolte  al  vecchio  sen- 
timentalismo dai  deterministi.  Ciò  fece 
dapprima  sensazione:  disgraziatamen- 
te, la  psicofisiologia  era  lungi  dal 
dichiararsi  cosi  avanzata  come  i  suoi 
commentatori  letterari.  «  Il  faut  sou- 
vent  se  résigner  à  sembler  apprendre 
d'autrui  ce  que  l'on  s'est  chargé  de 
lui  enseìgner,  et  d'e.xcellents  disciples 
de  Claude  Bernard  durent  passer  des 
heures  de  surprise  profonde  en  lisant 
les  ronians  de  M.   Bourget  ». 


Il  romanzo  psicologico,  afferma  il 
Mauclair,  annoiò  tutti  e  dovette  con- 
fessare la  sua  impotenza.  Allora  ognu- 
no andò  per  la  sua  strada:  chi  ritornò 
elegantemente  al  «  Que  sais-je  ?  »  ; 
chi  domandò  dell'energia  alla  tomba 
di  Napoleone  e  dei  consigli  al  culto 
dei  morti  ;  altri  semplicemente  torna- 
rono al  cattolicismo  e  al  nazionalismo. 
Ma  tutti  vollero  far  ricadere  sulla 
scienza,  che  non  s'era  mai  curata  di 
loro,  la  responsabilità  del  proprio 
scacco  :  e  Brunetière  gridò  al  falli- 
mento della  scienza  che  non  sapeva 
«  consolare  !  » 

Gli  scienziati  lasciarono  vaticinare 
il  Brunetière,  e  lavorarono.  Ora  sol- 
tanto è  venuta  l'altera  risposta  del 
Berthelot,  a  significare  che,  dopo  il 
periodo  delle  dissociazioni,  la  scienza 


TR.\    LIBRI    E    RIVISTE 


Sta  per  tentare  la  riunione  dei  due 
principii,  analisi  e  sintesi:  colui  che 
ha  creato  la  chimica  organica  rimon- 
tando alla  sintesi  dopo  esser  disceso 
al  fondo  dell'analisi,  aveva  l'autorità 
necessaria  per  presagire  tale  opera- 
zione dell'attuale  spirito  scientifico. 

Berthelot  non  ha  parlato  di  meta- 
fisica, più  riservato  ancora  di  Pasteur 
e  di  Claude  Bernard  :  si  è  tenuto 
apparentemente  alla  chimica,  vale  a 
dire  più  lungi  che  i  fisiologi  dalle 
questioni  morali  :  ma  sottintendeva 
tuttavia  alcune  considerazioni  essen- 
ziali, prima  fra  le  quali  quella  della 
modificazione  profonda  della  scienza 
contemporanea.  La  discendenza  degli 
scienziati  ideologici  non  ha  infatti 
cessato  di  stabilirsi,  dalle  teorie  di- 
namogeniche di  Faraday  fino  alle  idee 
pastoriane,  ai  principi  vitalisti  di  Ber- 
nard, alle  sintesi  organiche  di  Ber- 
thelot. «  La  scienza  ha  delle  risposte 
d'una  tacita  ironia:  mentre  si  incri- 
mina il  materialismo  e  la  matìcanza 
d'ideale  della  medicina,  ecco  ch'essa 
ci  fa  conoscere  che  le  condizioni  della 
materia  si  trasformano  :  la  vile  materia 
diviene,  per  le  successive  scoperte  di 
Chevreul,  di  Hertz,  di  Roentgen,  as- 
solutamente dissimile  da  ciò  che  si 
credeva.  L'interpenetrazione,  la  po- 
larità, la  dissimetria  molecolare,  le 
identità  delle  onde  luminose  e  sonore, 
la  percezione  transustanziale  dei  rag- 
gi X,  distruggendo  tutte  le  nozioni 
sull'agglomerazione  dell'opacità,  ecco 
altrettanti  principi  che  giungono  a 
convertir  questa  famosa  materia  in 
un  elemento  quasi  metafisico,  in  un 
tessuto  magnetico  continuo.  Che  di- 
ventano quindi  le  vecchie  teorie  della 
conoscenza  e  le  arguzie  separanti  il 
ponderabile  e  l'imponderabile?» 

«  E  chi  non  vede  -  prosegue  acu- 
tamente Carni  Ile  Mauclair  -  che  lo 
studio  della  materia  cosi  compreso 
porta  immense  conseguenze  nel  do- 
minio metafisico  ?  Noi  arriviamo  di- 
rettamente alla  famosa  questione  del 
mistero,  pretesto  e  postulato  di  tutte 
le  morali  di  rivelazione,  e  chia- 
ramente scorgiamo  che  la  scienza, 
come  la  concepivano  gli  antichi  al- 
chimisti metafisici,  non  è  soltanto  la 
riunione  delle  scienze,  è  anzitutto  la 
loro  riunione  ad  un  egual  grado  di 
sviluppo,  è,  insomma,  la  metafisica 
realizzata,  la  riduzione  all'unità    del 


TRA   LIBRI    E   RIVISTE 


U9 


fisico  e  del  morale.  Ora,  i  gradi  di 
sviluppo  non  sono  ancora  uguali,  e 
succede,  per  esempio,  che  la  chimica 
sintetica  secondo  Pasteur  e  Berthelot 
è  ben  più  sciolta  dall'antica  conce- 
zióne della  materia,  ben  più  ideolo- 
gica che  la  medicina,  oggi.  In  quanto 
al  mistero  la  scienza  non  è  abba- 
stanza ristretta  per  scrutarlo  come  una 
specie  di  corpo  semplice  irreduttibile 
di  cui  una  sintesi  tenace  avrà  un 
giorno  ragione  :  la  scienza  concepisce 
che  il  mistero  è,  comunque  lo  si 
chiami.  Movimento,  Porza,  Dio,  ecc., 
un  principio  auto-complesso,  che  in- 
dietreggerà e  si  moltiplicherà  quanto 
più  si  progredirà.  Il  mistero  inlatti 
non  è  una  nozione  fissa,  ma  si  accre- 
sce in  ragione  diretta  delle  scoperte  : 
l'ignoranza  primitiva,  facilitando  le 
teologie,  aveva  ridotto  l'immensa  som- 
ma dei  fenomeni  incomprensibili  a 
una  concezione  unitaria  della  loro 
causa,  e  più  l'umanità  ha  appreso, 
più  essa  ha  dovuto  decomporre  que- 
sto viistero  globale  in  un'infinità  di 
misteri  parzialmente  riduttibili  ». 
« 
*  * 

Si  può  dunque  prevedere  che  tutte 
le  nostre  cognizioni,  modificate,  por- 
ranno l'etica  su  basi  assolutamente 
nuove.  Il  Mauclair  asserisce  che  la 
scienza  attuale,  modificando  esperi- 
mentalmente la  composizione  del  mi- 
stero, non  disturba  le  manifestazioni 
teologiche  e  metafisiche.  Tolstoi,  cri- 
stiano, Nietzsche,  ateo,  rispondono 
esattamente  come  Pasteur  e  Berthe- 
lot, e  come  Guyau  (morale  senza  ob- 
blighi ne  sanzioni;  trasmutazione  di 
tutti  i  valori  ;  la  salute  è  in  voi,  al- 
trettante varianti  della  stes.sa  convin- 
zione) che  la  conoscenza,  la  com- 
prensione e  il  possesso  di  sé  mede- 
simi sono  le  sole  forme    di    felicità. 

Dobbiamo  ora  ritenere  che  il  com- 
pito del  romanziere  e  del  critico  non 
sarà  più  che  quello  d'un  inutile  com- 
mentatore dei  principi  scientifici  o 
d'un  vano  protestante  aggrappato  al- 
l'antica teologia  ? 

Il  Mauclair  dice  d'esser  stato  lui 
stesso,  e  d'esser  ancora,  troppo  appas- 
sionato di  metafisica,  troppo  critico, 
troppo  sentimentale  e  troppo  con- 
vinto della  coltura  delle  idee  per  ac- 
cettare allegramente  la  capitolazione 
della  letteratura  davanti  alla  scienza 
e  la  traslazione  dei  suoi  privilegi  d'in- 


segnamento morale  a  questa  grande 
sopravvenuta.  «  Ma  io  credo  ferma- 
mente che  resta  agli  scrittori  un  com- 
pito splendido,  quello  di  vivificare  e 
di  trasportare  nel  dominio  espressivo 
i  nuovi  dati  del  simbolismo  scienti- 
fico, cosa  che  la  scienza  non  ha  a 
fare  e  non  può  fare  ». 

Egli  accenna  ai  romanzi  di  Wells, 
osservando  che  questo  caso  d'applica- 
zione del  merveilleux  scientifique  non 
è  ciò  che  occorre,  perchè  la  vena 
ben  presto  si  esaurirebbe.  Ricorda 
che  i  grandi  spiritualisti  Poe  e  \'il- 
liers  de  l'Isle  Adam  non  sprezzarono 
la  scienza,  e  dichiara  che  i  romanzi 
dei  Rosny  segnano,  a  confronto  di 
quelli  di  Zola,  un  immenso  progresso 
nella  nuova  direzione. 

«  V,' emozione  del  pensiero  finirà  per 
prender  il  suo  posto.  È  ad  un'epoca 
in  cui  la  musica  si  arroga  di  più  in 
più  il  dominio  dell'espressione  meta-- 
fisica  e  sentimentale,  con  mezzi  co- 
lossali e  una  potenza  d'universalità 
innegabile,  che  la  letteratura  s'osti- 
nerà a  non  tener  conto  della  sua  ap- 
parizione né  della  conversione  della 
scienza  verso  la  sintesi,  e  crederà 
aver  fatto  tutto,  rifugiandosi  nella 
negazione  ?  E  se  la  scienza  prende  il 
posto  della  Rivelazione,  penserà  essa 
a  negare  l'evidenza  e  a  dichiarare 
pessimisticamente  che  nulla  non  mo- 
difica nulla  ? 

«  La  letteratura  s'è  comportata  pue- 
rilmente di  fronte  alla  scienza  e  se 
questa  mostra  for.se  dell'audacia  recla- 
mando la  direzione  sociale  con  un 
segreto  disprezzo  per  la  rumorosa 
agitazione  dei  romanzieri  psicologi, 
essa  ne  ha  almeno,  all'ora  attuale, 
assai  più  diritto  che  non  la  lettera- 
tura, e  noi  non  possiamo  esser  soli- 
dali con  M.  Brunetière  e  ostinarci 
nella  reazione  per  il  semplice  ])iacere 
di  maltrattare  la  scienza.  Noi  vediamo 
d'altronde  ciò  che  sociologicamente 
danno  queste  idee:  sarebbe  veramente 
una  calamità  esser  riportati  a  un  tal 
ideale.  Non  parliamo  neppure  di  quello 
della  benne  soujfrance,  che  non  merita 
discussione.  Nell'ostinata  ricerca  del 
progresso,  in  questa  lotta  per  l'ege- 
monia della  direzione  morale,  la  let- 
teratura ha  esaurito  tutti  i  sistemi, 
ed  essa  è  impotente,  al  momento  in 
cui  la  scienza  propone  le  sue  lente 
constatazioni  ». 


150 


TRA   LIBRI    E    RIVISTE 


Cam  il  le  Mauclair  termina  il  suo 
acuto  scritto  con  alcune  succinte  osser- 
vazioni sul  deplorevole  disordine  che 
imperversa  nel  mondo  dei  letterati, 
di  fronte  a  cui  la  vita  degli  scienziati 
«  apparait  unitaire,  digne,  grave  ».  Ma 
egli  non  proclamerà  a  sua  volta  il 
fallimento  della  letteratura.  «  Il  ne 
s'agit  plus  d'un  antagonisme,  niai.s 
d'un  accord  ». 

Dobbiamo  considerar  come  amica 
la  scienza  clie  diminuisce  la  soffe- 
renza sociale;  come  una  naturale  al- 
leata della  letteratura  di  cui  es.sa  rin- 
nova la  sostanza.  Trattandosi  d'una 
letteratura  che  non  si  serve  del  ro- 
manzo che  per  enunciare  delle  idee 
filosofiche,  psicologiche  o  sociali,  sa- 
remmo insensati  miscono.';cendo  la 
immensa  efficacia  del  concorso  della 
scienza,  e  non  andando  ad  essa  fran- 
camente «  dans  notre  amour  de  la 
connaissance  unitaire  et  antithéolo- 
gique,  de  catte  connaissance  conci- 
liant  l'esthétique,  la  métaphysique  et 
la  morale,  qui  est  le  corps  simple 
visé  par  l'universelle  analyse  des  In- 
tel lectuels  ». 


Studi  italiani  in  PVancia. 

Abbiamo  sott'occhio  il  XXI  Bol- 
lettino della  Socicté  d'Etudes  Italien- 
nes,  che  i  nostri  lettori  ben  conoscono, 
fondata  sotto  la  presidenza  di  Jules 
Simon  or  sono  dieci  anni,  e  di  cui 
attualmente  è  l'anima  il  prof.  Carlo 
Dejob,  benemerito  dell'Italia. 

La  Società  e'  informa  che  il  Mini- 
stero dell'  istruzione  pubblica  fran- 
cese ha  in  quest'anno  preso  una  no- 
tevole decisione  a  favore  degli  studi 
italiani.  Ha  creato  degli  ispettori  per 
l'insegnamento  della  lingua  nelle  va- 
rie Università,  Licei,  Collegi  ove  esso 
è  impartito;  Mr.  Carlo  Dejob  fu  de- 
legato a  visitare  i  professori  delle 
Facoltà  di  Chambérj',  Grenoble  ed 
Aix  :  egli  non  ha  potuto  naturalmente 
anticipare  per  il  Bollettino  le  in- 
formazioni che  risulteranno  dal  rap- 
porto al  Ministero;  solo  egli  assicura 
che  l'impressione  ricevuta  è  stata 
eccellente,  che  in  tutti  gli  istituti  vi- 
sitati r  italiano  è  compreso  corrente- 
mente, all'audizione  oltreché  alla  let- 
tura, dalla  maggior  parte  degli  allievi, 
e  parlato  da  molti  di    essi.    La  cifra 


degli  studenti  aumenta  ovunque:  al 
collegio  d'Embrun,  per  esempio,  è 
passata  da  io  a  80  ;  a  Bastia  è  oc- 
corso istituire  una  seconda  cattedra  ; 
i  rettori  di  Chambéry  e  di  Grenoble, 
si  preparano  ad  estendere  lo  studio 
dell'  italiano  alle  scuole  secondarie 
femminili. 

Il  Bollettino  contiene  altre  notizie 
confortanti.  Borse  di  studio  per  l'Ita- 
lia sono  state  accordate  in  quest'anno 
dal  Ministero  e  elargite  da  privati  be- 
nemeriti :  carovane  di  studenti  si  sono 
formate  volontariamente  per  visitare 
il   nostro  paese. 

La  biblioteca  della  Società  si  ar- 
ricchisce sempre  più,  grazie  a  molti 
donatori.  Le  adesioni,  che,  come  i 
lettori  rammenteranno,  non  implicano 
alcuna  quota,  ammontano  già  a  1213. 

Zette. 

Paul  e  Victor  .Margueritte  ci  ave- 
vano date  anni  fa  le  «  ave.itures 
d'un  petit  gar^on  ».  Ecco  che  al 
simpatico  Poiim  fa  ora  seguito  questa 
deliziosa  Zetle,  «  histoire  d'une  petite 
fiUe  ». 

Zette  alla  prima  pagina  del  libro  è 
«  quelque  chose  de  rouge  et  d'af- 
freu.x,  une  argile  encore  informe  où 
le  Potier  divin  s'est  amusé  à  ter- 
niiner  des  détaìls  et  a.  par  e.xemple, 
ciselé  les  ongles  minuscules  et  piante 
sur  la  tète  de.=;  cheveu.x  de  soie  im- 
pondérable,  un  duvet  de  lumière 
blonde  ».  Nata  da  una  setcimana,  essa 
ignora  il -riso,  il  pensiero,  l'amore. 
«  Elle  n'est  qu'une  bouche,  un  su- 
(joir  ». 

Ma  via  via  negli  occhi  da  cieca 
della  creaturina,  occhi  «  qui  ressem- 
blaient  à  un  bUiet  dans  du  lait  », 
un'alba  si  leva.  Zette  allarga  il  cir- 
colo delle  sue  sensazioni,  impara  a 
distinguere  la  nutrice,  poi  a  sorri- 
dere, poi  mette  il  primo  dente,  poi 
muove  i  primi  passi...  In  otto  pagi- 
nette  la  divina  metamorfosi  è  nar- 
rata con  una  semplicità  e  un'evidenza 
incantevoli  e  sorprendenti.  E  cos'i  per 
tutto  il  volume  i  due  illustri  scrittori 
francesi  seguono  nella  descrizione 
difiìcilissima  dell'infanzia  un  metodo 
personale  e  ardito  che  non  sapremmo 
come  definire,  che  non  è  del  puro 
impressionismo    e    tanto    meno    del 


TRA    LIBRI    E   RIVISTE 


151 


naturalismo  obbiettivo,  ma  una  fe- 
lice fusione  di  intuitivismo,  come  di- 
rebbe Edoardo  Rod,  e  di  ciò  che  i 
due  primi  sistemi  hanno  di  più  spon- 
taneo, di  più  l'h'o,  di  più  geniale. 
Bisogna  leggere  il  capitolo  Les  Mou- 
ches  per  vedere  quali  risultati  di  co- 
micità finissima  e  insieme  di  ine- 
sprimibile commozione  i  Margueritte 
ottengano  descrivendo  le  piccole  osti- 
nate riflessioni  della  mente  infantile 
e  la  strana  logicità  delle  sue  asso- 
ciazioni d'idee.  Anche  il  capitolo 
Les  mots  è  pieno  di  preziose  rivela- 
zioni sul  mondo  intellettivo  che  i 
fanciulli  tengono  racchiuso  in  sé  ; 
gli  autori  non  possono  che  averle 
tratte  dalle  memorie  della  propria 
infanzia;  poiché,  essi  stessi  lo  dicono, 
«  giammai  i  fanciulli  svelano  il  se- 
greto, per  essi  stessi  confuso,  delle 
loro  divagazioni  assurde  e  del  mondo 
d'idee  fantastiche  in  cui  si  compiac- 
ciono ».  Assai  più  facile  è  strappare 
ai  cari  fiori  della  nostra  vita  le  loro 
impressioni  sentimentali,  le  commo- 
zioni profonde  della  !or  giovane  psi- 
che :  un  bimbo  che  softVe  pel  dolore 
di  chi  lo  circonda  o  per  mancanza 
d'amore,  non  sfugge  all'analisi  ap- 
passionata di  chi  vuol  sanare  quella 
sofferenza.  Un  bimbo  che  ha  sof- 
ferto, che  ha  sentito  dai  primi  suoi 
giorni  un'atmosfera  di  lagrime  in- 
torno, non  osserva  superficialmente 
la  morte,  ad  esempio,  come  avviene 
ai  fanciulli  felici,  come  avviene  a 
questa  piccola  Zette  fortunata  che  non 
ha  fino  ai  quindici  anni  nessuna  pena 
fuorché  quella  di  rompere  una  bambo- 
la, di  perdere  un  cagnolino,  di  sorpren- 
der i  cenci  dei  pagliaccetti  visti  una 
sera  a  teatro  come  in  sogno,  di  sen- 
tirsi inferiore  moralmente,  qualche 
istante,  al  suo  buon  amico  Poum... 
I  Margueritte  hanno  voluto  mo- 
strarci come  nelle  condizioni  più  se- 
rene di  vita  la  bimba  si  avvii  a  di- 
ventar donna,  come  in  essa  si  accu- 
mulino quasi  inavvertitamente  le  im- 
pressioni varie  che  domani  col  ricordo 
l'aiuteranno  ad  affrontar  le  realtà  im- 
mediate, la  lotta,  il  male,  il  mistero. 
Essi  non  sono  degli  educatori,  non 
sono  dei  filosofi  dall'anima  pedago- 
gica; il  loro  senso  d'umanità  pro- 
fondo, ben  noto  a  chi  ha  letto  Femmcs 
iwiivelles  e  Les  deux  vies,  si  trova, 
dinanzi    al    problema    dell'anima  in- 


fantile, naturalmente  portato  ad  un 
ottimismo  sorridente,  che  taluno  po- 
trebbe dire  superficiale,  ma  che  in- 
vece deriva  direttamente  dalla  loro 
balda  e  indomabile  fede  nella  vita, 
vita  d'amore  e  di  ascensione  per  gli 
uomini  e  per  le  donne  tutte,  per  gli 
esseri  umili  come  pei  grandi.  La  loro 
personalità  intellettuale  armonizza 
quindi  con  quella  artistica,  e  questo 
breve  volume  dal  freschissimo  fa- 
scino, che  tante  mammine  e  tante  fan- 
ciulle leggeranno  ridendo  e  piangendo 
insieme,  è  degno  in  tutto  dei  simpa- 
tici scrittori  e  arditi  pensatori  che 
sono  i   Margueritte. 

A  Campfer  nell' Engadina. 

Le  incertezze  della  stagione  prima- 
verile sono  scomparse  e  l'estate  caldo, 
afoso  si  avanza. 

Il  ristoro  dell'aria  fresca  e  pura 
dei  monti  comincia  a  sorridere  alle 
menti  affaticate  ed  ai  corpi  stancffi. 
Ho  conosciuto  tardi  i  piaceri  della 
montagna  e  ne  ho  sentito  d'un  tratto  il 
fascino  soavemente  intimo. 

Non  le  parlo,  gentile  lettrice,  delle 
ascensioni  alpine,  che,  tranne  per  lo 
scienziato,  non  arrivo  a  comprendere. 
Quante  inutili  ansie,  quante  fatiche 
sprecate  per  1' umanità,  quante  sven- 
ture, che  gettano  la  desolazione  nelle 
famiglie,  senza  scopo  alcuno  di  pro- 
gresso,  di  benessere  sociale! 

Ma  la  montagna,  dai  verdi  prati  vel- 
lutati, dagli  alti  pini,  dai  bianchi  stra- 
dali, dalle  acque  fresche  e  cristalline, 
rappresenta  in  estate  una  delle  mag- 
giori delizie  della  vita:  riposa  la  mente, 
esercita  il  corpo,  rinfranca  e  rinforza 
la  nostra  fragile  fibra.  L'n  amico  filo- 
sofo, cui  sorride  un'Italia  forte,  labo- 
riosa e  grande,  ripone  nel  clima  me- 
ridionale e  caldo  del  nostro  paese  una 
delle  maggiori  cause  della  debolezza 
della  fibra  nazionale  e  della  minore 
produttività.  Egli  sogna  ovunque  fer- 
rovie dentate,  funicolari  e  strade  bian- 
cheggianti a  zig-zag  che  ascendano 
alle  più  alte  cime,  per  temprarvi, 
in  estate,  una  parte  del  nostro  popolo  I 

Ben  venga  adunque  la  montagna, 
col  luglio  che  incalza!  Sono  le  no- 
stre Alpi  quelle  che  presentano  i  mi- 
gliori ritrovi,  che  oramai  sorgono 
numerosi  e  frequentati  sia  sul  ver- 
sante italiano,  sia  sopra  quello  estero. 


152 


TRA   LIBRI    E    RIVISTE 


E  fra  le  regioni  alpine  che  hanno 
maggior  voga  v'ha  appunto  l'Enga- 
dina,  che  rappresenta  uno  degli  an- 
goli più  belli,  una  delle  più  interes- 
santi plaghe  alle  maggiori  altitudini 
abitate  dall'uomo. 

Le  vie  d'accesso  vi  sono  d'una 
comodità  indiscutibile.  Dal  Gottardo, 
e  dalla  Svizzera  sarà  presto  compiuta 
la  ferrovia  dell 'Albula,  che  da  Lucerna 
e  Zurigo  penetra  in  mezza  giornata 
nel  centro  dell'Engadina.  Dall'Italia 
vi  si  arriva  comodamente,  colla  fer- 
rovia della  Valtellina  -  da  Milano  a 
Chiavenna,  ora  a  trazione  elettrica  - 
e  poscia  con  sei  a  sette  ore  di  car- 
rozza, per  la  strada  ombrosa  di  \'al 
Bregaglia,  che  è  semplicemente  in- 
cantevole!  .Si  parte  il  mattino,  ad  ora 


.St.  Moritz,  ricca  di  grandiosi  hótels 
di  giardini,  di  pinete,  di  concerti  e 
balli,  di  luce  elettrica,  è  il  centro  del- 
l'Engadina: è  il  ritrovo  di  un  mondo 
elegante  iriternazionaie,  che  vi  au- 
menta ogni  anno.  Ma  d'intorno  alla 
bella  cittadina,  sorge  a  diverse  di- 
stanze, da  Samaden  a  Sils,  una  quan- 
tità di  villaggi  tranquilli,  di  queti 
ritrovi,  ove  pare  più  intimo  il  sorriso 
della  natura  e  il  silenzio  della  mon- 
tagna. 

Campfer,  sulla  grande  strada  che 
da  St.  Kloritz  conduce  all'Italia,  è  uno 
di  quegli  angoli  tranquilli,  accocco- 
lati fra  la  pineta,  la  prateria  e  il 
lago,  e  che  paiono  a  distanza  bianchi 
nidi  di  aquile.  E  il  villaggio  più  vi- 
cino a  .St.  Moritz,   a    cui    si    accede 


VTTÌ 


SftTì^i'^'^ii!'*^^ 


'JL-, 


comoda,  da  Milano  :  si  arriva  la  sera  in 
Engadina  a  1800  e  più  metri  e  si  va 
a  dormire  sotto  le  coltri  imbottite  ! 

L' Engadina  è  tutto  un  meraviglioso 
altipiano  ad  un'  altitudine  a  cui  è 
difficile  trovare  altrove  anche  solo  un 
piccolo  spazio.  Il  prato  verde  è  lam- 
bito dai  numerosi  laghi  azzurri  che 
occupano  in  molte  parti  il  basso  della 
valle;  agli  orli  comincia  la  pineta  folta, 
scura,  vasta  quanto  si  distende  l'oc- 
chio umano,  interminabile  :  dietro,  le 
cime  dei  monti  ora  ravvolte  nelle 
nubi,  ora  biancheggianti  di  neve  e 
rigidamente  disegnate  contro  l'az- 
zurro cri-stallino  del  cielo. 


con  una  deliziosa  passeggiata,  sia  per 
due  bianchi  stradali,  sia  per  il  sen- 
tiero boschivo,  che  attraversa  una 
piccola  altura  ombrosa.  In  mezzo  alla 
pineta,  nel  più  folto  del  silenzio  e 
sovra  il  cocuzzolo  della  piccola  altura 
che  domina  l'intera  valle,  si  asconde 
una  elegante  villa,  che  porta  un  nome 
caro  all'arte  ed  alla  società  romana, 
quello  dello  scultore  Story.  La  squisita 
ospitalità  della  illustre  famiglia  è  una 
delle  maggiori  attrattive  della  incan- 
tevole zona  che  si  stende  fra  St.  Mo- 
ritz e  Campfer. 

L'intero    paese  è  seminato    di    al- 
berghi, grandi  e  piccoli,  imponenti  e 


TRA   LIBRI    E    RIVISTE 


modesti,  colle  loro  pensioni  a  giorni, 
1  settimane,  a  prezzo  fisso  e  con  quel- 
l'arte che  è  tutta  propria  della  Sviz- 
sera.  Ne  presento  uno^  il  Julier  Hof 
3  V  Hotel  Julier  di  Campfer,  che  si 
riannoda  al  ricordo  della  mia  prima 
ifisita  airEngadina.  È  una  di  quelle 


;ase  elegantemente  nitide  e  dotate  di 
ulte  le  comodità  che  rendono  così 
DÌacevole  il  soggiorno  estivo:  collocata 
il  crocicchio  delle  due  vie  che  giun- 
gono da  St.  Moritz,  è  il  centro  di  un 
massaggio  continuo  di  corriere  po- 
stali e  di  carrozze  signorili,  che  tem- 
jerano  la  mite  solitudine  del  luogo, 
;d  il  silenzio  della  verde  prateria  e 
Iella  pineta  folta  ed  ombrosa.  Ne  è 
)roprietario  il  signor  Miiller,  uno  di 
juegli  operosi  svizzeri,  delle  Alpi,  in 
;ui  la  fibra  tedesca  e  la  genialità  ita- 
iana  paiono  insieme   contemperarsi. 

La  corriera  postale,  con  i  posti- 
filoni,  i  cavalli  a  sonagli,  i  grandi 
nautici,  ed  i  copertoni  che  proteg- 
gono dai  rapidi  acquazzoni  della  mon- 
agna  è  una  delle  bellezze  e  delle 
ittrattive  dell'  Engadina,  che  ne  è 
ittraversata  in  tutti  i  sensi  Le  cor- 
iere  svizzere  sono  fra  le  più  celebri 
l'Europa  ed  è  svizzera,  con  il  suo 
lolore  giallo  spiccato,  la  diligenza 
:he  a  Chiavenna  riceve  i  viaggiatori 
li  Milano,  diretti  all'Engadina.  Vi  si 
rovano  pure  numerose  carrozze  pi  i- 
•ate  e  d'affitto.  Il  servizio  della  corriera 
)rincipale  è  eccellente  ;  ma  quello 
Ielle  carrozze  supplementari  presenta 
m"  anomalia  inconcepibile  in  un  or- 
linamento  cosi  perfetto  come  quello 
Ielle  Poste  svizzere.  Ad  ogni  sta- 
llone di  posta  -  circa  ogni  due  ore  - 
i  cambiano  non  solo  i  cavalli,  ma 
inche  le  carrozze  ed  i  viag^giatori 
levono  trasbordare  più  volte  al  giorno! 

Non  ho  mai  visto  nulla  di  più  pri- 
nordiale  in  un  servizio  di  Stato  e 
pero  che  vorranno  porvi  riparo  nella 
ìresente  stagione  le  Poste  svizzere, 
ìsse    accresceranno  le    attrattive    di 


lóa 

un  viaggio  in  corriera  nell'Engadina; 
una  delle  più  belle  delizie  che  la  vita 
estiva  possa  presentare. 

«  Il  Genio  »  di  Henry  Bérenger^ 

Recentemente  la  Revue  Bleue  pub- 
blicò nelle  sue  colonne  un  dramma 
di  un  giovane.  Henry  Bérenger,  che 
abbiamo  notato  come  una  cosa  molto 
originale  e  forte.  È  intitolato  Le  Genie, 
«  pièce  contemporaine»  in  tre  atti. 

Siamo  a  Parigi  nel  laboratorio  di 
un  grande  scienziato,  continuatore 
dell'opera  di  Claudio  Bernard,  di 
Pasteur,  di  Berthelot.  Laurière  -  cosi 
si  chiama  quest'uomo  di  genio  -  ha 
scoperto  un  veleno  formidabile  l'eu- 
ta.xine,  col  quale  pretende  di  poter 
guarire  l'epilessia  e  allontanare  la  pa- 
ralisi generale:  naturalmente  la  mag- 
gioranza dei  membri  dell'Istituto  lo 
osteggia,  e  parte  dell'opinione  pub- 
blica è  da  essi  agitata  contro  la  te- 
merità delle  esperienze  cui  Laurière 
si  abbandona.  Ma  lo  scienziato  non  si 
sgomenta;  attorniato  dai  suoi  allievi 
devoti,  appoggiato  dall'amore  di  sua 
figlia,  egli  avanza  diritto  al  suo  scopo, 
ch'è  quello  di  strappare  quanti  più 
segreti  gli  è  possibile  alla  natura,  per 
liberare  l'uomo  dalla  sofferenza.  Ap- 
punto, il  giorno  in  cui  una  Commis- 
sione dell'Istituto  deve  esaminare  gli 
ultimi  risultati  delle  sue  ricerche,  gli 
arriva  dalla  campagna  un  ragazzo 
epilettico  che  la  madre  è  risoluta  a 
sottomettere  a  qualunque  tentativo 
della  scienza  per  salvarlo.  E  l'espe- 
rienza agognata,  il  primo  essere  umano 
su  cui  Laurière  proverà  V eutaxine. 
Un  solo  momento  di  dubbio  nella  sua 
coscienza:  poi  egli  decide:  il  ragazzo 
è  perduto  in  ogni  altro  caso,  perchè 
non  rischiare?  Egli  non  ne  ha  solo 
il  diritto,  ma  il  dovere.  Al  suo  sco- 
laro prediletto,  quasi  un  fi.'liuolo  di 
adozione,  che  nella  stessa  memorabile 
mattinata  ha  perduto  la  speranza  del- 
l'amore di  Teresa  Laurière  e  ha  de- 
ciso di  andar  ad  esperimentare  \' eu- 
taxine in  una  regione  ove  infierisce 
la  febbre  gialla,  il  maestro  afferma  : 
«  Oui,  la  vie  au  milieu  du  danger, 
c'est  la  vraie  vie,  c'est  la  grande  vie, 
la  vie  dont  on  peut  mourir,  mais  qui 
feconde  !  »  Un  soffio  di  poesia  tra- 
gica spira  su  tutto  questo  primo  atto 


154 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


denso,  agile,  d'una  teatralità  sincera 
che  non  scompare  al  ricordo  dei  mi- 
gliori lavori  di  Ibsen. 

»  * 

Al  secondo  atto  son  passati  otto 
giorni  dacché  si  principiarono  le  inie- 
zioni de\\'e!t/nxi>/ea.\  contadinello  epi- 
lettico. Gli  allievi  del  Laurière  c'in- 
formano che  l'infermo  sta  assai  male, 
ha  la  febbre  a  40°. 7.  Il  professore  è 
risoluto  a  non  indietreggiare:  nella 
giornata  inietterà  la  più  alta  dose  di 
veleno,  e  se  il  ragazzo  resisterà,  sarà 
salvo.  Ma  la  madre,  umile  creatura 
superstiziosa,  ha  perduto  la  fede  cieca 
nello  scienziato,  è  pentita,  vorrebbe 
che  si  chiamassero  dei  preti  e  dei 
medici.  Contemporaneamente  giunge 
nel  laboratorio  l'eco  dell'irritazione 
del  pubblico,  e  arriva  il  prefetto  di 
polizia  a  pregar  Laurière  a  nome  del 
Governo,  di  non  spingere  le  sue  espe- 
rienze al  di  là  dei  limiti  permessi  dalle 
leggi  del  paese. 

«  Le  leggi  del  paese  -  risponde  lo 
scienziato  -  non  impediscono  agli  epi- 
lettici e  ai  paralitici  di  tuffarsi  nelle 
piscine  di  Lourdes  a  rischio  di  morte. . . 
Noi  domandiamo  per  la  scienza  gli 
stessi  diritti  che  voi  accordate  alla 
superstizione.  La  madre  di  questo 
fanciullo  m'ha  confidato  suo  figlio.  A 
meno  che  voi  non  veniate  ad  arre- 
starmi qui,  in  questo  labora'orio  che 
venti  scoperte  utili  alla  Francia  pro- 
teggono,  io  non  cederò  ». 

Ma  dopo  la  partenza  del  prefetto, 
Laurière  si  accascia  :  trema  per  la 
responsabilità  assuntasi,  e  lo  confessa 
alla  figliuola  :  «  Finché  l'ultima  pa- 
rola non  è  detta,  finché  l'ultima  prova 
non  è  acquistata,  si  ha  il  diritto  di 
impegnare  una  vita  umana?  »  K  pensa 
anche  a  tutto  ciò  che  un'esperienza 
imprudente  potrebbe  travolgere,  tutto 
il  suo  lavoro  immenso  che  conteneva 
il  presentimento  d'una  indefinita  con- 
quista... Teresa  gli  asciuga  le  lagri- 
me irresis'.ibili  : 

«  Pauvre  papa!  Quel  calvaire  ces  gens-là  te 
font  monter  !  Mais  oui,  tu  les  avais,  tous  ces 
droits.  N'allais-tu  pas  vers  l'inconnu?  Quel 
genie  n'a  risqué,  au  moins  une  fois  dans  sa 
vie,  le  tout  pour  le  tout?  La  science  serait 
dono  une  calculatrice  qui  ne  parierait  qu'à 
coup  sur  ?  Seule  parmi  les  grandes  forces  de 
l'humanité  elle  n'auiait  pas  ses  champs  de 
bataiUe,  ses  départs  vers  Vaventure,  l'incer- 
titude  formidable  du  mystère  qu'elle  prétend 


conquérir  ?  Elle  n'aurait  pas,  eu  des  heui    - 
qui  soni  les  tiennes    aujourd'hui,   elle  n  iiu- 
rait  pas  les  raémes    droits    que    ChristL'j  ' 
Colomb  parmi  ses  équipages,  que  Danl'i 
la    tribune,    que    Victor  Hugo    à    la    v 
d' //emani?  Kcoute,    papa.  Tu  te  souvien 
certains  soirs,   quand  j'étais  tonte  petite  ' 
songeais  a  tes  découvertes,  au  balcon,  il«i 
le  crépuscule...  Ton  regard,  détaché  de  toiito< 
choses,  me  paraissait  profond    comme  l'in- 
connu que  tu  interrogeais,  luniineux  comme 
cette  vérité  qui  déjà  Ijrillait   pour    toi    seul  ' 
avant  de  rayonner  pour  tous    les  hommes...   ■ 
Oh!  papa,   à  ces  minutes  où  tes  yeux  luisaient 
plus  magiquement  pour  moi  que  les  étoiles 
du  soir,  non,   la  science  n'était  pas  la  petite 
vieille,    peureuse,    ratatinée     qui    risque  de 
petites  avances  pour  de  petits  profits.  C'était 
la  chimère  ouvrant  des  yeux  d'aigle  sur  les 
abimes  de  l'inconnu...  Et  c'est  celle-là  que 
tu  aimais,  non  pas  Tautre  !   C'est  celle  que 
tu  m'as  enseignée,  qui   nous  a  guidés;   c'est 
celle    qui    t'a    fait    grand  et  qui  m'a    faite 
forte  !   » 

«  Tu  mi  rendi  la  forza  e  il  vole- 
re !  »  -  esclama  Laurière.  E  dopo  aver 
di  nuovo  soggiogata  la  madre  del 
piccolo  moritaondo,  va  a  compiere  su 
di  lui  l'operazione  estrema. 

Quand'egli  torna,  raggiante,  perchè 
all'infermo  è  evitata  ormai  la  febbre 
cerebrale,  e  si  rinnova  l'intensa  spe- 
ranza di  guarigione,  scopre  che  la 
figliuola  e  gli  allievi  vogliono  nascon- 
dergli una  notizia...  La  febbre  gialla 
ha  attinto  il  giovane  ch'è  partito  una 
settimana  avanti.  Laurière  decide  di 
raggiungerlo,  ma  una  vertigine  lo  co- 
glie: cade  al  suolo  colpito  da  paralisi... 
La  tensione  era  stata  troppo  grave. 
E  il  sipario  scende  lasciandoci  nel- 
l'ansia pili  viva  :  vedremo  dunque  il 
fallimento  del  genio? 


No.  Al  rialzarsi  della  tela,  nel  terzo 
atto,  Laurière  su  un  seggiolone,  in 
mezzo  al  suo  laboratorio,  riceve  gli 
omaggi  del  Presidente  della  Repub- 
blica, del  Ministro  dell'istruzione,  dei 
rappresentanti  delle  varie  Accade- 
mie, ecc.  I  benefici  della  sua  ultima 
scoperta  sono  .stati  riconosciuti,  e  la 
Francia  e  il  mondo  onorano  il  grande 
cittadino.  P'gli  ha  vicino,  guarito,  il 
piccolo  contadino  e  la  madre  di  lui. 
Nella  gioia  di  sentir  sé  stesso,  mercè 
y eittaxinc,  liberato  dalla  paralisi,  in 
grado  ancora  di  combattere  le  fervide 
battaglie  della  scienza,  egli  non  ha 
che  la  tristezza  d'aver    perduto  l'ai- 


TRA   LIBRI    E    RIVISTE 


155 


ievo  diletto,  di  non  aver  potuto  strap- 
lare  anche  quello  dalla  morte.  Egli 
jnora  che  per  il  giovane  la  gio- 
iosa morte  è  stata  una  liberatrice  : 
hiuso  nel  cerchio  dei  suoi  studi,  egli 
lon  s'era  mai  accorto  di  ciò  che  le 
sistenze  circostanti  potevano  acco- 
:liere  delle  lusinghe  della  vita,  degli 
mori  e  dei  dolori  che  gli   fiorivano 

sanguinavano  accanto...  Cosi  egli 
lon  ha  mai  pensato  che  suafiglia  avesse 
Itra  aspirazione  fuor  da  quella  di  aiu- 
arlo  e  confortarlo  nella  sua  gloria:  ep- 
lure  la  fanciulla  ha  venti  tré  anni,  è  bel  la, 
la  l'anima  fervida,  sente  il  bisogno 
li  conoscere  qualcosa  oltre  le  pareti 
lei  laboratorio,  qualcosa  di  più  spon- 
aneo,  di  più  caldo,  di  più  umano;  ella 
.ccetta  di  sposare  l'uomo  che  ama  da 
auto  tempo  e  per  cui  ha  rifiutato  un 
giorno  il  compagno  dei  suoi  studi  : 
gli  la  chiederà  al  padre  la  sera  stessa  : 

un  uomo  d'azione,  che  sarà  do- 
nani  capo  del  Governo,  un'  intel- 
igenza  vittoriosa,  anch'egli,  in  altro 
ampo. 

Mentre  Teresa  cerca  di  preparare 
1  padre  alla  novità,  questi,  inconscio, 
ngenuo,  le  annuncia  d'aver  accettato 
I  consiglio  del  suo  più  vecchio  amico 
:  di  voler  partire  al  più  presto  per 
in  soggiorno  di  tre  mesi  in  Sicilia, 
on  lei  :  «  Ne  abbiam  bisogno,  ci  ri- 
netteremo,  ci  distrarremo...  E,  al 
itorno,  riprenderemo  la  nostra  bella 
'ita  di  lavoro  ».  E  continua:  «  Ouand 
e  songe  que  parfois  tu  pourrais  n'étre 
)as  là,  toujours  près  de  moi,  gar- 
lienne  de  mon  temps  et  de  ma  vie, 
|ue  je  pourrais  retomber  seul  ;  ah, 
■ois-tu,  fiUette,  je  comprends  tout  le 
>onheur  de  t'avoir,  tonte  la  douleur 
le  te  perdre  I...  Vois-tu.  la  vie  sans 
oi,  je  ne  saurais  plus  la  vivre  !  Je 
erai  fini...  vide...  use...  je  serai  perdu 
)our  la  science  ..  Tu  es  autour  de 
noi  ma  jeunesse  qui  se  prolonge, 
non  activité  qui  ne  faiblit  pas...  » 

La  fanciulla  ha  trasalito  :  e  d'ini- 
irovviso  la  sua  risoluzione  è  presa  : 
:lla  non  può  lasciar  suo  padre  per 
rorrere  alla  propria  felicità.  Lo  dice, 
lualche  momento  dopo,  all'  uomo 
imato,  il  quale  prorompe  nel  suo 
lolore  :  «  Ma  è  mostruoso  alla  fine, 
luesto  egoismo  del  genio  I  »  «  Ma 
IO  -  risponde  ella  -  poiché  egli  non 
;a  nulla,  non  dubita  nulla,  non  vive 
;he  nella  sua  opera  !  » 


Cosi  è:  pensavamo,  leggendo  que- 
st'ultimo atto  del  dramma  di  Henry 
Bérenger,  inferiore  agli  altri  due  per 
tecnica  e  per  ispirazione  e  nondimeno 
altrettanto  interessante  nella  sua  leg- 
gera ingenuità  (perché  quei  perso- 
naggi, quel  Presidente  della  Repub- 
blica, che  in  teatro  sono  sempre 
ridicoli?),  a  un  altro  egoista  che  di 
recente  ha  avuto  gli  onori  della  ri- 
balta, e  che  i  lettori  della  Nuova 
Antologia  ricorderanno  :  l'egoista  stu- 
diato dal  nostro  Bertolazzi  :  mostruoso 
veramente  quello,  perché  travolge 
tutto  intorno  senza  nulla  creare,  .solo 
soddisfacendo  al  proprio  volgare  be- 
nessere... 

Anche  in  Le  Genie  una  figliuola 
accetta  di  non  abbandonare  il  padre. 
Ma  la  donna  é  qui  un  essere  di  de- 
vozione, non  un  essere  di  servitù:  si 
sacrifica  con  entusiasmo,  ma  vuole 
che  il  suo  sacrificio  si  risolva  tosto 
in  una  viuoria,  le  dia  la  costante  sen- 
sazione della  sua  superiore  necessità. 


Marsiglia  e  i  porti  franchi. 

11  fatto  che  domina  tutta  la  storia 
commerciale  di  Marsiglia  fin  dal  se- 
dicesimo secolo  é  l'opposizione  quasi 
continua  che  fa  la  città  alle  decisioni 
del   potere  centrale. 

Sembra  che  ci  siano,  nei  motivi 
che  regolano  la  sua  condotta,  come 
un  rimpianto  dell'indipendenza  pas- 
sata, come  un'aspirazione  a  ridiven- 
tare la  libera  repubblica  fiorente  che 
essa  fu,  quando  essa  sola  determi- 
nava le  condizioni  dei  rapporti  suoi 
commerciali  colle  potenze  del  bacino 
mediterraneo. 

1  primi  sovrani,  dal  dodicesimo 
alla  fine  dei  sedicesimo  secolo,  rico- 
nobbero e  conservarono  tutte  le  im- 
munità e  tutti  i  privilegi  che  avevano 
fatto  la  sua  prosperità.  Francesco  I 
osò  toccarli;  fu  il  segno  d'una  lotta 
contro  i  poteri  pubblici  che,  sorda  o 
dichiarata,  dura  tuttora. 

I  Marsigliesi  protestano  contro 
Francesco  I  e  i  suoi  successori  che 
impongono  dei  diritti  fiscali,  e  poi 
protestano  contro  Enrico  IV  e  contro 
Colbert,  che  rendono  loro  le  fran- 
chigie. Più  tardi  protestano,  a  ragione, 
quando  i  loro  privilegi  scompaiono 
affatto.  Già  d'allora  i  forestieri  anda- 


156 


TRA    LIBRT    E    RIVISTE 


vano  a  Genova  o  a  Livorno,  ov' erano 
più  favoriti. 

Napoleone,  nei  Cento  Giorni,  ha 
l'idea  d'accordare  a  Marsiglia  una 
zona  franca,  ma  i  Borboni  continuano 
a  dar  cagioni  di  lagnanze  ai  Marsi- 
gliesi. Nel  1817  un'ordinanza  si  sforza 
di  combinare  a  Marsiglia  un  modo 
di  deposito  che  non  leda  gli  interessi 
dei  commercianti  e  industriali  del- 
l 'interno.  Questo  regime  è  ancora  in 
vigore. 

Nel  1S33,  nel  1837,  nel  1S41,  i 
Marsigliesi  ridomandano  la  franchigia. 
Ma  in  quell'epoca  il  commercio  pro- 
grediva e  molte  circostanze  davano 
al  porto  una  gran  prosperità.  Ciò  durò 
parecchi  anni  :  ora  la  decadenza  è 
dichiarata  da  molti. 

«  Ora,  sotto  il  regime  del  protezio- 
nismo che  aggrava  la  Francia,  men- 
tre i  diritti  che  colpiscono  i  navigli, 
il  caricamento  e  la  manutenzione  delle 
merci  sono  più  alti  da  noi,  che  non 
presso  ogni  altra  potenza  europea; 
mentre  il  macchinario  dei  porti  si 
perfeziona  sempre  più  all'estero;  men- 
tre immense  intraprese,  quali  le 
nuove  vie  del  Gottardo  e  del  Sem- 
pione,  modificano  i  trasporti;  mentre 
tante  cause  diverse  minacciano  l'av- 
venire di  Marsiglia,  come  stupirsi 
che  la  gran  città  alzi  la  voce  e  con 
una  forza  uguale  al  danno  minacciato, 
reclami  delle  misure  di  soccorso?». 
Cosi  s'esprime  il  sig.  C.  A.  Maybon, 
che  dimostra  conoscere  addentro  la 
questione,    nella    Renaissance   Laliìie. 


F"u  primo  il  signor  Charles-Roux, 
deputato  di  Marsiglia,  nel  1899,  che 
sollevò  il  problema  dinanzi  al  Parla- 
mento francese,  poi  parecchi  altri 
deputati  deposero  dei  progetti  di  legge. 
Una  Commissione  d'inchiesta  venne 
alla  conclusione  pure  di  preparare  un 
progetto  e  il  Consiglio  superiore  del 
commercio  e  dell'  industria  vi  si  mo- 
strò a  più   riprese  favorevole. 

«  Questo  è  il  momento,  o  mai  più  », 
dicono  i  commercianti  marsigliesi.  E 
finalmente  il  signor  Giorgio  Trouil- 
lot,  ministro  del  commercio  e  della 
industria,  d'accordo  col  ministro  delle 
finanze  e  dei  lavori  pubblici,  il  4 
aprile  ultimo  ha  deposto  un  progetto 
di  legge  relativo  allo  stabilimento  di 
zone  franche  nei  porti  marittimi. 


11  progetto  incomincia  coll'esann- 
nare  le  condizioni  del  commercio 
estero.  Non  si  tratta  già  qui  di  iik  i- 
tere  tutta  una  città  o  tutto  un  |".r'u. 
fuori  del  territorio  nazionale,  ma  ili 
creare  una  zona  franca,  come  ad  Am- 
burgo o  a  Brema.  È  come  un  punto 
all'infuori  delle  linee  doganiere  di 
tutte  le  nazioni,  ove  le  mercanzie 
possono  penetrare  senza  pagar  diritti. 
C'è  di  più.  Fin  qui  non  sarebbe  i  lic 
un  deposito  {entrepót):  ma  si  tratta 
invece  di  poter  manipolare  le  merci, 
non  soltanto  per  mantenere  la  hiro 
conservazione  (già  ora  si  può,  sotto 
certe  condizioni,  travasare  l'nlio»,  ma 
per  trasformarle.  Si  potranno  lare 
tagli  di  vini  e  d'olii,  macinare  e  me- 
scolare i  cafTè,  ecc..  stabilire  delle 
vere  officine  ove  si  potrebbero,  dietro 
autorizzazione,  installare  certe  indu- 
strie che  sono  vietate  in  Francia^ 
come  la  fabbricazione  dei  fiammiferi  J 
dei  sigari  e  sigarette,  ecc.  ! 


Le  obbiezioni  che  si  sollevano  con- 
tro il  progetto  sono  queste.  I  porti 
franchi  portano  danno  al  Tesoro,  dan- 
neggiano altresì  alcuni  interessi  par- 
ticolari. 

Al  che  si  può  rispondere  agevol- 
mente. Le  zone  franche  favorirebbero 
delle  industrie  che  attualmente  non 
ci  sono  o  vivono  magramente;  il  gua- 
dagno dello  Stato  non  è  già  nel  sof- 
focare, ma  nello  estendere  le  indu- 
strie. Quanto  alla  frode,  la  si  eviterà, 
stabilend  1  su  tutto  il  perimetro  della 
zona  dei  cancelli,  traverso  cui  si 
possa  sorvegliare  dentro  e  fuori;  ad 
ogni  modo  i  porti  franchi  stranieri 
possono  insegnare  sull  '  argoment  \ 
Nella  zona  non  si  dovrebbe,  natural- 
mente,  né  abitare,   né  consumare. 

Lo  Stato  non  esporta  tabacchi,  né 
fiammiferi.  Se  ciò  é  permesso  in  Al- 
geria, nelle  colonie,  perché  i  fabbri- 
canti non  potrebbero  avvicinarsi  alle 
porte  doganiere  della  Francia? 

Parlasi  dell'esodo  possibile  di  certe 
indu.strie  interne,  che  andrebbero  a 
stabilirsi  nella  zona  franca.  Quali  ? 
Le  più  importanti  sono  protette  in 
Francia  con  premi,  col  benefizio  del-i 
l'ammissione  temporaria  e  dal  draw- 
back, che  permette  di  affranchire  to- 
talmente o  quasi  le  materie  prime. 
Sarebbero    invece    le    industrie    non 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


157 


icora  esistenti  in  PYancia  che  ne  ap- 
rofitterebbero. 

Una  classe  che  verrebbe  danneg- 
iata,  pare,  è  quella  dei  viticultori. 
ssi  sono  protetti  dalla  legge  del  1899 
le  proibisce  di  tagliare,  in  porto,  i 
ini  stranieri.  Ma  ecco  quanto  dice 
stessa  Camera  di  commercio  di 
ordeaux:  «  Non  si  comprende  come  i 
ticultori  potrebbero  perderci ,  quando 
vini  stranieri  venissero  qui  a  subire 
5lle  manipolazioni  conformi  ai  gusti 
2i  consumatori  d'oltrenare  e  ripar- 
re  per  l'estero.  Il  porto  f  anco  fa- 
literà  semplicemente  il  trasporto,  su 
Itigli  il  più  sovente  francesi,  di  vini 
ranieri  nei  nostri  porti,  e  la  loro 
spedizione  per  1'  estero.  Come  un 
.le  affare,  che  si  fa  all'estero,  può 
isturbare  i   viticultori  francesi? 

D'altronde  qual  fu  il  risultato  di 
nella  legge  protettiva?  Che  i  depo- 
ti di  vini  esteri,  proibiti  in  Francia, 

stabilirono    all'estero.    La  Spagna 

)ecialmente  ne  approfittò,   e  i  nego- 

anti  francesi  stabiliti  all'estero  non 

inno  più  alcun  profitto  alla  patria. 

« 

*  * 

Alcuni  domandano  addirittura  che 

zone  franche  siano  stabilite,  oltre 
le  a  Marsiglia,  in  due  porti  dell'O- 
;ano,  in  uno  del  Mare  del  Nord  e 

Parigi.  Il  Maybon  vorrebbe  invece 
le  si  stesse  prima  contenti  dell'espe- 
mento  di  Marsiglia.  I  porti  francesi 
)no  troppi  (69)  e  otto  soltanto  non 
escono  un  carico  per  Io  Stato.  È  ne- 
;ssario  sviluppare  il  meglio  possi- 
ne i  più  buoni. 

Il  progetto  permetterebbe  a  Mar- 
glia  di  riprendere  una  parte  degli 
Tari  che  Amburgo  e  Copenhagen, 
enova  e  Trieste,  le  hanno  tolto.  Se 
1  esso  si  unisse  l'e-secuzione  del  ca- 
lle da  Marsiglia  al  Rodano,  la  co- 
ruzione  di  nuove  vie  fra  Nord  e 
[ezzogiorno,    la   linea    dall'  Estaque 

Miramas  per  il  litorale,  la  gran 
ttà  marittima  riprenderebbe  ben  pre- 
o  il  suo  antico  splendore. 

In  libreria. 

La  stagione  libraria  primaverile 
ormai  esaurita.  Essa  non  fu  forse 
lolto  feconda  al  paragone  degli  al- 
i  anni,  ma  fu  molto  varia,  come 
ifviene  il  più  delle  volte  nella  pro- 
uzione  editoriale  italiana. 


Veramente  monumentale  è  il  vo- 
lume in-folio  che  l'Hoepli  ci  mandò 
recentemente,  ove,  per  opera  di  Luigi 
Augusto  Cervetto.  si  illustra  una  fa- 
miglia di  artisti  italiani  attraverso  i 
secoli.  Dal  quattrocento  al  novecento 
i  Gaggini,  originarli  di  Bissone  in 
Lombardia,  sparsero  le  loro  opere 
dall'Alta  Italia  alla  Sicilia:  decoratori 
nati,  scultori,  pittori  ed  architetti, 
lasciarono  testimonianza  di  sé  in 
Francia  e  in  Ispagna.  Quest'opera  è 
un  tributo  doveroso  a  questi  artisti, 
non  soltanto,  ma  un  contributo  alla 
storia,  e  dal  lato  editoriale  una  delle 
cose  più  magnifiche  che  noi  abbiamo 
avuto  sotl' occhio.  Un  centinaio  di 
foto-incisioni  che  orna  il  testo  mostra 
che  in  fatto  d'illustrazioni  artistiche 
non  abbiamo  più  nulla  da  invidiare 
agli  stranieri. 

L'  Hoepli  ha  pure  dato  in  luce 
testé,  in  due  considerevoli  volumi,  la 
traduzione,  a  cui  Gaspare  Finali  at- 
tendeva da  molti  anni,  delle  com- 
medie di  Plauto. 

Altri  parlerà  su  questa  rivista  del- 
l'opera su  Carpaccio  del  Molmenti  e 
del  Ludwig  pubblicata  da  Bemporad. 
II  Molmenti  è  d'una  fecondità  straor- 
dinaria, ma  crediamo  altresì  che  l'af- 
foltarsi  delle  sue  pubblicazioni  arti- 
stiche quest'anno  sia  dovuto  sopralutto 
a  ragioni  editoriali.  Ad  ogni  modo 
gli  editori  ci  sono,  ora,  e  buoni. 
L'Alinari  di  Firenze  ha  fatto  qui  una 
bella  edizione  della  Pittura  veneziana, 
ricca  d'incisioni  nel  testo  e  di  tavole 
separate,  nella  quale  il  Molmenti 
traccia  un  quadro  rapido  e  brillante 
dell'arte  che  fu  la  gloria  più  alta  di 
Venezia:  ottimo  nunuale  che  consi- 
gliamo agli  studiosi  e  alle  signore 
colte.  Un  altro  volume,  F<?«tfsw,  eh 'è 
fra  i  più  belli  della  collezione  pub- 
blicata dal  benemerito  Istituto  di 
Arti  Grafiche  di  Bergamo,  L'Italia 
Artistica,  non  basta  ancora  a  com- 
pletare la  serie  di  lavori  terminati  dal 
Molmenti  in  questi  ultimi  anni,  la 
quale  sarà  coronata  da  una  nuova 
edizione,  pubblicata  dallo  stesso  Isti- 
tuto, e  interamente  rifatta,  della  VHta 
privata  a    Venezia. 

Della  bellissima  serie,  L'Italia  ar- 
tistica, son  uscite  già  Ravenna  di 
Corrado  Ricci,  Ferrara  e  Pomposa 
di  G.  Agnelli  :  un  fascicolo  contiene 
Girgenti  di  Ser.  Rocco  e  Da  Segesta 


158 

a  Seliniiiite  dì  E.  Mauceri.  Altre  mo- 
nografie parecchie  sono  in  prepara- 
zione e  in  pochi  anni  è  probabile  che 
i  più  importanti  e  i  più  rari  centri 
d'arte  siano  adeguatamente  illustrati 
dinanzi  al  popolo  italiano  in  libri 
italiani,  i  quali  reggono  senza  dub- 
bio al  paragone  dei  consimili  fatti 
all'estero. 


Un  editore  che  dimostra  un'ope- 
rosità continua,  e  che  in  pochi  anni 
ha  accumulato  una  copiosa  e  utile 
produzione,  è  Remo  Sandron,  l'edi- 
tore dell'Italia  meridionale  che  più 
fortemente  compete  con  quelli  della 
settentrionale.  La  sua  Biblioteca  di 
scienze  sociali  e poìi/iche  conili  già  49 
numeri:  essa  è  piena  di  bei  nomi  e 
di  belle  opere.  Fra  le  ultime  segna- 
liamo le  Voci  del  nostro  tempo  di 
Alessandro  Chiappelli,  e  //  movimento 
operaio  di  Achille  Loria  :  i  Saggi  di 
critica  del  marxismo  di  Giorgio  Sorel 
e  gli  Studi  socialisti  di  Giovanni  Jau- 
rès  vengono  ultimi  ad  allargare  il 
campo  delle  trattazioni.  La  Biblio- 
teca di  scienze  e  lettere,  già  al  20°  nu- 
mero, è  non  meno  pregevole.  In  essa 
fu  pubblicato  il  lavoro  del  Croce  sulla 
Estetica:  l'ultimo  è  Tolstoi  educatore 
di  Aurelio  Stoppoloni.  Il  Sandron 
stampa  altresì  una  Biblioteca  rara  e  una 
Piccola  cncinclopedia  del  secolo  XIX, 
appena  iniziata.  Ma  la  più  bella  no- 
vità è  la  Biblioteca  dei  Popoli  diretta 
da  Giovanni  Pascoli,  di  cui  parleremo. 

Fra  le  collezioni  in  corso  dob- 
biamo lodare  la  seria  ed  elegante  Pic- 
cola Biblioteca  di  Scienze  sociali  dei 
Fratelli  Bocca,  la  quale  ha  dato  fuori 
in  questi  ultimi  mesi  parecchi  la- 
vori originali  di  varia  coltura.  Gli 
studi  religiosi  vi  sono  rappresentati, 
oltre  che  da  L'essenza  del  cristiane- 
simo di  Harnack,  dal  Gesti  Cristo 
del  Labanca  e  dal  Buddha  del  Costa. 
l^a.  Storia  dell' Alfabeto  Ae\  Clodd  è  un 
modello  di  monografia  completa, 
scientifica  e   insieme  popolare. 

Interessanti  sono  pure  i  due  .'aggi 
di  Carlo  Del  Lungo:  Goethe  ed  Hel- 
moltz.  Le  origini  del  melodramma  del 
Solerti  sono  un  buon  contributo  per 
la  storia  della  musica  e  L'irrazionale 
nella  letteratura  del  Fraccaroli,  un 
saggio  d'estetica,  darà  del  filo  da  tor- 
cere ai  critici  e  ai  filosofi. 


TR.\    LIBRI    E    RIVISTE 


La    Biblioteca   Storica    di  Roux   < 
Viarengo  s'è  accresciuta  di  alcuni  \n>-- 
gevoli  volumi,   fra  cui  la  Storia  della 
Binansa  italiana  di  Achille  Plebano, 
Roma  e  i  Romani  nelle  campagne  i'-' 
4S-^()  dì  Ernesto  Ovidi  e  ultimanu  ' 
d'una  nuova  edizione  degli  Scria 
Discorsi  politici  di  Francesco  Crisi  n 
(1S49-1890).    Abbellisce    la    raccolta 
un  volume  d'arte,  Xz.  Storia  dell' A' Ir 
di  G.    Natali    ed  E.    Vitelli,   un  .Ni 
manuali  più  completi  che  siano  usciii 
in    questi     anni,   che  l'insegnamento 
della    storia  dell'arte  è  riconosciuto, 
alfine  come   una  necessità.  1 


—  E  i  romanzi  ?  -  odo  domandarmi 
dalle  lettrici  cjre  scorrono  le  colonne 
àeW  Antologia,  incampagna,  a! rezzo. - 
Pochini,  come  sempre.  Dicono  che 
siamo  un  popolo  di  fantasia:  eppure  la 
fiction  pare  essere  la  produzione  let- 
teraria più  prevalente  fra  gli  Anglo- 
Sassoni,  gente  positiva,  che  non  presso 
di   noi.   Abbiamo  pochi   romanzi. 

Neera  ha  pubblicato  in  volume  da 
.Sandron  il  romanzo  già  apparso  nelle 
colonne  della  nostra  rivista  :  Una 
passione.  Lo  stesso  Sandron  ha  dato 
alla  luce  //  dubbio  dì  Fulvia,  Fu  così. 
di  Sofia  Bisi  Albini,  Piccoli  esuli  d'I- 
talia dì  Giuseppe  Errico.  Treves  ci 
manda,  oltre  alla  Fiamma  fredda  di 
Silvio  Benco,  Dopo  la  littoria  di 
Sfinge.  La  Poligrafica  di  Milano  pub- 
blica una  raccolta  di  novelle  del  nostro 
collaboratore  Alfredo  Fanzini,  Trionfi 
di  donna.  Altre  novelle  di  Luigi  Pi- 
randello stampa  l'editore  Streglio. 

Due  traduzione  dal  tedesco.  Le 
affinità  elettive  di  Goethe  e  V Eterno 
fetnminino,  poema  di  Roberto  Misch, 
sono  state  messe  in  luce  decorosa- 
mente dalla  Libreria  Editrice  Nazio- 
nale di  Milano. 


I  versi  non  sono  scarsi  mai  in  Italia. 
Abbiamo  altra  volta  accennato  ai 
migliori  volumi  u.sciti  nella  stagione. 
Sarebbe  arduo  notarli  tutti.  Meritano 
di  essere  segnalati  il  Canzoniere  di 
Felice  d'Onufrio,  Savii  e  Pazzi  di 
Giuseppe  Di  Napoli,  Odi  ed  Elegie 
di  Alfredo  Galletti.  Degni  di  esame 
sono  sopratutto  L'anima  dell'Italia  di 
Adele  Galli,  le  Ore  d'ombra  e  di  luce 
(Streglio,  Torino) di  V.  A.  AruUani  e 


TRA   LIBRI    E    RIVISTE 


159 


Liriche  Umane   di  Giovanni  Bertac- 
chi     'Soc.   Ed.  Naz.,  Milano). 

Costantino  Nigra  ha  pubblicato 
(presso  Menotti  e  Bassano,  Milano) 
una  bellissima  edizione  del  suo  poe- 
metto La  Rassegna  di  Novara  :  essa 
è  ornata  d'un  ritratto  dell'Autore,  da 
un  dipinto  a  olio  del  Ricard,  e  di 
splendidi  disegni  di  R,  Salvador!. 


Dei  libri  stranieri  teniamo  conto, 
in  altra  parte  della  Rivista,  secondo 
gli  eclii  che  ci  arrivano  per  mezzo 
delle  rassegne  e  dei  giornali,  in  modo 
che  i  lettori  italiani  sieno  il  più  lar- 
gamente possibile  informati  del  mo- 
vimento letterario  e  scientifico  mon- 
diale. Regna  sempre  fra  gli  editori 
inglesi  e  americani  un'attività  di  cui 
non  abbiamo  un'idea  in  Italia:  i  libri 
escono  a  migliaia  ogni  me.se  e  si 
vendono  in  numero  straordinario  di 
copie.  Noi  qui  non  possiamo  tener 
conto  che  di  quel  che  giunge  sul  no- 
stro tavolo,  e  non  è  poco.  Ad  esempio, 
il  Tauchnitz  ci  manda,  della  sua 
scelta  di  British  a>id  American  Au- 
thors,   parecchi  volumi  ogni   mese. 

Un  nuovo  editore  francese,  Fon- 
temoing,  che  pubblica  la  bella  rivista 
Minerva,  ha  in  pochi  mesi  stampato 
molte  opere  pregevolissime,  fra  cui 
parecchie  raccolte  di  memorie  stori- 
che :  I^e  portefeuillc  de  la  Comtessc 
d'Albany,  Le  Registre  de  l'Ile  d'Elbe. 
entrambi  per  cura  di  L.  G.  Pélissier, 
le  Mhnoires  du  Baron  de  Lóicenstern 
(1776-1858).  a  cura  di  M.   H.  Weil. 

Libri  di  storia  ha  pure  pubblicato 
la  libreria  Pion  ;  le  memorie  del  Conte 
de  Reiset,  L'Unite  de  l' Italie  -  L'Unite 
de  l'Allemagne. 

La  Société  du  Mercure  de  France 
continua  la  sua  serie  di  varia  lette- 
ratura. Notiamo  fra  gli  ultimi  invii  : 
La  Chaine  des  heures,  \&rs\  à\  R.  H. 
De  Vandelburg  ;  \\  alleati  -  Maiirs  du 
XVIII  siècle,  di  Virgile  Jozs  ;  La 
fiction  ?iniverselle,  saggio  letterario 
di  Jules  De  Gaultier  ;  Schéhérazade , 
versi  di  Tristan  Klingsor  ;  fra  le 
traduzioni,  Stalky  et  C.  di  Rudyard 
Kipling. 

Una  nuova  Società  editrice  pari- 
gina, la  Bibliothéque  Internationale 
d'Edition  ha  iniziato  una  serie  di 
brevi    biografie,     volumetti  di   meno 


duna  cinquantina  di  pagine,  ove  si 
raccolgono  piccoli  profili  di  Célébri- 
tés  d'aiijoìtrd'  hai.  Queste  celebrità 
son  tutti  letterati  :  son  già  usciti  Paul 
Adam,  e  Oc  lave  Mirbeau  :  molti  altri 
s'annunziano,  fra  cui  notiamo  Car- 
ducci, D'Annunzio,  Bracco,  ecc.  ecc. 
La  stessa  Società  pubblica  una  col- 
lezione /  'aria-Curiosa  in  cui  troviamo 
fra  i  primi  numeri  un  breve  studio  su 
Anton  Francesco  Doni,  di  \'an  Bever 
e  .Sansot-Orland. 


Tra  i  romanzi  francesi  pervenutici 
e  che  consigliamo  ai  lettori,  ecco 
V Inutile  Effort  di  Rod  (Perrin),  His- 
toire  comique  di  Anatole  France 
(Calmann-Lévy),  Cteurs privilegiés ,  di 
Abel  Hermant  La  Ruse  di  Paul  Adam, 
che  fa  seguito  a  La  Force  e  a  L' En- 
fant d'Austerlitz,  illustrando  la  vita 
francese  intorno  al  1828  (Ollendorff), 
La  Maison  du  péché  di  Marcella  Ti- 
nayre  (Calmann-Lévy). 

La  libreria  Fischbacher  ha  tradotto 
da  poco  Marcella,  il  bel  romanzo 
della  signora  W'ard,  P^ontemoing  ha 
regalato  ai  lettori  francesi,  prima  sulla 
Minei'va,  poi  in  volume,  Le  marquis 
de  Roccaverdina  del  nostro  Capuana,  e 
la  Revue  des  deux  Mondes,  Elias  Por- 
tolu  di  Grazia  Deledda  che  compa- 
rirà presto  in  volume,  mentre  Per 
Lanini  ha  fatto  conoscere  in  Francia 
Jérusalem  en  Dalecarlia  della  svedese 
Selma  Lagerlòf.  che  vorremmo  veder 
tradotto  in  Italia. 

È  un  lavorio  di  trasfusione  reci- 
proca che  avviene  non  soltanto  nella 
letteratura,  ma  anche  nella  scienza 
dei  diversi  paesi.  Ecco  qui,  ad  esempio, 
in  bellissima  edizione,  accolta  nella 
Biblioteca  filosofica  diretta  dal  Muir- 
head,  edita  da  .Swan  Sonnenschein  di 
Londra,  la  Psicologia  contemporanea 
di  Guido  Villa  già  comparsa  dal  Bocca. 
Gli  scienziati  precedettero  i  letterati 
nel  far  conoscere  l'Italia  nuova  all'e- 
stero :  essi  per  i  primi,  insieme  ai 
nostri  inventori  emigrati,  dimostra- 
rono che  l'Italia  lavora  nei  campi 
più  ardui.  Se  noi  traduciamo  e  assi- 
miliamo molta  produzione  straniera, 
ne  rendiamo  il  beneficio  in  idee  e 
in  opere:  la  nostra  nazione  cosi,  an- 
che nel  lavoro  e  nel  progresso  intel- 
lettuale,   è  fra   le  grandi  potenze. 


KK) 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


«  Mens  sana   in  corpore  sano  ». 

É  questo  il  titolo  del  nuovo  libro 
che  Angelo  Mosso  dedica  al  pro- 
blema dell'educazione  fisica  con  l'am- 
mirabile ardore  di  apostolo  e  la  lucida 
vasta  dottrina  percui  aldi  là  dell'Atlan- 
tico e  in  patria  s'è  conquistata  la  fama 
di  uno  dei  più  geniali  scienziati  con- 
temporanei   (Milano,   Treves). 

I  nostri  lettori  ricorderanno  due 
studi  di  lui  :  L'educazioìie  moderna 
della  donna  e  L'arte  di  educare,  che 
comparvero  tempo  fa  nella  Nuova 
Antologia.  Essi  sono  raccolti  ora  in 
questo  volume  (Treves.  Milano),  as- 
sieme ad  altri  tre  che  il  Mosso  lesse 
l'autunno  scorso  al  Corso  magistrale 
di  educazione  fisica  tenutosi  a  To- 
rino :  Origini  dell'agonistica  e  della 
ginnastica,  L'agonistica  tnoderna , 
L' educazione  fisica  nelle  Università, 
ed  altri  tre  inediti  ;  L'educazione  fi- 
sica dei  Romani  e  della  gioventii  itx- 
lica.  L'opera  del  Goi'crno,  La  demo- 
crazia e  l'educazione  fisica.  Il  Mosso, 
come  si  vede,  ha  inteso  delineare 
il  cammino  del  concetto  mens  sana 
in  corpore  sano  attraverso  i  tempi  e 
le  civiltà. 


li  popolo  greco  attribuì  le  origini 
dell'educazione  fisica  all'epoca  mito- 
logica. Da  Apollo,  dio  della  medi- 
cina e  delle  arti  che  iniziò  i  giuochi 
pitici,  a  Erberto  Spencer,  il  massimo 
filosofo  dei  nostri  giorni,  giocatore 
infaticabile  di  racchetta,  rematore  me- 
todico, che  sentenziò  :  «  la  prima  con- 
dizione del  successo  in  questo  mondo 
è  di  essere  un  buon  animale  »,  il 
tratto  è  veramente  lungo,  ma  queste 
pagine  ce  lo  fanno  seguire  senza  fa- 
tica,  con  un  interesse  continuo. 

Arrivato  all'esame  delle  varie  con- 
dizioni in  cui,  secondo  i  paesi,  si 
trova  adesso  l'agonistica  ■  il  Mosso 
propone  questa  parola  più  antica,  più 
nobile  e  più  esatta,  in  luogo  di  sport 
o  educazione  atletica  o  giuochi  -  il 
lettore  è  ben  conquistato  alla  fede 
dell'illustre  scienziato,  e  conviene  in 
tutti  i  suoi  voti  sull'opera  dei  Go- 
verni e  dei  privati,  perchè  i  popoli 
latini  raggiungano  ed  emulino  gli 
anglo-sassoni  nel  campo  del  progresso 
fisico.  Le  statistiche  di  comparazione 
che  il  Mosso    presenta    sono  di    per 


sé  stesse  il  più  eloquente  degli  p- 
poggi  alla  propaganda  civile,  vcr.i- 
mente  «  democratica  »  da  lui  per- 
seguita. 

In  Italia  non  abbiamo  neppui 
decima  parte  dei  maestri  di  ginn; 
che  occorrono:  altro  che  le  i.,.> 
versila  americane,  che  hanno  tutte 
un  ginnasio  per  l'educazione  fisica, 
e  ove  gli  studenti  che  si  iscrivuno 
son  visitati  da  un  medico  e  u;tl 
maestro  di  ginnastica,  che  ne  redi- 
gono la  tabella  biologica,  consigliando 
loro  quegli  esercizi  di  cui  hanno 
maggior  bisogno  per  la  lor  costitu- 
zione !  Laggiù  il  loro  motto  è  A/oic 
life  and  fuller  (più  vita  e  più  ceim- 
pleta).  I  nostri  giovani  invece  udii 
pensano  che  a  procacciarsi  la  licenza 
liceale  o  la  laurea,  per  poi  «  campar 
la  vita  »  il  meno  faticosamente  pos- 
sibile :  e  nello  studio  eccessivo  e  pe- 
dante, senza  svaghi  sani  al  sole  ed 
all'aria,  diventan  candidati  della  morte 
prematura:  per  cento  studenti  che  mo- 
rirono neir  ultimo  quinquennio  fra 
i  15  e  i  25  anni  di  età,  cinquanta 
sono  morti  per  affezioni  tubercolari; 
il  numero  delle  vittime  che  la  tisi  fa 
nelle  scuole  è  maggiore  che  non  per  ! 
tutte  le  professioni...  J 

«  Perchè  si  sfollino  le  scuole  -  dice 
il  Mosso  con  ragione  -  bisogna  che 
prima  cresca  il  desiderio  della  indi- 
pendenza personale  e  che  nel  pub- 
blico divenga  più  forte  la  simpatia 
per  i  mestieri  e  le  arti  manuali... 
L'  industria,  il  commercio,  l'agri- 
coltura e  più  che  tutto  la  colonizza- 
zione ci  guariranno  forse  da  questo 
male,  ma  l'evoluzione  sarà  lenta...  » 

II  problema  è  d'  una  grave  com- 
plessità: il  ministro  Nasi  nominò  nel 
febbraio  del  1902  una  Commissione 
«  al  fine  di  studiare  tutte  le  questioni 
attinenti  all'educazione  fisica  e  di 
proporre  le  riforme  necessarie...»,  ma 
ognuno  comprende  l'insufficienza  di 
questo  pur  lodevole  progetto.  Ci  vor- 
rebbe una  serie  d'atti  energici  che 
sostituissero  alle  spese  per  parecchie 
cattedre  superflue  di  coltura  frazio- 
nata quelle  per  1'  introduzione  del- 
l'agonistica nelle  scuole  e  nelle  uni- 
versità, e  la  creazione  di  Istituti  psi- 
cofisici ove  si  insegnassero  la  fisio- 
logia, r  igiene  pedagogica  e  la  psi- 
cologia sperimentale.  Il  disegno  di 
legge    che    il  ministro    Gallo    aveva 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


161 


reparato  nel  189S  e  che  il  Mosso 
lubblica  in  appendice  al  suo  volume 
arebbe  stato  un  buon  principio,  ma 
enne  travolto  colla  caduta  del  mi- 
listro. 

Intanto  libri  come  questi  di  An- 
;e!o  Mosso  incitano  la  parte  intelli- 
;ente  e  viva  della  nazione  a  colti- 
'are  in  sé  l'idealità  d'una  razza  forte 
:  serena,  meritevole  dei  beni  che  la 
'ita  non  lesina  ai  tenaci  conquista- 
ori.  Sono  questi  libri  come  soffi 
l'aria  nuova,  che  ci  dilatano  i  poi- 
noni  e  ci  consentono  d'allargare  la 
lostra  visione  d'avvenire  :  ascoltando 
1  Mosso  narrarci,  colla  sua  fine  e 
nsieme  vivace  bonomia  di  filosofo 
noderno,  le  impressioni  da  lui  rice- 
vute frequentando  gli  uomini  e  le 
lonne  degli  Stati  Uniti,  quel  mondo 
3ve  si  opera  uno  sforzo  formidabile 
;d  universale  verso  il  progresso,  il 
;enso  d'avvilimento  e  d'invidia  non 
;  che  passeggero  :  subentra  tosto  la 
;oscienza  di  energie  in  noi  latenti, 
:he  si  risvegliano,  che  vorremo  e 
sapremo  sviluppare,  che  ci  daranno 
!e  stesse  vittorie  di  cui  ora  van  le- 
gittimamente superbi  i  popoli  d'oltre 
mare. 


La  riabilitazione  dei  Carlyle. 

L'editore  John  Lane  di  Londra  ha 
pubblicato  di  recente  una  interessan- 
tissima raccolta  di  lettere  e  memorie 
di  Jane  W'eish  Carlyle,  con  una  in- 
troduzione di  Sir  James  Crichton- 
Browne. 

Sono  due  volumi  resi  ancor  più 
attraenti  dalle  numerose  illustrazioni 
ivi  contenute.  Molti  avevano  creduto 
che  il  Froude  nel  suo  libro  sul  Carlyle 
avesse  detto  tutto  ciò  che  fosse  stato 
possibile  dire  dopo  accurate  ricerche, 
ma  così  non  è,  giacché  poche  delle 
lettere  da  lui  pubblicate  sono  più  in- 
teressanti di  quelle  che  troviamo  in 
questi  due  nuovi  volumi.  L'autore 
non  sa  nascondere  l'asprezza  dei  suoi 
sentimenti  verso  il  Froude  per  aver 
questi  presentato  il  Carlyle  in  una 
falsa  luce  avanti  al  pubblico.  Egli  non 
giunge  fino  ad  asserire  che  il  Froude 
ponesse  una  certa  malignità  in  quel 
che  fece,  ma  preferisce  pensare  che 
fu  la  sua  negligenza  e  la  smania  di 
concludere   che   lo   trasse   in  errore. 


11 


L'introduzione  di  Sir  James-Crich- 
ton-Browne,  che  consta  di  ben  80 
pagine,  è  una  severa  requisitoria  al 
Froude.  Quando  questi  pubblicò  il  suo 
volume,  egli  scelse  le  lettere  della 
signora  Carlyle  che  avevano  maggior 
merito  letterario,  tralasciando  quelle 
di  natura  famigliare,  che  ora  vedono 
la  luce.  Già  le  lettere  che  pubblicò  il 
Froude  parlavano  della  pulizia  della 
casa,  e  specialmente  di  quella  dei 
letti,  che  sembra  aver  dato  grande 
fastidio  alla  signora  Carlyle.  Queste 
nuove  lettere  contengono  molti  detta- 
gli domestici,  tra  i  quali  le  pulizie  pri- 
maverili hanno  una  parte  importante. 
Nuove  edizioni  dei  libri  del  Carlyle 
stanno  per  esser  pubblicate,  ed  egli 
è  considerato  ora  molto  più.  che  po- 
chi anni  dopo  la  sua  morte.  Egli  era 
appena  sceso  nella  tomba,  allorché 
un  vento  di  detrazione  si  levò,  cre- 
scendo ne'  seguenti  anni  in  un  tur- 
bine di  biasimo  che  minacciava  di 
gettare  il  suo  nome  e  le  sue  opere 
in   un   limbo  di  sprezzo. 

La  causa  della  straordinaria  deca- 
denza del  Carlyle  nella  pubblica  sti- 
ma fu,  secondo  il  suo  presente  difen- 
sore, il  risultato  de'  volumidel  Froude 
colle  sue  reminiscenze  e  lettere.  Esse 
dipingevano  il  grande  letterato  nei 
suoi  più  neri  e  meno  amabili  mo- 
menti, nascondendo  {brillanti  e  geniali 
aspetti  della  sua  natura  e  mo.stran- 
dolo  come  egli  era  solamente  rare 
volte. 

Il  Crichton-Brovvne  trova  quasi  im- 
possibile il  credere  che  il  Froude 
ponderasse  o  prevedesse  il  male  che 
egli   andava  preparando. 

Il  Froude  fu,  ne'  suoi  ultimi  giorni, 
il  più  intimo  amico  di  Carlyle  e  il 
suo  più  devoto  discepolo,  e  lettera- 
riamente sedè  ai  piedi  del  «  Saggio 
di   Cheyne   Row  »   per  anni. 

«  Egli  cominciò  -  dice  lo  scrit- 
tore -  con  l'adorazione  per  l'Eroe  e 
fini  quasi  in  uno  stato  di  ossessione 
demoniaca  ». 

«  Dapprima  egli  abbiettamente  si 
pro.strò  avanti  al  Carlyle  come  avanti 
un  incommensurabile  suo  superiore 
e  alla  fine  egli  costruì  un  mosaico, 
rappresendandolo  come  un  mostro  ar- 
cigno e  grottesco  ». 

Per  comprendere  il  trattamento  del 
P'roude  verso  il  Carlyle  Io  scrittore  cre- 
de necessario  studiare  il  carattere  det 

Voi.  evi,  Serie  IV  -  1°  luglio   1903. 


16^ 


TUA    LIBRI    E    RIVISTE 


Froude  ;  l'esame  di  questo  rivela  che 
aveva  l'abitudine  di  storpiare  le  im- 
pressioni che  riceveva.  Egli  raramente 
scopriva  il  vero  significato  e  lo  scopo 
di  alcuna  delle  discipline  che  egli  stu- 
diava, ma  travolgeva  i  fatti  dalla  loro 
esatta  forma  e  figura  e  li  rendeva 
conformi  alle  sue  idee  e  alla  sua  fan- 
tasia, mentre  li  spingeva  molto  al  di 
là  del  vero.  Non  è  mai  esistito,  af- 
ferma Sir  Crichton-Browne,  alcun 
eminente  autore  inglese  che  sia  stato 
cosi  frequentemente  e  cosi  schietta- 
mente contraddetto. 

Lo  scrittore  si  stupisce  come  il  Car- 
lyle  col  suo   acuto    discernimento    e 


Miss  Jant'  Welsh. 

(a<i  ,.,„,  ,m,;«tu,-aj. 

amore  per  la  verità  potesse  aver  fatto 
del  Froude  il  principale  depositario 
del  suo  testamento  letterario.  Quando 
ciò  fece,  egli  era  vecchio  e  aveva  sol- 
tanto pochi  amici,  sebbene  contasse 
molti  adoratori.  Quantunque  il  Froude 
conoscesse  le  cose,  egli  si  mise  in  testa 
che  il  Carlyle  avesse  maltrattato  sua 
moglie,  e  che  la  sua  vita  dopo  la  di 
lei  morte  fosse  piena  di  rimorsi  ;  e 
dal  momento  che  questa  idea  s'impa- 
dronì della  mente  del  Froude,  egli  si 
pose  con  ardente  assiduità,  quasi  di 
un  litigante,  ad  appoggiarla  fino  apub- 
blicare lettere  che  il  Carlyle  aveva  as- 
solutamente vietato  che  si  rendessero 
note.  Non  solo  il  Froude  ommise  più 
della  metà  delle  lettere  che  Carlyle  ave- 
va raccolto,  ma  sostituì,  con  conse- 


guenze disastrose,  a  quella  parte  del 
giornale  della  signora  Carlyle  prepa- 
rata da!  marito,  un'altra  raffazzonatura 
molto  differente,  fatta  da  lui.  Quanto  al 
falso  ritratto  che  dell'autore  de\\a.l'i/a 
di  .Federico  II,  fa  il  Froude,  Sir  James 
ne  trova  la  ragione  nella  negligenza 
e  nei  preconcetti   di  lui. 

E  il  Froude  soffri,  al  pari  del  Car- 
lyle, interamente  il  male  che  fece  con 
la  pubblicazione  delle  reminiscenze 
e  delle  lettere. 

«  Io  so  personalmente  -  scrive  Ales- 
sandro Carlyle- che  questo  gli  fu  causa 
di  molto  dolore,  giacché  io  lo  incon- 
travo di  frequente  un  tempo  Egli  con- 
fessava che  l'accoglienza  che  il  suo 
libro  aveva  avuta  era  inaspettata,  lo 
credeva  e  credo  tuttavia,  che  nel  pub- 
blicare queste  carte  private  egli  sba- 
gliasse semplicemente  nel  giudizio,  e 
non  fosse  mcitato  da  alcun  cattivo 
sentimento  verso  Carlyle.  Durante 
qualche  tempo  dopo  la  pubblicazione 
egli  fu  in  uno  stato  di  profondo  avvi- 
limento e  di  apparente  contrizione  tale 
che  quando  lo  incontravo,  il  che  ac-  ' 
cadde  più  di  una  volta,  io  non  potevo 
far  altro  che  sentirmi  pieno  di  com- 
passione  per  lui  » . 

Questa  contrizione,  secondo  il  Crich- 
ton  Browne,  si  tramutò  ben  presto 
in  virulenza  allorché  la  signora  Ales- 
sandra Carlyle  pubblicò  nel  numero 
del  Times  del  5  maggio  1881  la  so- 
lenne ingiunzione  di  suo  zio  {Tom- 
maso Carlyle)  che  il  Froude  aveva 
violata. 

Il  Froude  sembra  non  aver  com- 
presa la  vera  situazione  dei  Carlyle. 
Egli  dichiara  che  Carlyle  indusse 
Miss  Welsh  a  scendere  dalla  sua  alta 
posizione  sociale,  e  fece  una  serva 
di  una  donna  che  non  aveva  mai 
conosciuto  un  desiderio  insoddisfatto 
per  alcuna  cosa  che  il  danaro  potesse 
procurare.  Egli  aveva  veduto  i  ricchi 
del  paese  a'  suoi  piedi,  ed  ella  avrebbe 
potuto  scegliere  tra  essi  a  piacimento. 
Orai!  padre  della  signora  Carlyleera  un 
medico  di  campagna  che  riuscì  a  cam- 
par di  rendita,  la  quale  fu  poi  lar- 
gamente assorbita  nel  pagare  l'arre- 
damento di  Craigenputtock.  Una 
serva,  a  otto  sterline  l'anno,  faceva  i 
lavori  più  umili,  e  il  restante  era 
compiuto  dalla  signora  Welsh  e  da 
sua  figlia.  Buona  parte  del  denaro 
fu  dedicato    all'educazione    di    Jane, 


TRA    LIBRI    E   RIVISTE 


né  trattamenti  delicati,  né  sciu- 
,  uè  lusso.  Non  erano  ricchi  i 
ivani  del  paese  che  vivevano  pro- 
iti  a'  suoi  piedi,  e  nello  sposare 
rlyle  ella  non  scese  di  molto  dalla 
L  posizione. 

guanto  al  lavoro  faticoso  ne'  pri- 
irdi  della  sua  vita  maritale  a  Crai- 
iputtock,  Chrichton-Browne  non 
crede.  Ella  aveva  sempre  una 
nna  di  faccende  con  sé,  e  qualun- 
s  lavoro  materiale  facesse  lo  faceva 
suo  piacere.  Ella  cavalcava  ogni 
la  mattina  con  suo  marito,  racco- 
èva  fiori  nelle  ore  d'ozio  de!  po- 
riggio,  e    leggeva    i  classici    con 

durante  la  sera.  Negli  ultimi  anni 
sua  vita  la  signora  Carlyle  stava 
:sso  poco  bene  e  soffriva  d'inson- 
i.  Come  anche  suo  marito,  ella  be- 
va.  molto  tè,  e  fumava  costante- 
:nte  delle  sigarette,  allorché  questa 
itudine  non  era  ancora  cosi  in  voga 
Ile  presentemente  tra  le  English 
Iks;  di  conseguenza  il  suo  sistema 
rvoso  era  molto  scosso,  e  siccome 
she  quello  di  colui  che  concepì 
Sartor  resartus  era  scosso  già  da 
)lto  tempo,  si  può  immaginare  di 
;gieri,  che  la  loro  vita  non  era 
riusi vamente  fiorita  di  rose.  Essi 
svano  le  loro  piccole  differenze, 
i  mai  alcunché  di  serio,  e  nessuno 
ò  leggere  le  lettere  di  questo  libro 
iza  credere  che  si  portassero  reci- 
jcamente  un  grande  amore.  Froude 
ive  molto  intorno  al  rimorso  di 
rl)le,  dopo  la  morte  di  Jane,  ma 
esto  era  unicamente  il  rimorso  di 

uomo  molto  sensibile  che  riandava 
n  la  mente  il  passato  e  che  pensava 
e  mille  piccole  cose  che  avrebbe 
tuto  fare,  e  che  non  aveva  fatto 
r  la  felicità  di  sua  moglie;  positi- 
mente  egli  non  aveva  davvero  nulla 

rimproverarsi 
Le  lettere  della  signora  Carlyle  co- 
tuiscono  una  lettura  deliziosa.  Ella 
parla  della  novità  nella  vita  che 
nducevaa  Craigenputtock,  della  co- 
)dità  e  del  piacere  che  vi  trovava, 
che  sembrerebbe  provare  che  ciò 
e  il  P'roude  diceva  circa  la  vita 
■vile  di  lei  era  tutta  invenzione.  Le 
tere  non  sono  tutte  scritte  al  Car- 
e;  alcune  sono  dirette  ad  amiche, 
re  ai  parenti.  Ve  n'è  una  assai 
/ertente  scritta  a  Carlyle,  che  stava 
sitando  il  Re  V.  Vescovo  di  St.  David. 


1G3 

Essa  descrive  una  visita  di  Darwin, 
che,  come  ella  dice,  era  inquieto  con 
Harriet  Martineau.  Sembra  che  un 
fondo  di  1300  sterline  fosse  stato  rac- 
colto per  lei,  e  che  la  prima  cosa 
che  ella  fece,  fu  di  procurarsi  il  cata- 
logo di  un  argentiere  e  di  ordinare 
un  piatto  da  100  sterline  che  le  oc- 
correva. «  Certamente  Harriet  fa  tutte 
queste  sciocchezze  per  vanità.  Ora 
ella  sarà  probabilmente  in  collera  con 
questi  uomini,  che  hanno  fatto  tanto 
per  lei,  perchè  si  rifiutano  di  accondi- 
scendere a'  suoi  capricci  ».  \n  un'altra 
lettera  ella  scrive  dell 'Harriet:  «  Io 
dimenticai    di    dirvi    clie    la   vidi    il 


La  sign 


rlvle  e  il  suo  cane  Nero. 

(da  una  fot.  dei  Itisi) 


giorno  avanti  che  lasciassi  Liver- 
pool  -  il  ritratto  di  una  robusta  sa- 
lute abbattuta  dal  tempo.  Natural- 
mente ella  era  tutta  vivace,  e  noi 
fummo  solamente  per  breve  ora  in- 
sieme, ma  non  fu  scambiata  parola 
sul  magnetismo  animale...  La  sua 
eloquenza  era  specialmente  diretta 
contro  i  cacciatori  di  leoni  che  tor- 
mentavano la  sua  esistenza  ai  laghi  ». 
La  signora  Carlyle  potè  essere  arguta 
sia  con  la  lingua,  che  con  la  penna. 
Ella  scriveva  a  suo  marito;  «  Ieri 
sera  io    pranzai  dalla    signora  H...; 


lt)4 


TRA    LIBRI    E    RIVISTE 


mangiando  si  prova  quasi  il  mal  di 
mare;  sul  momento  si  crede  che  ces- 
serà, e  allora  l'impressione  svanisce, 
e  ci  s' immagina  d'aver  subito  qualche 
alterazione...  » 

In  questa  stessa  lettera  ella  scrive  : 
«  Sapevate  che  Alfredo  Tennysonavrà 
una  pensione  di  200  sterline  all'anno  ? 
Peel  ha  dichiarato  la  sua  intenzione 
di  raccomandarlo  a  S.  M.  la  Regina, 
il  che  è  considerato  definitivo  :  <<  A 
chaqu'un  selon  sa  capacité  !  »  Lady 
Harriet  mi  disse  che  egli  vuole  am- 
mogliarsi ;  «  deve  avere  una  donna 
per  viverci  vicino  ;  preferirebbe  una 
signora,  ma  non  trova  ;  e  così  deve 
sposare  una  serva  ».  La  signora  Henry 
Taylor  disse  che  essa  era  in  procinto 
di  scrivergli  in  favore  della  sua  ser- 
vente, che  possedeva  un  carattere  ec- 
cellente per  la  sua  condizione...  » 

11  Tennyson  non  si  sposò  che  nel 
1850,  con  una  signora  di  cosi  alta 
posizione  sociale  come  la  sua,  e  la- 
sciando evidentemente  in  disparte  la 
serva  che  poteva  proporgli  la  signora 
Henry  Taylor. 

Non  solo  le  lettere  .sono  di  gran 
valore  per  il  merito  dello  scrittore, 
ma  esse  hanno  un  grande  interesse 
a  causa  delle  annotazioni  fatte  dal 
Carlvle. 


D'altra  parte  giunge  un'altra  voce. 

La  Fronde  del  26  giugno  scorso 
scriveva  che  «  l'orso  mal  leccato  e  il 
tiranno  domestico  che  era  l'eccentrico 
Scozzese  »  stava  per  essere  riabilitato 
dai  suoi  ammiratori  :  è  possibile  - 
concludeva  -  che  in  avvenire  Jane 
sia  una  megera  e  Carlyle  un  santo? 

Edmond  Barthélemy,  che  tradusse 
eccellentemente  in  francese  il  Sartor 
resartiis  (edizione  del  Mercure  de 
France)  e  compose  un  accurato  studio 
biografico  e  critico  s  1  Carlyle,  ha 
scritto  alla  direttrice  della  Fronde  una 
lettera  «  per  rimetter  le  cose  al  loro 
posto  riguardo  la  delicata  questione 
dell'intimità  domestica  dell'illustre 
storico  ». 

«  Froude  -  egli  dice  -  ammirava  il 
Carlyle:  ma  non  l'amava.  Io  credo 
perfino  che  lo  detestasse  più  di  quanto 
egli  stesso  poteva  sospettare.  La  sua 
testimonianza,  ch'io  ho  pesata,  è 
dunque  for.se  improntata  di  parzialità, 
perlomeno  involontaria. 


«  D'altra   parte,    la   recen.e    t'  - 
monianza    in    senso    inverso    del  [.- 
rente  di  Carlyle  può  parer  interessai.,. 

«   Ecco  qui,  in  succinto,  il  risulti' 
dei  miei  studi  personali:  Jane  W' 
seppe  assai  bene  subito  ciò  che  fai  _ 
sposando  Carlyle   'il  quale,  sia  dt  t    > 
di  passaggio,  non  era  affatto  maUU - 
stro  né  volgare)  :  un  puro  matrimoi:io 
d'ambizione.   Ella  aveva  avuto    \n<  - 
cedentemente  un  amore   disgraziat. 
e  non  cercava  nella  sua    unione  C'  >I 
nuovo  venuto   che    i    compensi,     un 
po'  vuoti  in  verità,  della    fama    '■   - 
teraria.  Carlyle,  dal  canto  suo,  a\  - 
pure    amato    un'altra    giovinetta 
bella  e  intelligente  Margherita  Cord.  r. 
da  cui  fu  egualmente    amato)  e  mm 
poteva  dare  soddisfazioni  sentimeni    ' 
a  s,ua  moglie,  che  egli  non  chiedi 
Per  entrambi  fu  un  ajfaìe  di  testa.  I 
lo  sapevano,  essi  ne  convenivano.  ^1 
imprudenti  I   Che  farci? 

«  Sulla  fede,  io  credo,  di  .Mnn 
Arvède  Barine,  di  cui  lo  studio  e 
simpatico  ma  superficiale,  si  è  d'al- 
tronde esagerata  l'umiltà  del  compi :o 
a  cui  Carlyle  avrebbe  ridotto  sua 
moglie. 

«  Sì,  durante  i  sei  anni  passati  nel 
(■o/too-<?  solitario  di  Craigenputtock  .su- 
bito dopo  lo  sposalizio,  Jane  W'elsli, 
la  brillante  Jane  Welsh,  condusse  un.i 
vita  da  infermiera;  Carlyle  senza  troji- 
po  stupirsi,  la  vedeva  fare  ciò  ch'egli 
aveva  sempre  visto  fare  da  sua  ma- 
dre e  dalle  sue  sorelle.  Pertanto  Jane 
era  aiutata  da  una  domestica.  Ella  ri- 
ceveva inoltre  la  visita  di  Jeffroy,  il 
potente  iià.\\o'c&àt\\'  Edinburgh  Rcxinv, 
soddisfazione  d'amor  proprio  che  non 
è  alla  portata  di  tutte  le  infermiere. 

«  Xullameno  era  una  dura  vita,  della 
quale  la  signora  Carlyle  serbò  a  lungo 
le  traccie.  Ma  è  affatto  inesatto  il  dire 
che  questo  regime  d'isolamento,  di 
umiltà,  di  abnegazione  sia  durato  «fino 
alia  morte  ».  I  due  coniugi  non  re- 
starono che  sei  anni  nella  loro  Tebaide 
delle  montagne  del  Dumfriesshire. 
A  Londra,  dopo  il  fulmineo  successa 
di  French  Revolution,  Jane  Welsh  co- 
nobbe ad  usura,  per  quanto  poco  iii- 
vidiabili  possano  essere,  le  soddisfa- 
zioni a  cui  aveva  agognato  sposando 
Carlyle.  Ella  fu  festeggiata  come  può 
esserlo  ogni  moglie  di  scrittore  quando 
sa  tenere  il  suo  posto;  e  Dio  sa  quanto 
la  Car'yle  sapesse  I    Tutte  le  sommità 


TRA   LIBRI    E    RIVISTE 


165 


letterarie  che  Londra  e  il  continente 
avevano,  passarono  nel  salotto  di  Chel- 
sea.  Confessate  che  per  quella  «  in- 
tellettuale »  la  sorte  non  era  disprez- 
zabile. 

«  Per  r  intellettuale.  Ma  per  la 
donna? 

«Ahimè!  Nessun  rumor  di  gloria 
coprirà  presso  una  vera  donna  i  pro- 
fondi battiti  del  cuore.  È  un  triste 
festino  la  fama;  un  granello  di  miglio 
va!  di  più.  Nondimeno  se  Jane  Welsh 
non  trovò  quello  che  non  cercava  in 
principio,  devesi  in  buona  fede  farne 
un  delitto  a  Carlyle?  Egli  non  aveva 
promesso  l'amore  ma  la  gloria,  e  man- 
teneva quanto  aveva  detto.  Egli  stesso 
non  era  felice.  La  Welsh  non  fu  certo 
la  megera  che  vorrebbe  mostrarci  il 
recente  biografo  di  Carlyle  ed  io  ho 
reso  un  omaggio  commosso  al  corag- 
gio, alla  devo7Ìone  di  questa  squisita 
e  infelice  donna:  tuttavia  Froude 
stesso  non  ha  potuto  a  meno  di  no- 
tare nell'attitudine  della  signora  Car- 
lyle verso  il  marito,  davanti  ai  fami- 
gliari, qualcosa  di  poco  tenero.  In- 
somma, i  due  sposi  non  comunicavano 
fra  loro  se  non  colla  letteratura.  Ma 
è  precisamente  quel  che  l'uno  e  l'al- 
tro avevano  voluto  ». 


Il  Museo  Victor   Hugo. 

Fu  inaugurato  a  Parigi  il  30  giu- 
gno, nella  casa  stessa  ove  il  sommo 
poeta  abitò  dal  1833  al  1848.  Alla 
presenza  dei  rappresentanti  del  Go- 
verno, del  Municipio,  dell'Accademia, 
della  <<  Comédie  -  Francaise  »,  e  del 
toni  Paris  intellettuale,  Paul  Meu- 
rtce,  il  nobile  vecchio  che  fece  ser- 
vire il  suo  ingegno  da  piedistallo  al 
Poeta  all'ombra  del  quale  egli  passò 
la  sua  vita,   disse  : 

«  Alla  fine  del  1901,  io  indiriz- 
zavo al  Consiglio  municipale  di  Pa- 
rigi una  lettera,  in  cui  dicevo  :  «  L'In- 
ghilterra ha  la  casa  di  Shakespeare 
a  Stratford-sur-Avon,  la  Germania 
ha  la  casa  di  Goethe  a  Francoforte. 
In  nome  dei  nipoti  di  Victor  Hugo 
e  mio,  propongo  a  Parigi  di  dare 
allaFrancia  la  casa  di  Victor  Hugo  ». 
Parigi  ha  risposto  generosamente  a 
questo  appello.  I  nipoti  di  X'ictor 
Hugo  ed  io  offrivamo  le   collezioni. 


le  opere  di  Victor  Hugo  e  quelle  su 
Victor  Hugo.  Parigi  ha  dato  la  cor- 
nice, questa  storica  e  vivente  casa. 
E  oggi,  signor  presidente,  dopo  ven- 
ti mesi  d'uno  sforzo  che  mi  è  stato 
assai  dolce,  ho  l'onore  e  la  gioia  di 
rimettere  la  casa  di  X'ictor  Hugo  a 
voi  che  rappresentate  Parigi,  a  Parigi 
che  rappresenta  la  Francia  ». 

Presero  in  seguito  la  parola  M.  De- 
ville, M.  de  Selves,  e  M.  Claretie. 
Quest'ultimo  diede  dei  dettagli  inte- 
ressanti sulla  vita  di  Victor  Hugo 
nella  casa  di  Place  Royale  ccn  sua 
moglie  e  i  suoi  quattro  figlioli.  È 
in  questa  casa  che  furono  scritti 
quasi  tutti  i  drammi,  e  i  canti  del 
Ct-epìisculé,  Les  Voix  in/érieures, 
Les  Rayons  et  les  Omhres,  Claude 
Gueux,  Les  Misérables.  Tutta  una 
generazione  d'immortali  venne  qui 
a  far  visita  al  Maestro  :  Lamartine, 
Michelet,  Alessandro  Dumas  padre, 
Dumas  figlio,  Alfonso  Karr,  Arsene 
Houssaye,  Alessandro  de  Humboldt, 
e  altri  e  altri,  forse  George  Sand, 
De  \'igny.  De  Musset  :  poi,  lanuova 
generazione,  Banville,  Baudelaire, 
Leconte  de  Lisle...  Nella  casa  all'an- 
golo della  piazza,  allo  stesso  piano, 
abitava  Teofilo  Gautier,  il  quale  ogni 
mattina  apriva  la  sua  finestra  per  ve- 
der alzarsi  il  Maestro,  come  avrebbe 
visto  alzarsi  il  sole. 

Nel  salone  del  primo  piano  dello 
storico  palazzetto,  ora  divenuto  Museo 
Nazionale,  sono  riunite  le  tele  che 
grandi  artisti  hanno  dipinto  in  gloria 
del  poeta:  campeggia  un  busto  di 
Victor  Hugo  imberbe,  affatto  diverso 
dall'immagine  divenuta  popolare  del 
poeta  ;  è  opera  pregevole  di  David 
d'Angers.  Un  quadro  di  Alberto  Bes- 
nard  riproduce  la  memorabile  se- 
rata della  prima  rappresentazione 
A' Hernani^  restata  celebre  .sotto  il 
nome  di  Battaglia  d' Heniaìti.  Poi 
v'ha  un  Don  Cesar  de  Basan  di 
Roybet,  Baiidin  sur  la  Barricade  di 
I.  P.  Laurens,  i  Bitraraves  di  Roche- 
grosse.  La  Legende  des  siècles  di 
Grasset,   il    Quasimodo  di  Lue  Olivier 

à  Merson,   la  Fantine  di  Carrière 

Infine,  firmato  da  Raffaelli,  un  ri- 
cordo dell'ottantesimo  compleanno 
del  poeta,  la  sfilata  dei  fanciulli  delle 
scuole  di  Parigi  sotto  il  balcone  del- 
l' avenue  Victor  Hugo,  in  cui  il 
nonno    radioso     s'  appoggiava    sulle 


166 

spalle  delicate  di  Giorgio  e  di  Gio- 
vanna.. 

Tutti  i  ritratti  di  \ictor  Hugo  sono 
qui  raccolti,  in^fotografie,  a  penna, 
addio...  una. poin/e  sixhe  colla  data 
del  1880  ha  la  firma  di  Rodin  :  di 
Rodin  v'ha  pure  un  superbo  busto 
del   maestro. 

Accanto  a  questa  raccolta  si  tro- 
vano parecchi  ritratti  di  amici  illu- 
stri con  dedica  autografa  :  uno  di 
George  Sand,  uno  ili  Lincoln,  due  di 
Dumas... 

Ai  secondo  piano  due  sale  sono 
piene  di  disegni,  di  piroincisioni  e 
di  quadri,  opere  punto  mediocri  dello 


TRA    LIBRI    E   RIVISTE 


Stesso  Victor  Hugo.  Li  pure  è  la 
sua  camera,  ricostruita  esat'amente 
cosi  com'era  quand'egli  vi  vis.se  e 
vi  mori  :  vi  si  trova  il  gran  letto  di 
quercia  a  colonne,  in  cui  Hugo  dormì 
l'ultimo  sonno:  accanto  è  una  sorta  di 
leggio  ove  il  poeta  scriveva  stando  in 
piedi  :  vi  si  conservano  i  due  calamai 
di  maiolica  e  la  penna,  e  sotto  un 
vetro,  l'autografo  ult  mo  del  Poeta. 
«  Je  reprf  sente  un  parti  qui  n'e.xi- 
ste  pas  encore  :  le  parti  revolution  et 
civilisation.  Ce  parti  fera  le  vingtième 
siècle.  Il  en  sortirà  d'abord  les  Etats- 
Lìnìs  d'Europe,  puis  les  Etats-l'nis 
du    Monde  ». 


Nemi. 


PUBBLICAZIONI  DELLA  CASA  R.  SANDRON  DI  PALERMO. 


Studi  socialisti,  di  Giovanni  Jauuès.  Tr.aduzioue  di  Gauzia  Ca.'ìsola.  pa 
gine  362.  L.  3. 

Storia  della  prostituzione  in  Sicilia,  di  A.  Ci'treua,  pcagg.  286.  L.  2.50. 

Il  movimento  agricolo  siciliano,  di  Filippo  Lo  Vetehe,  pagg.  192.  L.  1 

La  Canzone  di  Garibaldi  del.  D'Annunzio  documentata,  per  A.  Mario,  pa 
gine  164.  L.  1.20. 

Storia  della  economia  pubblica  in  Italia,  di  G.  Pecchio.  pagg.  1-tO.    L.  1.20 

//  dubbio.  Romanzo  di  Fulvia,  pagg.  198.  L.  1.50. 

Importanza  sociale  della  medicina  militare,    di  L.  Scorano,  pagg.  59.    L.  1 

La  Statistica  nella  odierna  evoluzione  sociale,  di  Filippo  Virgilii.  —  Pa 
lermo,  1903,  Remo  Sandron,  pagg.  240.  L.  1.50. 

Il  «  Prometeo  incatenato  >  di  Eschilo,  per  Mario  Fuochi.  —  Palermo.  1!I03 
Remo  Siindron,  pagg.  146.  L.  2.50. 


NOTIZIE,  LIBRI  E  RECENTI  PUBBLICAZIONI 


ITALIA. 


A  Parmii.  nel  teatro  Reinach.  è  stato  commemorato  solennemente  il  cente- 
lario  della  prima  lezione  di  diritto  pubblico  letta  in  quell'Ateneo  da  Giando- 
nenico  Roraaiinosi    11  discorso  d'occasione  fu  pronunziato  dall'on.  De  Marinis. 

—  Il  prof.  Elia  ililloseTich.  direttore  dell'Osservatorio  astronomico  del  Col- 
egio  Romano,  ha  detto  a  Reggio-Emilia  un  discorso  commemorativo  del  padre 
à.ngelo  Secchi,  invitato  a  ciò  dal  Comitato  costituitosi  da  diversi  anni  in  quella 
?ittà  per  erigere  un  ricordo  all'  illustre  concittadino. 

—  Il  1"  luglio  è  stato  inaugurato  a  Roma,  sulla  passeggiata  del  Gianicolo,  un 
lusto  del  generale  Filippo  Cerreti,  che  nel  18 19.  insieme  con  Carlo  Pisacane  ed 
litri  tre  membri,  fu  nominato  dall'Assemblea  costituente  per  provvedere  alla 
iifesa  di  Roma. 

—  Nella  seconda  quindicina  di  giugno  sono  stati  inaugurati  due  busti  di 
P^erdi,  uno  ad  Assisi,  nell'atrio  del  teatro  Metastasio.  ed  uno  a  Pistoia  nei  locali 
3el  Tiro  a  segno  nazionale. 

—  All'  Università  di  Modena  è  stato  festeggiato  il  compimento  del  qnaran- 
;acinquesimo  anno  di  insegnamento  del  prof.  Giovanni  Generali. 

—  Giovanni  Mestica,  letterato  insigne  e  deputato  al  Parlamento,  ha  cessato 
li  vivere  in  Roma  n  M'ultima  decade  di  giugno. 

—  È  morto  a  Xapoli  1'  llustre  e  popolarissimo  professore  Francesco  Pepere. 
lecano  della  Facolt.\  di  giurisprudenza  di  quella  Università,  in  cui  insegnava 
la  oltre  cinquant'  anni 

—  L'Accademia  della  Crusca  ha  nominato  soci  corrispondenti  Edmondo 
De  Amicis.  il  padre  Mauri,  Ernesto  Monaci,  il  professore  Puccianti,  Roberto 
Dadidsohn  e  Paul  Meyer. 

—  bell'ultima  sua  assemblea  generale,  l'Accademia  di  S.  Luca  ha  eletto 
iccademici  di  merito  corrispondenti  gli  architetti  italiani  Sti-amucci,  Manfredi, 
Pommasi.  Bernich  e  il  belga  Gewaerts,  e  ha  dato  il  possesso  alla  nuova  acca- 
iemica  d'onore  signora  Caterina  Pigorini-Beri 

—  Nel  concistoro  del  '22.  giugno  scorso  sono  stati  creati  sette  nuovi  cardi- 
nali, cioè  Antonio  Fischer,  arcivescovo  di  Colonia:  G  B.  Katschthaler.  arcive- 
scovo di  Sali.sburgo.  membro  della  Camera  dei  signori  austriaca  e  consigliere 
intimo  di  Francesco  Giuseppe:  Herrero  y  Espinosa,  arcivescovo  di  Valenza; 
Emidio  Taliani,  nunzio  apostolico  a  Vienna:  Andrea  Aiuti,  diplomatico:  Carlo 
Nocella,  segretario  della  Congregazione  concistoriale,  e  Beniamino  Cavicchioni, 
segretario  del  Concilio. 

X 
Fra  le  ultime   scoperte  di   Giacomo  Boni  al  Foro  Romano  vi  è  quella   del 
completo  basamento  quadrato   del  Janiis  Mcciins,   che   segnava  lo  sbocco   nella 
Sacra  Via  del  Vicus  Tuseus.  e  che  serviva  di  riunione  ai  banchieri  romani. 

—  Lo  scultore  Arnaldo  Zecchi  ha  completato  il  bellissimo  e  grandioso 
monvimento  ad  .Alessandro  II,  destinato  ad  essere  mandato  in  Russia 

—  Il  conte  di  Caserta  ha  donato  al  Ministero  dell'  istruzione,  coll'obbligo 
3he  sia  conservata  nel  Museo  di  S.  Martino,  una  grande  tela  col  ritratto  ad  olio 
ii  Carlo  III  ed  il  phaeton  che  appartenne  a  Ferdinando  II. 

—  Si  è  costituito  a  L  vorno  un  Comitato  della  Società  <  Dante  Alighieri  » 
sotto  la  presidenza  dell'avv.  Adolfo  Mangini,  e  la  vice-presidenza  del  nostro 
collaboratore  Guido  Menasci. 

—  A  Viareggio  si  è  tenuto,  alla  fine  di  giugno,  un  Congresso  idrologico. 

—  Nella  primavera  del  1904  si  terrà  in  Roma,  per  iniziativa  dell'Associa- 
zione nazionale  degli  ufficiali  in  congedo,  un  Congresso  storico  militare  inter- 
nazionale. 


1()S  NOTIZIE,    LIlìKI    E    RECENTI    FUUBI.ICAZIO.VI 

—  Lii  Rivista  delle  battaglie  d'arte,  nuovo  poriodioo  mensile  letterario,  I;.. 
cominciato  a  pubblicarsi  in  Roma  sotto  la  direzione  del  noto  critico  d'urta 
Mazzini-Beduschi. 

—  Il  pittore  americano  Frank  William  Stokes,  che  accompagnò  Pearv  in 
due  spedizioni  al  nord  della  Groenlandia,  ha  tenuto  una  conferenza  al  Collei;in 
Romano  su  (juei  viaggi  nelle  regioni  polari. 

—  Il  14  giugno,  nel  salone  della  Società  per  le  Bolle  Arti.  Ugo  Valcarenuhi 
parlò  sul  tema  /  due  Regni,  trattando  questioni  d'arte. 

—  Gli  editori  Le  Monnier  hanno  messo  in  voniUta  La  vita  di  (iinsrpni- 
Mazzini,  di  Federico  Donaver.  Questo  lavoro,  in  forma  piana  e  popolare,  nciii 
contiene  molti  scritti  inediti  o  rari  del  grande  genovese,  ma  l'autore  ha  cercato 
di  spogliarsi  da  qualunque  passione  politica,  e  questo  è  un  pregio  di  cui  va 
tenuto  calcolo. 

—  Il  nostro  collaboratore  Giacomo  Barzellotti  pubblicherà  presso  l'editore 
Remo  Sandron  un  volume  di  saggi,  che  intitolerà  Dal  Rinascimento  al  Risorgimento. 

—  Una  scuola  tipogràfica,  fondata  a  Torino  lo  scorso  anno,  ha  or  ora  cele- 
brato il  suo  primo  anniversario  distribuendo  i  premi  agli  allievi.  La  scuola 
ebbe  in  questo. primo  anno  63  allievi.  I  corsi,  sorali,  sono  sei:  Lingua  italiana 
(prof.  Gironi);  lingua  francese  (M.  Capra);  disegno  (Ed.  Cotti);  corso  composi- 
tori (Arrighi  e  Saletti);  corso  impressori  (Ajani,  Cravori,  Giorgis);  corso  fonditori 
(Piaggio).  Conferenze  tecniche  furono  tenute  nel  corso  dell'anno  dal  sig.  Rinaldo 
Cambiasi. 

Antonio  Cesari  giudicato  e  onorato  dagi'  italiani,  e  sue  relazioni  coi  con- 
temporanei, con  documenti  inediti,  per  GIUSEPPE  CrUIDETTI  Reggio  d'Emi- 
lia, collezione  letteraria,  presso  l'autore,  1903.  —  L'  opera  è  partita  nelle  se- 
guenti rubriche:  Relazione  e  carteggio  fra  Antonio  Cesari  ed  Alessandro  Man- 
zoni, pag.  3-01  -  Antonio  Cesari  giudicato  e  onorato  dai  contemporanei  e  dai 
posteri  ne'  loro  scritti  inediti,  o  rari,  pag  95-38Ì  -  Di  alcune  opinioni  del  Giordani 
intorno  al  Cesari,  pag.  385-398  -  Il  Cesari,  il  Guasti,  e  un  critico,  pag.  395- 10  > - 
Su  le  critiche  di  tre  pretesi  Manzoniani,  pag.  407-438  —  Il  Cesari  e  Antonio 
Rosmini,  pag.  439-140  -  De  le  lettere  del  Cesari  e  di  Giuseppe  jNIanuzzi  suo 
discepolo,  pag.  441-46'J  -  Relazioni  fra  Antonio  Cesari  e  Giacomo  Leopardi, 
pag.  467-491  -Antonio  Cesari  giudicato  e  onorato  dagl'italiani,  pag.  492-494  - 
Il  Cesari  e  i  Governi  politici  del  suo  tempo,  pag.  494- 196  -  Albero  genealogico 
della  famiglia  Cesari  di  Verona,  pag.  4  17-501 -Di  una  lacuna  nelle  relazioni  del 
Cesari  col  Giordani,  pag.  5)1-508  -  Del  catalogo  delle  edizioni  originali  delle 
opere  di  Antonio  t^esari,  secondo  l'ordine  de'  tempi,  in  cui  furono  pubblicate, 
pag  508-")l0  -  Dopo  la  lettura  delle  relazioni  e  carteggio  tra  il  Cesari  e  il  Manzoni, 
pag.  511-516  -  Conclusione  sul  Cesari  e  Manzoni,  pag.  517-.531.  Una  lunga  sequela 
di  giudizi  de' più  illustri  contemporanei  del  Cesari  quale  restauratore  degli  studi 
della  nostra  lingua,  non  che  di  insigni  scrittori  tuttor  viventi,  occupano  gran 
parte  del  volume.  Tra  i  primi  sono  principali  il  Botta,  il  Bresciani,  il  Costa,  il  Fan- 
fani,  il  Fornari,  il  Gherardiui,  il  Gioberti,  il  Giordani,  il  Guasti,  il  Leopardi,  il  ,VIa 
miani,  il  Monti,  il  Perticari,  il  Rosmini,  lo  Strocchi,  il  Tiraboschi,  il  Tommaseo  ; 
tra  i  second  l'Ascoli,  il  Capocelatro,  il  Carducci,  il  Conti,  il  Del  Lungo,  il  D'Ovidio, 
d  Grosso.  E  un  lavoro  giudizioso,  minuto,  omogeneo;  da  riuscire  assai  acconcio 
a  raddirizzare  torte  opinioni,  e  a  colmare  un  vuoto  della  nostra  storia  lette- 
raria. La  storia,  vorrei  dire,  di  un  secondo  rinascimento.  Avvengachè,  nella 
prima  metà  del  secolo  teste  trascorso,  un  nobile  drappello  di  scrittori  d'  ogni 
genere  riamicando  l'arte  con  la  scie  iza.  restituì  all'eloquenza  l'originario  glo- 
rioso ufficio  d'ammaestrare  dilettando.  Di  che  è  da  dare  ad  Antonio  Cesari  la 
debita  lodo,  per  avere  rimenato  lo  studio  della  lingua,  vale  a  dire  dell'espo- 
nente del  pensiero  e  del  sentimento,  alla  sua  nativa  purezza  e  vigoria,  appa- 
recchiando così,  coU'unità  della  parola,  la  concordia  degli  animi  a  rivendicare 
alla  patria  la  sua  piena  balia  {Oinseppe  Cagnoni^. 

Doveri  sociali  dell'età  presente,  di  G.  VIDARI.  Milano,  Hoepli,  L.  2.  — 
L'autore  si  è  proposto,  raccogliendo  in  volume  alcune  riflessioni  .-uUa  vita  mo- 
rale contempoianea,  di  rivolgersi  spe  ialmente  alle  persone  di  media  coltura, 
die  lanno  o  avranno  parte  attiva  nella  società  presente,  di  parlare  al  loio  in- 
telletto per  indurlo  a  considerare,  se  già  non  l'abbiano  fatto,  i  bisogni  e  i  doveri 
dell'età  nostra,  e  di  muovere  il  loro  .sentimento,  se  già  altrimenti  non  sia  mosso 
sulle  vie  luraino.se  del  bone  e  della  civiltà.  Lo  intento  educativo  è  dunque  ma- 
nifesto e  soltanto  con  una  tal  veste  il  libro  si  presenta  al  pubblico,  non  tanto 
degli  scienziati  e  filosoli  di  professione,  quanto  di  coloro  che  hanno  a  cuore  le 
sorti  morali  della  società,  al  pubblico  degli  educatori  e  degli  educandi. 


NOTIZIE,   LIBRI   E   RECENTI   PUBBLICAZIONI  169 

Il  malato  dAsia.  per  PIER  LUDOVICO  0CCHI>T:.  Firenze,  LvMACHi,lW3.— 
1  malato  d'Asia  è  il  popolo  cinese:  e  ■|uesto  discorso  preceduto  da  una  animosa 
jrefazione  e  oonchiuso  da  un'appendice  sulle  atrocitìl  dell'ultima  guerra,  fa  parte 
li  uno  studio  più  vasto  sulla  quistioue  cinese.  L'  autore  era  finora  noto  per 
ina  delicata  raccolta  di  versi  :  Biscnits  de  Sèvres  :  ma  col  presente  volume 
!;etta  inaspettatamente  un  grido  coraggioso  nell'indifferentismo  dei  letterati  ita- 
iani,  troppo  alieni  dal  partecipare  a  quanto  giova  all'incremento  materiale  ed 
?conomico  del  paese.  L'Occhini  è  convinto  che  le  ricchezze  naturali  del  Celeste 
[mpero  debbano  venire  utilizzate  dallEuropa  so  lecitamente.  L  idea  è  ottima,  la 
"orma  eloquente. 

Biblioteca  italiana  di  Legislazione  pubblica,  diretta  da  FRAIS'CESCO 
DELLA  VALLE.  Roma,  F.lli  Bocca.  Per  un  anno  (non  meno  di  10  fascicoli) 
b.  10.  —  Pregevole  e  veramente  utile  ci  sembra  questa  pubblicazione  intrapresa, 
iella  quale  verranno  stiubate  ed  illustrate  gradatamente  tutte  le  leggi  ed  i  rego- 
amenti  appartenenti  alla  legislazione  pubblica,  nonché  l'esposizione  procedurale 
>  pratica  ad  esse  relativa.  Oltre  alle  leggi  italiane  saranno  illustrate  anche  alcune 
straniere  che  abbiano  grande  importanza  giuridica  o  un  valore  particolare  in 
•apporto  alla  legislazione  italiana.  In  questa  ■>  Biblioteca  »  vedranno  la  luce 
mche  monografie  originali  ed,  eccezionalmente,  traduzioni  di  celebri  monografìe 
straniere  intorno  ad  argomenti  di  legislazione  pubblica. 

Alla  «  Biblioteca  >  va  annessa  una  pubblicazione  autonoma,  il  Monitore  am- 
ninislratiio.  d'indole  eminentemente  pratica. 

Solingo  Nauta,  versi  di  LUCIANO  CROCI.  Roma,  Casa  editrice  nazionale 
Roux  li  Vi\reNjO,  19  >.S.  pag  20!).  —  Sono  più  di  cento  componimenti  poetici  di 
^ario  argomento,  di  vario  metro  e  di  varia  intonazione:  dall'epicedio  all'ode 
)acchica.  dal  ricordo  alla  descrizione,  dall'idillio  al  dramma.  L'autore  non  tiene 
i  seguire  una  scuola  poetica  più  che  un'altra  :  dannunziano  o  pascoliano  che 
lia.  ha  curato  di  riuscire  buon  poeta  e  di  dimostrare  la  sua  padronanza  cosi 
b'11,1  nobile  idea  come  della  forma  elegante.  A  particolar  lode  di  lui  diciamo  che, 
selilieni-  questi  Vci'si  appaiano  come  primizia  dell'  ingegno  poetico  di  e  i  li  ha 
jensati  e  composti,  pur  tuttavia  sono  stati  maturati  da  molti  anni,  perchè  quasi 
utti  furono  scritti  qualche  diecina  d'anni  fa. 

FRANCIA. 

Il  Libro  Giallo  sulle  relazioni  tra  la  Francia  e  il  Vaticano  costituisce  un 
locumento  importantissimo.  Esso  non  si  trova  dai  librai  :  il  Mi'iiiorial  diploma- 
iqae  ne  ha  pubblicato  il  testo  .completo  nel  suo  numero  del  2S  giugno.  (Prezzo 
ire  1  ;  indirizzo.  18  Rue  Grange-Batelière,  Paris). 

—  La  Société  des  Poètes  Frauf/ais  è  un'  istituzione  assai  fiorente.  Essa  tiene 
jeriodicamente  le  sue  riunioni  e  presenta  i  resoconti  al  ministro  dell'istruzione. 
>ully-Prudliorame.  che  ha  dato  il  maggiore  incremento  alla  Società,  ne  è  presi- 
lente onorario;  vice-presidenti  sono  Leon  Dierx  e  J.  M.  de  Hérédia:  il.  Al- 
;anter  de  Bralim  è  il  segretario  generale,  e  M.  C.  Poinsot  segretario  archivista. 
Da  poco  la  Società  ha  adottato  un  regolamento  relativo  all'edizione  dei  giovani 
loeti  inediti,  fra  i  quali  sarà  aperto  un  concorso  dal  1°  luglio  al  31  dicembre 
lei  corrente  anno 

—  AU'Académie  Francjaise  furono  fatte  il  18  giugno  le  elezioni  per  sostituire 
jraston  Paris  e  Legouvé.  Al  seggio  di  Paris  si  presentarono  candidati  Frédéric 
Vlasson,  autore  di  tante  opere  su  iVapoleono.  e  Jules  Delafosse.  polemista  politico 
ìi  grande  valore:  fu  eletto  Masson.  Al  secondo  seggio  riusci  eletto  Reni-  Bazin, 
ihe  aveva  per  competitore  Larroumet.  segretario  dell'Accademia  di  Belle  Arti 
?  collaboratore  drammatico  del   Tcmps 

—  Nel  lato  posteriore  dell'Accademia  di  musica  è  stato  eretto  un  monu- 
mento in  onore  di  Carlo  Garnier.  l'architetto  che  eostruì  il  teatro    àeW Opera. 

—  Fra  i  libri  più  notevoli  comparsi  alla  libreria  francese  nella  seconda 
juindicina  di  giugno,  ricorderemo  Au  Soleiì  de  Juillet  (1829-1830),  di  Paul  Adam, 
pubblicato  da  Oliendorff. 

—  Un  nuovo  libro  di  Jules  Verne,  Bonrses  de  Voi/age.  è  uscito  il  29  giugno 
presso  l'editore  Hetzel  (fr.  3). 

—  È  uscito  il  volume  del  1903  ànW'Aiinnaire  de  t'Aristocratie  itrangh'e  en 
France,  che  si  pubblica  già  da  cinque  anni.  Esso  contiene  più  di  8tXX)  indirizzi 
li  stranieri  residenti  in  Francia  e  appartenenti  all'aristocrazia  della  nascita  e  del- 
l'ingegno, e  dei  membri  dell'aristocrazia  francese  che  hanno  in  moglie  una  stra- 
liera.  (Editori  Chamerot  cv  R  •nouard.  fr.  12). 


ITU  NOTIZIE,    LIBRI    E   RECENTI    PUBBLICAZIONI 

-  Un  importante  lavoro  sulla  noToUistica  italiana  nei  secoli  XIV,  XV  e  xvi  è 
stato  compiuto  da  A.  Van  Bever  e  E.  Sansot-Orland,  col  titolo  (Envres  galantes  '. 
dès  Coiitiìirs  ilalì'ens.  (Mercure  de  Franee,  fr.  3.50).  ' 

—  «  La  Soif  Kouge  »  è  il  titolo  complesHivo  di  una  serie  di  volumi  che 
M.  Charles  Foley  sta  scrivendo,  e  l'editore  Juven  pubblicando.  Il  primo  si  occu- 
pava di  Marion  Fruncliet :  il  secondo,  uscito  in  questi  giorni,  è  intitolato  Madame 
de  Lamballe. 

—  Liii  Casa  editrice  di  Tours  Alfred  Marne  &:  Fila  ha  incominciato  a  pub- 
blicare una  collezione  illustrata,  a  un  franco  il  volume,  intitolata:  «  Les  Maitres  , 
Actuels  du  rire  ».  I  due  primi  volumi  già  apparsi  sono:  La  Caserne  allemande] 
di  Jean  Drault  e   Un  prix  de  cinq  millions  di  Henriot. 

—  Madame  Flirt  è  il  titolo  di  una  commedia  di  Paul  Gavault  e  Georges  ' 
Berr,  che  esce  col  1'  di  luglio  presso  Calmann-Lévy  (fr.  3.50). 

—  Tutto  ciò  che  ora  ancora  rimasto  di  inedito  di  Paul  Verlaine,  ha  trovato 
posto  nel  volume  di  Qiiivns  Postliumes.  pubblicato  da  Leon  Vanler  (fr.  (i) 

—  Lo  stesso  editore  ha  messo  in  vendita  un  nuovo  volume  di  novelle  di 
Paul  Cìinisty.  intitolato:  Les  LIenrcs  difficiles. 

—  L'editore  Charpontier  annunzia  come  imminente  la  pubblicazione  di  un 
volume  di  critica  di  Catullo  Mendès,  Le  mouvement  polilique  de  1767  ù  t!>00. 
che  si  divide  in  due  parti:  la  prima  è  il  rapporto  al  ministro  dell'istruzione, 
preceduto  da  ^//p.s,«'o«/' sulla  personalità  dello  spirito  poetico  della  Francia;  la  se- 
conda consta  di  un  dizionario  bibliografico  e  critico  e  di  una  Nomenclatura  cro- 
nologica della  maggior  parte  dei  poeti  francesi  del  secolo  xix  (10  fr.). 

—  Flammarion  ha  messo  in  vendita  un  nuovo  romanzo  di  Gyp,  Un  mt'nane 
dernier  cri  (fr.  3.50) 

—  Il  31  luglio  verrà  alla  luce  presso  la  libreria  accademica  Perrin  &  C." 
un  nuovo  libro  del  monaco  benedettino  Doni  du  Boiirg:  esso  si  intitola  Dli 
Champ  de  bataille  à  la   Truppe  -  Le  Frh-e  Gabriel  (1835-Ì897,  fr.  3.50). 

—  M.  G.  Michaut.  critico  insigne,  decano  della  Facoltà  di  lettere  dell'Uni- 
versità di  Friburgo,  in  Svizzera  lui  scritto  un  volume,  Sainte-Beuve  arant  les 
'■  Lnndis  »  -  Essai  sur  tu  faniidiioii  de  son  esprit  et  de  sa  métliode  critique.  Il  libro 
è  stato  messo  in  vendita  il  30  giugno  da  Fontemoing.  al  prezzo  di  Hi    franchi. 

Mirabeau.  Lettres  à  Julie,  par  M.  DAUPHIX  M KU XI  EH  et  M.  GEORGES 
LELÓIR.  Paris.  PLi«-XtiuiiRiT.  Fr.  7.50.  —  Jl.  Dauiiliiii  ^l<\inier.  avendo  otte- 
nuto l'autorizzazione  di  pubblicare  l'immensa  corrispoiuliiiza  inedita  di  Iilira- 
beau,  ne  ha  distaccato  un  centinaio  di  lettere,  dirette  a  Mademoiselle  Julie 
Dauvers,  nelle  quali  Mirabeau  dichiara  positivamente  di  essere  l'amante  della 
principessa  di  Lamballe.  Questo  fatto  che  già  altri  avevano  asserito  non  era  stato 
ancora  dimostrato  come  ora  da  M.  Meunier,  che  ne  fornisce  gli  elementi  auten- 
tici e  lo  discute  punto  per  punto,  con  argomenti  che  non  lasciano  luogo  a 
dubbi.  Un  giurista  bon  noto,  membro  dell'alta  magistratura  parigina,  M.  Georges 
Leloir,  gli  ha  prestato  la  sua  collaborazione,  in  modo  da  fare  di  questa  rivela- 
zione  delle  Lettres  à  Julie  un  modello  di  critica  storica. 

Le  Pressoir.  Roman  par  BERNARD  TAFT.  Paris,  Dvjarric,  1908  pa- 
ges350  Fr.  3  50.— Il  torchio  delle  superstizioni  e  dei  pregiudizi  che  schiaccia  e  de- 
turpa inesorabilmente  tante  anime  gentili,  non  risparmiò  neppure  Georgette, 
sebbene  la  buona  Jeanne  M  irnère  avesse  logorato  gli  anni  migliori  della  sua 
vita  per  strapparla  a  quel  giogo  terribile.  Tutto  era  vano,  poiché  per  la  inesperta 
fanciulla,  educata  da  una  vecchia  signora  tutta  imbevuta  dei  falsi  pngiudizi,  la 
second  I  moglie  di  suo  padre  era  sempre  la  matrigna  crudele  che  liisugna  odiare 
e  disprezzare  implacabilmente.  E  Jeanne  lottò  a  lungo  e  soUri  assai,  ma  ottenne 
alla  fine  vittoria,  poiché  mentre  Georgette  mori  vittima  delle  sue  stolte  preven- 
zioni. Pierrot.  l'altro  figliastro,  posto  nell'alternativa  di  scegliere  tra  colei  che 
gli  aveva  dato  la  vita,  una  donna  frivola  e  mal>agia,  e  Jeanne,  la  matrigna 
buona  e  affezionata,  preferì  quest'ultima  e  la  tenne  sempre  come  sola  e  vera 
madre,  contro  ogni  sciocco  pregiudizio  del  volgo. 

L'Immoraliste,  par  ANDRÉ  GIDE.  Société  du  >  ERCiUE  de  France,  Pa- 
ris, —  E  la  seconda  edizione  d'un  romanzo  ch'ebbe  notevole  successo  or  son  pochi 
anni,  quand'eran  di  moda  gli  studi  di  psicologia  sperimentale  e  oggettiva:  non 
tanto  oggettiva  questa  narrazione  d'una  vita  anormale  (e  amorale,  piuttosto  che 
immorale)  si  che  non  si  intraveda  una  convinzione  dell'autore  e  non  se  ne  tragga 
un  insegnamento  veramente  morale.  Il  Gide  l.a  senza  dubbio  forti  doti  di  nar- 
ratore, rapidità,  giustezza  incisiva,  senso  della  misura:  è  un  artista  che  pensa: 
egli  può  darei  delle  cose  veramente  salde  e  sostanzioso. 


NOTIZIE,    LIBRI    E   RECENTI   PUBBLICAZIONI  1/1 

Études  d'histoire  Première  serie,  par  ARTHUR  CHUQUET.  Paris,  A.  Fox- 
EMO  Nc,  r.)03  (collection  <-  Minerva  »).  —  Ifon  v'è  uomo  colto  che  si  occupi 
ella  storia  dei  secoli  decimottavo  e  decimonono  che  non  conosca  i  bei  lavori  di 
L.  Chuquet  sulle  guerre  della  rivoluzione,  sulla  giovinezza  di  Napoleone,  sulla 
uerra  del  1870  e  non  sappia  che  l'egregio  membro  dell'Instituto  è  anche  pro- 
ondo cultore  della  storia  letteraria,  come  dimostrano  i  suoi  studi  sulla  lettera- 
iira  tedesca  e  su  Stendhal.  In  questo  volume,  primo  di  una  serie,  spiccano  le 
oti  che  ognuno  riconosce  nel  Chuquet,  sicurezza  d'informazione,  precisione  di 
ocumentazione,  nitida  eleganza  di  stile  e  ci  sfilano  innanzi  un  episodio  della 
ita  di  Baiardo  a  Meziires,  una  delicata  biografia  della  sorella  di  Goethe,  il 
acconto  spigliato  di  un  errore  giudiziario  in  Corsica  nel  secolo  decimottavo, 
ino  studio  molto  notevole  su  un  rivoluzionario  tedesco,  Giorgio  Forster,  de- 
lutato  di  Magonza  alla  Convenzione  Nazionale.  Come  l'indica  il  titolo  della  col- 
ezione,  a  cui  il  volume  appartiene,  una  parto  almeno  degli  studi  che  lo  com 
longono  vide  già-  la  luce  nel'a  rivista  ìliiierva,  che  vanta  appunto  tra  i  suoi 
liù  accreditati  collaboratori  l'ili. stre  direttore  della  Revue  critiqne. 

Profils  de  Théàtre,  par  JULES  CLARETIB.  Paris.  G.\ultier,  M.\gnier 
i  C.  Fr.  4.  —  Questo  volume  è  uno  dei  più  graziosi  che  l'eminente  amministra- 
ore  della  Comédie  Fran^aise  abbia  scritto.  Ritratti  di  attori,  profili  di  artisti 
llustri  vi  sfilano  disegnati  da  una  penna  abile  e  perfetta  conoscitrice  dell'argo- 
nento.  Pieni  di  malizia  e  di  vivacità,  questi  profili  ci  narrano  l'esistenza,  le 
grandezze  e  le  serviti!  degli  attori  di  grido.  La  Comédie  fornisce  a  M.  Clareiie 
a  maggior  parte  dei  modelli.  Virginio  Déjazet,  Mélingue,  Frederick  Lemaìtre. 
?ebvre  Reichenberg,  Barretta,  Marie  Laurent,  Mounet-Sully  vi  si  riscontrano 
rivi  e  nella  loro  vibrante  originalità.  Sono  anche  degni  di  speciale  nota  i 
■apitoli  che  si  intitolano:  L'Etioìhnie  d<'s  Comédicus,  Acfeurs  Sìiakrspearinis  e 
Rrpi-éseiiìatioiis  de  Retraite. 

.lean-Jacques  Rousseau  et  le  Rousseauisme,  par  JEAN-FELIX  NOLTR- 
R.ISSON.  PoNTE.MOiNG.  Fr.  7.50.  —  L'influenza  delle  dottrine  di  Gian  Giacomo 
Rousseau  è  rimasta  considerevole  ai  nostri  giorni,  ma  le  sue  opere  non  sono  suffi- 
Menteraente  conosciute,  neppure  da  coloro  che  si  fanno  i  panegiristi  delle  sue 
dee.  M.  Nourrisson  si  occupa  della  biografia  del  Rousseau,  secondo  gli  studi 
M'itici  pubblicati  ai  nostri  giorni,  e  studia  le  opere  di  lui  seguendo,  per  cosi 
lire,  la  loro  elaborazione  attraverso  le  fasi  diverse  di  quella  vita  così  avven- 
turosa, e  tristamente  curiosa  da  osservare  e  descrivere.  Ciò  che  dà  a  questo 
libro  un  carattere  di  attualità,  è  la  propaganda  che  è  stata  fatta  ai  nostri  giorni 
in  favore  di  certe  dottrine  che  altro  non  .sono  se  non  le  dottrine  di  Rousseau 
iidattate  alle  teorie  politiche  o  deformate  dai  politicanti  per  i  bisogni  delle  cause 
che  vogliono  far  trionfare. 

Situation  internationale  de  l'Egypte  et  du  Soudan,  par.lULBS  C(  )CHERIS, 
LÌocteur  en  droit  Pari.s,  Plon,  1!J')3.  —  La  lotta  d'influenza  tra  Francia  ed  Inghil- 
terra, sulle  rive  del  Nilo,  che  per  poco  non  prese  talvolta  carattere  anche  più  vio- 
lento, è  il  soggetto  del  grosso  libro,  edito  recentemente  dalla  solerte  casa  edi- 
trice parigina.  L'egregio  autore,  cui  un  soggiorno  abbastanza  lungo  in  Egitto 
permise  di  raccogliere  sul  posto  elementi  di  molto  valore,  segue  passo  passo  le 
vicende  di  cui  fu  teatro  l'Egitto  dal  18ù2  in  poi,  tratteggiando  degli  uomini 
principali,  che  vi  eb  ero  parte,  o  clie  anteriormente  incarnarono  la  politica  egi- 
ziana, ritratti  finemente  delineati.  Così  sono  notevoli  le  pagine  dove  appaiono 
Ir  ligure  di  Mehemet-Alì,  di  Ismail,  di  Tewfik,  di  Gordon,  di  Emin  Pascià,  di 
Gliidstone,  di  Salisbury.  di  Kitchener,  ecc.  L'importante  lavoro  abbonda  di  do- 
cuiuciiti  inediti  che  gli  danno  un  alto  valore,  specialmente  per  quanto  concerne 
hi  Npidizione  Marchand  e  l'incidente  di  Pascioda.  Tre  tavole  analitiche  molto 
liiii  redatte  ed  una  carta  speciale  permetteranno  ai  cultori  del  diritto  interna- 
ziciiiiilt'.  ai  diplomatici,  agli  uomini  politici  di  valersi  con  frutto  di  questa  pu'  - 
lilicazione. 

La  Religion  dans  la  Société  au.v  Etats-Unis.  par  HENRY  BRAGY.  Arm.«iv 
Colin.  Fr.  3.50.  —  Il  cristianesimo,  quale  si  è  sviluppato  nell'America  del  Nord, 
non  insegna  più  a  morire,  ma  a  vivere;  è  il  culto  dell'umanità  piuttosto  diodi 
Dio,  e  conduce  ad  una  vera  chiesa  laica,  più  curante  della  società  che  dell'indi- 
viduo, e  che  considera  come  suo  compito  essenziale  di  collaborare  per  la  sua 
parte  all'educazione  della  democrazia.  Ad  ogni  modo,  questo  positivismo  resta 
dentro  la  cornice  del  cristianesimo,  ed  in  ciò  consiste  la  sua  potente  originalità. 
Da  queste  poche  parole  e  dal  sommario  del  volume  ci  si  può  rendere  facilmente 
conto    dell'interesse  che    presentano  le  questioni   studiate  in   quest'opera,  assai 


I7'£  NOTIZIE,    LIBRI    E    RECENTI    PUBBLICAZIONI 

suggestiva  o  t'orteinente  pensata.  Ecco  i  titoli  dei  capitoli:  L'istinto  sociale  e 
l'istinto  positivo  nel  cristianesimo  coloniale  -  Lo  spirito  positivo  e  lo  spirito 
sociale  nelle  filosofìe  cristiane  -  Lo  spirito  positivo  e  lo  spinto  sociale  nel  cri- 
stianesimo contemporaneo  -  La  pace  religliosa  ottenuta  col  positivismo  cristiano. 

Le  Commerce  et  les  Marchands  dans  l'Italie  meridionale  au  XIII^  et  au 
XlVe  siede,  par  M.  GBORdES  YVER.  Fontemoixg.  Pr.  1-2.  —  Assai  mal 
nota  è  stata  finora  la  storia  economica  dell'Italia  meridionale  nei  secoli  Xlll  e 
XIV  Ci  si  immaginava  volentieri,  sulla  lede  di  storici  ammiratori  appassio- 
nati ed  esclusivi  di  Federico  IL  che  l'avvenimento  della  dinastia  angioina  avesse 
segnato  per  le  provincie  meridionali  il  principio  di  una  irrimediabile  decadenza. 
M.  Yver,  appoggiandosi  a  documenti  trovati  negli  .archivi  di  Napoli,  impugna 
questa  opinione  generalmente  accettata,  e-  dimostra  come  Carlo  d'Angiò  e  i  suoi 
successori  Carlo  II  e  Roberto  abbiano  curato  colla  maggiore  diligenza  di  assi- 
curare lo  sviluppo  economico  del  loro  regno.  Li  vediamo  trar  partito  dalle  rie- 
chezze  naturali  del  paese,  introdurre  nuove  industrie,  incoraggiare  il  commercio 
marittimo,  stimolare  lo  zelo  dei  loro  sudditi,  e  fare  appello  al  concor.so  di  citta- 
dini delle  città  più  famose  pel  commercio,  specialmente  di  Firenze.  Col  presente 
lavoro  resta  dunque  dimostrato  come  nel  primo  secolo  della  dominazione  an- 
gioina l'Italia  meridionale  occupasse  nn  posto  notevole  fra  le  nazioni  commer- 
cianti del  mondo  mediterraneo. 

Recenti  pubblicazioni  : 

Le  plus  f'urt.  Roman  par  Claude  Feiiv.\l.  —  Calmann-Lf^vy.  Fr.  3.50. 

L' Èxpnhée.  Roman  par  Jane  de  l.a  V.audère.  —  Flaramarion.    Fr.    3.(50. 

L'Amour  eii  fiiitr.  ]iar  Henry  Bordeaux.  —  Fontemoing.   Fr.  3.50. 

ConfessioH  d'un  enjant  d'Iiier,  par  Abel    Hbrmaxt.  —  OUendorff.  Fr.  3.50. 

Le  L'ival  de  Don  Juan.  Roman  par  Louis  Bertrand.  —  OUendorff.  Fr.  3.50. 

.InijteHe.  Pièce  en  cinq  actes  par  Maurice  Maeterlinck.  —  Fasquelle. 
Fr.  3..")0. 

Epilo(/nes  -  Réflr.xiona  anr  la  vie  (189Ó-1S98),  par  Rémy  Gourmoxt.  — 
<  Mercure  de  Prance  ».  Fr.  3.50. 

Sur  le  Tnrf,  par  Maurice  Talm.ayer.  —  Perrin.  Fr.  3  SO. 

Propos  de  Tliéàfre,  par  Emile  Fauubt  de  l'Aeadémie  Fran^aise  —  Société 
Franvaise  d'Imprimerie  et  de  Librairie.  Fr.  3..50. 

An  Pni/s  des  Pi/réJiées.  Relation  anecdotique  de  voyage  à  Arles,  Kimes, 
Cette,  ì^farbonne.  Toulouse,  Luclion,  Lourdes.  Cauterets,  Gavarnie,  Pau,  Biarritz, 
Hendaye.  Arcachon,  Bordeaux,  par  Emile  Dai  llia.  —  Charles  Mendel.  Fr.  10. 

Maìtres  imprimenrs  et  ouvriers  ti/pograplies,  par  Louis  Radiguer.  —  Société 
Xouvelle  de  Librairie  et  d'Edition.    Pr.  10. 

Flrures.  Ciiiia/ix.  Cheniins  de  fer,  par  Paul  Leon.  —  Armand  Colin.    Fr.  4. 

INQHILTERRA  E  STATI   UNITI. 

11  -0  giugno  moriva  a  Londra  il  cardi  lale  Herbert  Vaughan,  arcivescovo 
di  Westminster.  Nato  a  Glocoster  il  15  aprile  1832,  ebbe  la  porpora  nel  1893 
ed  era  il  solo  cardinale  inglese. 

—  Un  nuovo  dramma  in  quattro  atti,  intitolato    Dante,  di  Mr.  Calmonr, 
stato  messo  in  scena  il  15  giugno  al    Qiieens   Tliealre  di  Manchester.  Nel  corso 
dell'azione  Beatrice  muore  avvelenata  nef'e  braccia  del  poeta. 

—  Si  è  costituita  una  SocietJl  che  si  propone  di  compilare  e  pubblicare  una 
Interncitionnl  Encijclopaedia  of  Journiilism.  che  dovrì»  compremlere  la  storia  del 
giornalismo  e  tutte  quelle  nozioni  che  costituiscono  la  pratica  del  giornalismo. 
L'opera  sarà  in  vendita  a  prezzi  popolari,  e  forse  consterà  solamente  di  due 
volumi.  La  direzione  della  compilazione  è  aflìdata  ai  signori:  William  Hill, 
della  Westmins'er  Oazette,  Alfred  Harmsworth,  del  Daily  Mail,  e  Herr  Maurice 
Ernst,  del  Neue^  Wiener  Tai/ebl'itt.  Inviare  lo  comunicazioni  al  segretario  (Gran- 
ville  House,  .\rundel  Street,  Strane).  London.  AV.  C.'. 

—  Gli  editori  Treherne  &  Co.  hanno  incominciato  la  pubblicazione  di  una  nuova 
serie,  <■  The  Connoisseur's  Library  •.  Sotto  la  direzione  di  Mr.  T.  V^^.  H.  Cross- 
land.  Il  primo  volume  si  intitola  Piclure  Colleitinij  ed  è  scritto  da  C.  J  Hol- 
mes. I  prossimi  volumi  saranno  Cranj/erizing  di  J.  M.  BuUock,  e  Musical  Istrn- 
ments  di  Mr.   Robert  Steele. 

—  Vernon  Lee  ha  scritto  un  nuovo  romanzo  intitolato  Penelope  Brandliug. 
che  entrerà  a  far  parte  della  <•  Pseudonim  Library  •  dell'editore  Unwin. 

—  1  primi  quattro  volumi  dello  Letters  of  Horace  Walpole.  pubblicate  dalla 
•Claredon  Press  sotto  la  direzione  di  Mrs.  Paget  Toynbee  saranno  pronti  in  no- 


.VOTIZIE,    LIBRI    E    RECENTI    PUBBLICAZIONI  173- 

vembre.  L'edizione   completa  si  coinporrà    di    sedici    vohmii,  e    conterrà    circa 
quattrocento  lettere  finora  inedite. 

—  Gli  editori  Chapnian  ci  Hall  hanno  preparato  per  la  pubblicazione  i 
primi  tre  volumi  della  «  Autos;rapli  Edition  >  di  Dickens  che  comprenderà 
56  volumi  e  sarà  limitata  a  "250  esemplari  fi-a  l'Inghilterra  e  l'America 

—  Per  il  premio  intitolato  da  Matthew  Aimold.  bandito  dall'L'niversità  df 
Oxford,  il  tema  è  stato  scelto  quest'anno  dal  poeta  laureato  Alfred  Austin.  I 
concorrenti  dovranno  considerare  in  confronto  l'uno  eoU'altro  due  giudizi  che 
M.  Arnold  diede  di  AVordsworth. 

—  Dal  1°  al  '25  luglio  starà  aperta  l'esposizione  delle  antichità  trovate  dal 
prof.  Petrie  durante  i  suoi  scavi  in  Egitto. 

—  Nel  numero  di  luglio  del  Cornili//  Magazine.  Mr.  Sidney  Low  scrive  su 
Mazzini  dedicandogli  una  puntata  della  serie  di   «  Nineteenth  Century  Studies.  > 

—  Pel  settembre  venturo  gli  editori  Methuen  &  Co.  metteranno  in  vendita 
un  nuovo  volume  di  brevi  storie  di  Mr.  H.  B.  Marriot  Watson,  intitolato 
A/arms  and  E.vcivsious. 

—  Miss  Ida  Taylor  ha  completato  una  Life  of  Lord  Editard  FHzgerald,  cha. 
abbondantemente  illustrata,  sarà  pubblicata  da  Hutchinson  &  Co. 

—  Presso  gli  editori  Hodges.  Figgis  &  Co.  di  Dublino  vedrà  tra  breve  la 
luce  un  volume  del  prof.  Stanley  Lane-Poole,  intitolato  Abortii-  West  and  bij  North. 
formato  di  bozzetti  descrittivi  di  gite  in  Irlanda  e  nel  York.shire.  Il  volume 
sarà  illustrato. 

—  Lady  Betty  Balfour  sta  trattando  per  preparare  un  volume  di  corri- 
spondenza di  suo  padre,  il  defunto  Earl  of  Lytton.  Le  lettore  di  indole  troppo 
privata  saranno  escluse:  però  sarà  possibile  da  una  tale  raccolta  farsi  un'idea 
esatta  della  vita  intima  di  «  (ì\ven  Meredith  »  specialmente  nella  prima  parte 
della  sua  vita. 

—  La  sorella  del  poeta  irlandese  Yeats.  Miss  Elizabeth  C.  Yeats.  sta  pre- 
parando a  Dublino  una  edizione  delle  opere  del  defunto  suo  fratello. 

—  I  pittori  Edward  Detmold  e  Maurice  Detmold  hanno  esposto  una  serie 
di  disegni  a  colori  destinati  ad  illustrare  il  Jung/c  Boùì;  di  Kipling.  Nel  pros- 
simo autunno  1'  editore  Macmillan  farà  una  splendida  edizione  di  quel  libro, 
riproducendovi  questi  disegni  in  litografia. 

—  L'attore  Sir  Henry  Irving  si  sta  preparando  a  compiere  un  giro  in 
Inghilterra  ed  in  America,  rappresentando  solamente  il  Dante  di  Sardou. 

—  Il  7  luglio  sai-à  messo  in  vendita  dall'editore  Methuen  il  libro  di  Bodley: 
Coronation  of  Edward  VII.  Dopo  alcuni  giorni  saranno  pronte  cinquanta  copie 
su  carta  del  Giappone. 

—  La  Cambridge  University  Press  comincerà  nel  prossimo  autunno  una 
serie  di  edizioni  di  scrittori  classici  inglesi,  fatte  con  la  massima  fedeltà  secondo 
le  ultime  edizioni  e  le  più  autentiche  delle  edizioni  postume. 

New  Letters  and  Memorials  of  Jane  Welsh  Carlyle,  annotated  by  THO- 
MAS CAELYLE  and  edited  bv  ALEXANDER  CABLYLE,  with  an  introduc- 
tion  by  Sir  JAMES  CRICHTON-BROWNE.  John  Lane.  2òs.  —  Questa  pub- 
blicazione è  della  più  alta  importanza,  tanto  che  il  critico  del  Dai/y  News  non 
ha  esitato  a  chiamarla  «  il  più  saliente  avvenimento  letterario  dell'annata  ». 
Per  più  di  vent'anni  la  figura  del  grande  scrittore  inglese  è  stata  oscurata  dal- 
l'ombra gettata  sul  nome  di  lui  da  colei  che  fu  la  compagna  della  sua  vita  : 
con  questa  pubblicazione  Carlyle  può  dirsi  riabilitato  poiché  l'introduzione  scritta 
da  Mr.  Crichton-Browne  demolisce  l'edificio  calunnioso  eretto  al  Fronde  e  che 
già  il  prof.  Norton  aveva  assai  minato.  A  ciò  si  aggiunga  che  la  moglie  di 
Carlyle  scriveva  lettere  con  suprema  eleganza,  tanto  da  potersi  paragonare  la 
sua  prosa  epistolare  a  quella  di  Lamb.  Byron  e  Mr    Carlyle  stesso. 

David  and  Bathshua.  A  new  dramatic  Poem  by  CHARLES  WHIT- 
\Y(JRTH  WINNE.  Kegan  Paul,  Tkench,  Trììbner  &  Co.  5s.—  Questo  poema 
drammatico  di  C.  AY.  Wynne  è  stato  molto  ammirato  e  i  critici  si  accordano 
col  dire  che  esso  supera  i  precedenti  lavori  del  medesimo  poeta:  anzi  la  West- 
ininster  Beview.  giunge  a  chiamare  David  and  Batltsìina  la  più  notevole  pub- 
blicazione nel  campo  del  dramma  poetico,  che  sia  apparsa  in  Inghilterra  da 
alcuni  anni  a  questa  parte.  11  poema  è  concepito  con  ricchezza  di  immagina- 
zione ed  è  scritto  con  linguaggio  chiaro,  armonioso  e  scintillante. 

The  House  on  the  Hudson,  by  FRANCES  POWELL.  H.\rper  &  Brothers. 
—  È  questo  un  romanzo  americano  che  non  è  specialmente  notevole  por  l' intrec- 
cio, ma  è  scritto  con  semplicità,  garbo  e  molto  buon  gusto.  La  ca.sa  sul   fiume 


174  NOTIZIE,    I,IBRI    E    RECENTI   PUBBLICAZIONI 

Hudson,  cui  allude  il  titolo,  è  la  dimora  di  una  curiosa  signora,  eccentrica, 
ricca,  come  si  incontrava  sovente  nei  romanzi  di  antico  stampo.  Come  compa- 
gna e  come  direttrice  di  casa,  ella  prendo  con  sé  una  giovane  americana  ohe 
ha  passato  l' infanzia  in  mezzo  a  grande  lusso,  ma  ohe  è  rimasta  a  venti  anni 
orfana  o  priva  di  mozzi. 

Patriotibm  under  three  Flags,  hv  RALPH  LANE.  Fisheu  Unwin.  -  È 
un  volume  che  si  riattacca  ad  alcune  delle  maggiori  controversie  politiche  dei 
nostri  giorni.  In  esso  l'autore  si  scaglia  contro  il  principio  del  patriottismo,  come 
contrario  all'amore  per  l'umanità,  ed  incomincia  coU'attaccare  la  politica  inglese 
nell'Afric  i  Meridionale,  per  continuare  con  maggiore  violenza  contro  gli  Stati 
Uniti  pel  loro  modo  di  agire  contro  le  Filippine.  La  terza  bandiera  è  quella 
della  Francia,  e  a  questo  proposito  Mr.  Ralph  Lane  si  occupa  a  lungo  dell'af- 
faro  Dreyfus 

Michael  Angelo  Buonarroti,  b.y  CHARLES  HOLROYD.Duckwoutii  &  Co.  — 
Mr.  Holroyd  ha  cercato  di  riunire  nel  suo  libro  tutto  ciò  che  può  interessare 
una  persona  che,  pur  non  avendo  una  speciale  cognizione  dell'argomento,  senta 
un  profondo  interesse  per  1'  opera  di  Michelangelo.  Nella  prima  parto  egli  ha 
dato  una  fedele  e  vigorosa  traduzione  della  vita  di  Michelangiolo  scritt:»  da 
Ascanio  Condivi  ;  nella  seconda  ha  espresso  le  sue  opinioni  sull'opera  doH'aiti- 
sta,  e  ciò  come  se  discutesse  la  produzione  di  un  contemporaneo,  come  so  la 
grandissima  fama  di  Michelangiolo  non  disturbasse  la  sua  equanimità.  La  terza 
parte  del  libro  consiste  nella  traduzione  di  tre  dialoghi  sulla  pittura,  scritti 
dal  miniaturista  portoghese  Francis  o  d'Ollanda  che  si  trovava  a  Roma  lU'l  1 .588. 
Questi  dialoghi,  ad  eccezione  di  una  piccolissima  parte,  erano  fin  jra  pubblicali 
soltanto    in  una  rivista  portoghese  di  secondo  ordine. 

The  Letters  of  Dorothy  Osborne  to  Sir  Willù-m  Ter.  pie.  Edited  by  E.  A. 
PARRY.  Sherratt  &  Hughes.  (ìk.  —  Il  2i  giugno  è  uscita  questa  nuova 
edizione  che  contiene  la  pubblicazione,  fatta  ora  per  la  prima  volta,  di  sette 
lettere  di  Dorothy  Osborne  a  sir  William  Tempie.  Queste  lettere  furono  di  re- 
cente venduto  a  Mr.  Parry,  a  condizione  che  egli  stesso  ne  curasse  la  stampa. 
Il  volume  contiene  anche  un'appendice,  riprodotta  daìl'A/lun/ic  Montlhij,  in  cui 
si  trova  una  biografìa  di  Sir  Peter  Osborne. 

Submarine  Navigation  -  Fast  and  Present,  by  Mr.  A.  H.  BURGOYNE. 
Grant  Richards.  —  Il  lavoro  di  Mr.  Burgoyne  è  veramente  pregevole,  poiché 
egli  espone  la  storia  della  navigazione  sottomarina  e  lo  stato  attuale  in  cui  si 
trova  la  soluzione  di  questo  difficile  problema.  Sono  due  grossi  volumi  compi- 
lati con  grande  diligenza  ed  acume;  essi  però  saranno  un  po'  troppo  gravi  per 
le  persone  di  cultura  media,  e  forse  un  po'  leggieri  per  gli  scienziati  che  vor- 
ranno fare  i  loro  studi  e  le  loro  ricerche  su  documenti  originali. 

Recenti  pubblicazioni: 

Mii  Ludi)  of  the  Bass.  A  novel  by  Sidney  Herbert  Burchell.  —  Oav 
i:  Bird.  (i  s. 

The  Btithers  of  Marricd  Lifr.  A  novel  by  S.  H.  Sadler.  —  Swan  Son- 
nenschoin.  2  s.  Od. 

Thv  Spy  Companì/.  A  tale  of  the  Mexican  War  by  A.  C.  Ginter.  — 
Ward  Lock  &  Co.  b  s. 

Trapper  «  Jim  »  A  New  Book  for  Bovs  by  Euwyn  Sandys.  —  Macmillan 
&  Co.  6s. 

London  Roses  :  Ah  Ldyll  of  the  British  Mtiseum.  by  Dora  Grbenwell  IVIai' 
Chesney.  —  Smith,  Blder  &  Co.   (i  s. 

Traveh  in  Southern  Europe  and  the  Levant,  1810-1817  :  The  Journal  of 
G.  R.  Cockcrell,  edited  by  bis  son,  Samuel  Pepys  Cockerell.  —  Longmans  &  Co. 
10  8.  Cd. 

Remrmbrancex  of  Emerson,  by  John  Albee.  —  Gay  &  Bird.  6  s. 

The  Orreriì  Papers,  by  the  CÒuntess  of  Cork  and  Orrbry.  —  Duckworth 
i  Co.  42  s. 

Crimean  Simpson's  Autohiography.  Editod  by  George  Eyrb-Tood.  —  Fisher 
Unw  in.  21  s. 

Tintoreito,  by  J.  B.  Stoiouton  Holhoun.  —  Bell   &  Sons.  5  s. 

Sordello  andCuniss<i,  by  Eigene  Bknson.  —  J.  M.  Dent  À  Co.  2  s.  6  d. 

Life  in  the  Mercantile  Marine,  by  Charles  Prothbroe.  —  John  Lane.  Sa  Cd. 


NOTIZIE.    LIBRI    E    RECENTI    PUBBLICAZIONI  i75 

VARIE. 

Le  feste  centenarie  dell'Università  tli  Berlino,  secondo  una  deliberazione 
1  Senato  aceadeiuico,  saranno  celebrate  nell'ottobre  del  1010.  Il  prof.  Lenz, 
cane  della  Facoltà  filosofica,  ha  avuto  rinearieo  di  scrivere  la  storia  ufficiale 
irUniversità. 

—  Ad  Amburgo  è  stata  inaugurata  il  21  di  giugno,  una  statua  equestre  di 
iglielmo  I. 

—  11  giorno  4  del  prossimo  agosto  si  riunirà  a  Berlino  la  Conferenza  Inter- 
zionale  radio-telegrafica. 

—  A  Vienna  è  stato  fondato  un  Museum  Vindobonense,  destinato  ad  acco- 
ere  le  numerose  antichità  romane  possedute  da  quella  città.  Il  nuovo  museo, 
r  cui  sarà  fabbricato  un  apposito  palazzo,  è  diretto  dalla  Commissione  archeo- 
jica  del  Consiglio  comunale  di  Vienna. 

—  A  Nesario  nell'Istria,  presso  Pola,  alcuni  scavi  fatti  sotto  la  direzione 
I  prof.  Paschi  hanno  posto  in  luce  parecchie  tombe  lampade  di  iute  micenea, 
getti  di  bronzo  e  vasi  decorati  che  andranno  ad  arricchire  il  Musco  di  Pola. 

—  A  Pietroburgo  è  stata  collocata  la  prima  pietra  del  monumento  al  com- 
sitore  Glinka. 

—  Il  ministro  dell' istruzone  dell'Impero  russo  ha  deciso  di  erigere  una 
ova  università  per  le  Provincie  del  nord-ovest  ed  ha  finalmente  scelto  come 
le  la  città  di  Mohilef.  Vilna,  Vitebsk,  Minsk  e  Mohilef  erano  state  proposte, 
.  Vilna  fu  scartata  perchè  il  Governo  non  voleva  risollevare  il  ricordo  del- 
Qtica  università  polacca  che  aveva  sede  in  quella  città:  Vitebsk  e  Minsk 
ano  una  popolazione  inferiore  a  quella  di  Mohilef,  e  perciò  forono  lasciate 
disparte. 

—  La  Spagna  ha  perduto  da  poco  il  suo  maggiore  poeta,  Nunez  de  Arce. 
a  nato  nel  1834  e  nella  sua  gioventii  ottenne  grande  successo  col  dramma  _£"/ 
S  de  Leììa.  Prese  parte  alla  rivoluzione  del  1868  e  allora  scrisse  il  celebre 
itos  de  Combate.  Fu  anche  per  un  certo  tempo  ministro  delle  colonie,  e  da 
ighi  anni  apparteneva  al    Senato. 

—  Nei  mesi  di  settembre  e  ottobre  si  terrà  ad  Amsterdam  la  quarantesima 
losizione  internazionale  di  opere  di  artisti  contemporanei,  nelle  sale  del  Museo 
munale. 

—  E  stato  inaugurato  a  Bucarest  il  monumento  di  Giovanni  Bratiano. 
;nde  patriota  e  uomo  di  Stato  rumeno. 

—  Il  Governo  del  Perù  ha  aperto  un  concorso  interna».iona)e  per  la  co.stru- 
iie  del  nuovo  palazzo  del  Governo  a  Lima  I  progetti  potranno  essere  inviati 
)  al  31  dicembre  del  1003.  Il  primo  premio  è  di  lire  7500. 

OLI    ITALIANI  ALL'ESTERO. 

Il  giorno  13  del  venturo  settembre  si  terrà  a  Parigi  una  commemorazione  di 
)vanni  Bovio  sotto  la  presidenza  del  deputato  Bouguier.  Il  discorso  sarà  pro- 
iziato  da  M    Hubbard. 

—  La  colonia  italiana  di  Parigi  sta  preparando  la  costituzione  di  una  se- 
le  della  «  Lega  navale  italiana  •>. 

—  La  Frankfurter  Zeitmig  pubblica  un  notevole  articolo,  firmato  dall'insigne 
heologo  Hauser,  in  cui  molto  si  loda  il  riordinamento  del  Museo  Nazionale 
Napoli,  condotto  a  termine  da  Ettore  Pais. 

—  La  nostra  gentile  collaboratrice,  signorina  Amy  A.  Bernardy,  che  si 
."•a  negli  Stati  Uniti,  ad  insegnare  nello  Smith  College  di  Northampton,  Mas- 
hussets,  farà  tra  breve  ritorno  in  Italia,  donde  ha  incarico  di  scrivere  una 
e  di  articoli  per  il  Boston  Evening  Trnnscript.  Pochi  giorni  or  sono  la  regia 
basciata  italiana  di  Washington  ha  inviato  una  bandiera  in  dono  allo  Smith 
'ege  Italian  Club  che  la  signorina  Bernardy  ha  fondato  e  dirige  con  vedute 
ierno.  A  novembre  ella  inaugurerà  a  Boston  la  Lectura  Danfis,  che  si  terrà 
o  gli  auspici  del  locale  Comitato  della   "   Dante  Alighieri   ». 

—  Tra  gli  italiani  residenti  a  Tunisi  che  più  si  adoprano  in  favore  dell'innal- 
lento  intellettuale  della  colonia,  ricordiamo  il  nome  del  signor  Giulio  Pro- 
zal.  Egli  ha  tenuto  pochi  giorni  fa  una  conferenza  sul  tema:  La  proclama- 
'e  dei  diritti  dell'uomo,  ed  ha  pubblicato  nel  giugno  scorso  presso  l'editore 
zi  di  Tunisi  un  breve  saggio  filosofico-scientifico:  Sulla  costitusione  della 
eria. 

—  La  Revue  (ancienne  Revue  des  RevaesJ  coatiene  nel  numero  del  1"  luglio 
traduzione  di  alcuni  canti  della  Diva  Natura  di   Alfredo  Baccelli,  Tradut- 

9  è  Mme  Roussille. 


LIBRI 

PERVENUTI  ALLA  DIREZIONE  DELLA  NUOVA  ANTOLOGIA 


L'Aiglon.  Dramma  in  (5  atti  in  ver.si  di  Edmondo  Rostaxo.  Tra- 
dotto in  italiano  da  Mario  Giobbe.  —  Napoli,  1903.  Luigi  PieiTO 
pagg.  379.  L.  3. 

La  pittura  veneziana,  di  Pompeo  Molmexti.  —  Firenze.  1903 
F"i  Alinari.  pagg.  180. 

Razze  inferiori  e  razze  superiori  -  Latini  e  Anglo-Sassoni,  j)e 
Dr.  Napoleone  Coi.ajaxsi.  —  Roma.  1903,  presso  la  «  Rivista  popò 
lare  illustrata  ».  pagg.  323.  L.  5. 

Il  Giudice.  Dramma  in  tre  atti  di  Téresah.  —  Torino-Roma,  1903 
Roux  &  Viarengo.  pagg.  19.  L.  1. 

Crisantemi.  Ultimi  versi  di  Vittorio  Betteloni.  —  Firenze.  liK)3 
Le  Monnier.  pagg.  211.  L.  i2.óO. 

G.  B.  De  Rossi.  Cenni  biografici  per  cura  di  Orazio  Marucchi 
Con  48  illustrazioni.  —  Roma.  1903.  ed.  Pustet,  pagg.  128. 

Macedonia  (marzo-aprile  1903).  con  41  incisioni  e  una  carta,  d 
Vico  Maxtegazza.  —  Milano.  1903,  F."'  Treves,  pagg.  340. 

Xiiore  poesie,  di  Gii'Seppe  Lipparini.  —  Bologna,  1903.  Nicola  Za 
nichelli,  jiagg.  150. 

L' Anima  dclT  Italia.  Versi  di  Adele  Galli.  —  Roma.  1903.  Cas£ 
Editrice  Roux  &  Viarengo.  pag.  176. 

Mazzini,  di  Boltox  Kixg.  —  Firenze.  1903.  Barbèra,  pagg.  400.  L.  4 

Aspettando  l'Aurora.  Versi  di  AxTOXio  Cippico.  —  Zara,  1903,  E 
De  Scliònfeld,  editore,  pagg.  73. 

/biforme  agrarie  e  cooperagione  in  Sicilia,  di  G.  Giliberti-Co.sekza.  —  Rouiit 
Tip.  Colombo.  L.  1. 

Ore  d'ombra  e  di  luce.  Riiuf  di  Vittorio  Amedeo  Arillasi.  —  Torino 
1903.  fì.  Stresilio  iv  C,  pagg.  21)1.  L.  1..j(). 

Per  un  amore.  Ciinzoni  di  Arturo  Foà.  —  Torino.  1903,  Renzo  Stroglic 
pagg.  30.  L.  1. 

Nel  Natale  di  Roma  -  «  Carmen  Sieculare  »  di  Orazio.  Versione  metrica  d 
Giovanni  Manera.  —  Urbino,  1902,  Tip.  delia  Cappella,  pagg.  20. 

Poemetto  giocondo,  di  Licurgo  Tioli.  —  Roma-Torino,  Ì903,  Roux  &  Vii 
rengo,  pagg.  38.  L.  1. 

Pagine  o.scure.  di  Exrico  Boni.  —  Roma-Torino,  1903,  Roux  &  Viarengi 
pagg.  iSO.  L.  -2. 

Saggio  di  traduzioni  da  Catullo,  Orazio  e  Tibullo,  di  Giuseppe  Puccianti.  - 
Firenze,  1903.  Le  lEonnier.  pagg.  290.  L.  2. 

Grammatica  greca,  di  Adolfo  Kaecìi.  —  Roma,  1903.  G.  B.  l'aravia  <\  C 
pagg.  .350.  L.  4.25. 

Mosè  0  Darnin ?,  di  Arnoldo  Dodel.  Traduzione  italiana  di  Luigi  M 
riani.  —  Arpino,  1903,  Giovanni  Fraioli.  pagg.  217.  L.  2. 

//  noce  fatato.  Fiaba  di  Luigi  Da  vini.  --  Castiglione  delle  Stiviere,  191 
pagg.  41.  L.  0..50. 

Sulla  monacazione  di  Sreva  Montefeltro -Sforza.  Signora  di  Pesaro.  Ricercl 
di  B.  Feliciangeli.  —  Pistoia,  1903,  Tipografia  Giuseppe  Fiori,  pagg.  81.  L 

L'eredità  di  Peppino.  Racconto  di  Ugo  Valcarenghi.  —  Torino-Roma,  19( 
Roux  &  Viarengo,  pagg.   145.  L.  2. 

Antonio  Cesari  e  gì'  Itili  ani,  per  Giuseppe  Guidetti.  —  Roggio  Emilia,  19( 
presso  l'autore,  pagg.  545.  L.  5. 

Versi  di  Dagmar.  —  Torino-Roma,  1903,  Roux  <k  Viarengo,  pagg.  110.  L, 


tubblicato  il  IO  luglio  19C3. 


Direttore-Proprietario:  MAGGIORINO  FERRARIS. 


David  Marchionni.  Responsabile. 


Roma.  Via  della  Missione,  3  -  Carlo  Colombo,  tipograto  della  Camera  dei  Deputati. 


I  PAESISTI  OLANDESI  A  ROMA 


La  rinomanza  dei  paesaggi  italiani  è  diffusa  in  lutto  il  mondo 
.'ile,  e  riconosciuta  universalmente.  Non  è  mio  proposito  scriver  la 
)ria  della  maniera  con  cui  si  produsse,  ma  di  fermarne  uno  dei  più 
riosi  capitoli  e  dei  meni  studiati:  quello  del  contributo  che  pittori 
nuli  dall'altra  estremità  d'Europa  apportarono  a  questa  fama.  Parlo 
gli  Olandesi  che  durante  più  di  un  secolo,  attiatti  dal  fascino  di 
esti  siti,  ne  ricavarono  innumerevoli  quadii  e  si  composero  per  dipin- 
rli  una  maniera  che  fece  scuola  tin  nel  proprio  paese,  eclissando  col 
o  sjìlendore  le  stesse  scuole  nate  e  cresciute  nella  terra  natale  e 
■condate  d'una  gloria  indiscussa. 

Tanto  fu  grande  che  infine  1"  hnagerie  popolare  non  conservò  più 
ro  ricordo,  non  conobbe  più  altra  Italia  da  quella  che  tali  pittori 
e  vano  raffigurata.  Non  è  esagerato  il  dire  che  l'immagine  prevalente 
U"  Italia,  nell'Europa  moderna  or  son  cinquant'anni  e  ancor  oggi  co- 
memente  diffusa,  è  generata  da  questa  scuola. 

Ecco  infatti  quest'immagine.  Un  sito  leggermente  boscoso  limitato 
monti  lontani,  una  rovina  di  castello  in  distanza,  talora  l'arco  d'un 
[fuedotto  diroccato,  un  villaggio  su  un'altura;  in  prim' innanzi  un 
nento  guada  un  fiume,  un  viaggiatore  a  cavallo  interroga  una  pasto- 
la  che  a  braccio  teso  indica  la  strada.  Tale  è  l'Italia  di  convenzione, 
e  non  dico  sia  in  disaccordo  coli' Italia  vera:  n' è  almeno  un'imma- 
le  in  special  modo  composta  e  ben  caratteristica,  che  un  numero 
ìnito  di  quadri  e  di  stampe  fecero  conoscere  e  ammirare  nel  mondo. 

Onde  emana  essa?  Ciii  ha  fissato  per  una  serie  di  generazioni  si 
iga  e  che  termina  ora  appena,  la  raffigurazione  d'una  contrada  che 
nualiò  le  menti  e  fu  riguardata  come  la  più  bella?  Gli  Olandesi, 
me  e  per  c[uali  felici  tentativi  si  stabilisse  il  loro  regno  in  questo 
aere,  come  la  voga  se  ne  propagasse,  quali  uomini  e  quali  ingegni 
istificassero  questo  esito,  in  qual  paese  si  diffondesse  e  quanto  perdu- 
5se,  ecco  quello  ch'io  mi  propongo  di  svolgere. 


1. 

I  maggiori  fra  questi  artisti  sono  universalmente  noti:  sonoCriovanni 
th,  Berghem  e  Carlo  Dujardin.  Gli  idtimi  due  vissero  ad  Amsterdam, 
irimo  a  Utrecht.  Queste  due  città  furono  come  il  centro  e  due  uguali 
olari  del  genere  d'arte  di  cui  parlo.  IBoth,  morto  nel  165'^,  è  l'anziano, 
rghem  e  Dujardin  non  fiorirono  che  dopo  la  metà  del  secolo  dicias- 
tesimo,  durante  un  periodo  di  trent'anni. 

12  Voi.  evi,  Serie  IV  -  16  lagUo  1903. 


178  I    PAESISTI    OI.AMIESI    A    ROMA 

Grandissima  fu  la  fama  loro  ed  innumerevoli  gì'  imitatori.  Bergheiiv 
sopi'aUitto  n'ebbe  infiniti  e  1  suoi  quadri  divennero  bentosto  oggetto 
di  contraffazione  universale.  Non  c'è  forse  al  mondo  pittore  le  cui 
opere  autentiche  siano  più  spesso  mescolate  a  tele  supposte  dei  fal- 
sari!, sulle  quali  trovasi  la  firma  esattamente  imitata,  sia  dagli  stessi 
copisti,  sia  dai  mercanti. 

Fu  egli  infatti  il  pili  celebre  e  il  più  diffuso  dei  Ire.  Tutti  hanno 
visto  e  ricordano  i  suoi  quadri.  Non  c'è  viaggiatore  si  tiepido  e  di- 
stratto, o  visitatore  poco  appassionato  di  musei  che  non  abbia  negli 
occhi  le  sue  facili  composizioni,  la  sua  luce  artificiosa,  le  sue  mezze 
tinte  brune,  il  suo  pennelleggiare  breve  e  carezzoso.  Si  ritrova  nei 
suoi  quadri  tal  quale  il  tipo  generale  dei  siti  italiani,  volgarizzati  nelle 
immagini  correnti,  che  ho  sopra  descritto.  Scegliendolo  fra  tutti,  [las- 
serà come  padre  vero  di  quella  vena  triviale  e  facile,  il  che  spiegasi 
agevolmente  mediante  il  posto  clie  egli  tiene  naturalmente  nella  scuola. 
Ora  ecco  quello  che  stupisce  anzitutto.  Questo  pittore  dell'  Italia, 
questo  famigliare  de"  suoi  paesaggi,  de"  suoi  llumi.  delle  sue  montagne, 
de'  suoi  contadini  e  delle  sue  rovine  non  abbandonò  forse  mai  il  jiaese 
nativo.  A  Harlem  lo  si  trova  nel  l()4'i,  di  solii  ventidue  anni;  più  tardi 
lo  si  vede  ad  Amsterdam  tranquillamente  insettiato,  prodigare  le  vedute 
d'oltremonti.  Morto  nel  1683.  s'ignora  positivamente  s'egli  visitasse 
mai  r  Italia.  Il  mercante  di  quadri  Lebiun  assevera  nella  sua  Galleria 
dei  2}ìttori  fi  a  mminfjhi  e  olandesi  che  la  ielmli  parecchi  quadri  di  Ber- 
ghem  è  di  manifattura  italiana:  ma  ciò  basta  per  decidere  la  questione'? 

E  quando  pur  Berghem,  al  pari  degli  altri  che  la  maggior  parte 
tornano  da  Roma  verso  la  trentina,  ne  avesse  fatto  il  viaggio,  una 
cosa  è  ben  da  notare  sia  riguardo  a  questi,  sia  riguardo  a  lui:  è  la 
maniera  in  cui  s'intrattenevano  quelli  pittori,  servendosi  senza  fine 
de'  loro  studi  fatti  nel  paese  in  gioventù,  o  forse  de'  modelli  altrui  : 
è  il  dipingere,  ch'essi  facevano,  1"  Italia  in  Olanda,  e  le  vedute  della 
Campagna  romana  alla  luce  del  Heerengracht  o  dinanzi  ai  polders  di 
Harlem. 

Perocché  su  tal  punto  non  e"  è  dubbio.  Both,  tornato  d' Italia  a 
trent'anni,  abitò  sempre  nel  suo  paese.  Non  si  conosce  di  Dujardin 
alcun  viaggio  di  là  dai  monti,  se  non  negli  ultimi  anni  della  sua  vita; 
ma,  senza  contestare  eh'  egli  ne  avesse  fatto  alcuno  prima,  non  è  men 
vero  ch'egli  non  tralasciò  in  lutto  il  lungo  tempo  ch'egli  passò  in 
Olanda  di  produrre  il  genere  di  tele  di  cui  si  tratta. 

Lo  stesso  avviene  per  tutti  gli  altri.  Non  c'è  un  sol  pittore  nella 
scuola  cui  non  s'applichino  queste  osservazioni.  Ed  eccone  la  conse- 
guenza. Non  potendosi  negare  che  la  luce,  i  siti,  l'aria  generale  della 
penisola  si  trovino  mirabilmente  resi  in  questi  quadri,  converrà  dire 
che  1"  Italia,  la  quale  di  fatto  non  trattenne  presso  di  essa  questi  pit- 
tori, si  vide  da  essi  trasportata  in  Olanda,  non  nel  modo  che  facilmente 
si  concei)isce,  con  la  presenza  di  alcuni  quadri  completi,  ma  presente 
e  vivente  nel  ricordo  degli  artisti  che,  avendola  un  tempo  contemplata, 
■ne  riportavano  un'  impronta  capace  di  produrre  senza  fine  nuove  imma- 
gini. Così,  per  una  specie  di  prestigio  che  non  ha  pari  nella  storia 
dell'arte,  quel  che  la  mediocre  fantasia  dei  disegnatori  d' infima  classe 
opera  altrove  per  il  piacere  degli  ignoranti,  voglio  dire  la  sciolta  ed 
arbitraria  pittura  de'  paesi  meravigliosi  che  non  furono  mai  visitati, 
mutala  questa  volta  in  uno  spettacolo  di  verità  e  di  bellezza,  divenne 
il  pane  quotidiano  di  questi  perfetti  artisti  e  de'  lor  fe'ici  compaesani. 


I   PAESISTI   OLANDESI   A    ROMA  179 

Di  tali  pittori  ne  conto  una  trentina  in  poco  più  di  mezzo  secolo. 
Il  che  dimostra  come  questo  spettacolo  fu  copioso  e  fino  a  qual  punto 
sia  vero  che  fili  Olandesi  di  quel  temjio  possedettero  1"  Italia  a  casa 
loro. 

Non  noterò  quel  che  v'  ha  qui  di  contrario  alle  idee  odierne.  Noi 
non  sopportiamo  oggidì  nemmeno  che  si  componga  un  paesaggio.  Che 
sono  dunque  dei  quadri  ricuciti  d'elementi  che  il  ricordo  presso  gli 
uni,  la  copia  presso  gli  altri,  dovette  fornire?  Pure  erano  grandi  mae- 
stri, checche  siasi  tentato,  or  è  poco,  per  deprezzare  Berghem,  ne  si  osa 
negar  l'elogio  agli  altri.  1  secoli  scorsi  non  avevano  da  tener  conto 
delle  idee  che  noi  avremmo  un  giorno  e  de"  sistemi  che  ci  piacerebbe 
di  formularci.  Forse  anche  non  avrebbero  preveduto  che  noi  avremmo 
giudicato  in  nome  di  teorie  che  i  fatti  compiuti  fin  dal  loro  tempo  smen- 
tiscono in  modo  sì  perentorio. 

Questa  pratica  dei  modelli  italiani  presso  uomini  che  non  li  ave- 
vano veduti  od  avevano  cessato  di  vederli,  ebbe  un  effetto  d'altra  sorte: 
portò  qualcosa  di  questi  modelli  perfino  nell'arte  di  coloro  che  stando 
a  casa  propiia  si  limitavano  alle  vedute  di  lor  paese.  Quindi,  vicino 
a  questa  categoria  d'Olandesi  italicmisants  tanto  rispetto  ai  siti, 
quanto  alla  luce,  la  specie  d'equivoco  di  quei  pittori  che  prendono 
soggetti  in  Olanda,  mentre  la  maniera  e  il  gusto,  notevoli  specialmente 
nella  luce  e  nelle  ombre,  sono  in  essi  perfettamente  confoinii  a  quelli 
de'  pittori  dell'Italia.  Tal  miscuglio  rischia  di  far  gridare  allo  scandalo. 
Mi  affretto  ad  aggiungere  che  un  de'  piìi  grandi  maestri  de"  Paesi 
Bassi,  morto  a  trentasette  anni  dopo  una  carriera  tutta  ripiena  di 
capolavori,  Adriano  Van  de  Velde.  è  il  perfetto  rappresentante  del 
genere.  Onde  si  vede  1"  Italia  avere  rivelato  a  questi  pittori  del  Nord 
non  solo  dei  soggetti,  ma  una  maniera,  e  la  natura  essersi  fatta  ispi- 
ratrice d'uno  stile  :  osservazione  essenziale  in  questo  riguardo. 

Infatti  (piantumpie  vi  fosse  una  tradizione  e  luia  pratica  ])articolare 
nei  pittori  italiani  j)cr  i  paesaggi,  la  quale,  indicata  dapprima  dal  Tizianr 
e  dai  Veneziani,  aveva  ricevuto  dai  Bolognesi  dei  perfezionam  nti 
ultimi,  non  è  da  questa  tradizione  che  si  videro  istruirsi  gli  Olan'csi 
di  cui  parlo. 

Contemporanei  di  Poussin,  del  Guaspre.  del  Bolognese,  i  quaL  in 
gradi  diversi,  serbano  qualche  cosa  dei  Veneziani,  non  si  vede  affatto 
ch'essi  abbiano  voluto  somigliar  loro.  Non  die  essi  non  abbiano  preso 
a  prestito  nulla:  dirò  piìi  avanti  da  chi:  ma  ciò  ch'essi  hanno  d'ita- 
liano nello  stile  non  è  la  maniera  di  alcun  pittore  di  questo  paes-- 
essi  sono  intieri  nella  figura  e  nella  luce  che  la  riscliiara. 

Non  occorre  infatti,  per  far  comprendere  che  questo  stile  differisce 
estremamente  da  ciò  che  qualcuno  dei  loro  compatrioti  traeva  dalle 
tradizioni  propriamente  nazionali,  che  il  confronto  fra  Both  e  Hobbema,. 
fra  Carlo  Dujardin  e  Ruysdael. 

Questi  praticarono  quello  che  potrebbesi  chiamare  il  paesaggio' 
retnbranesco,  che  qui  non  posso  altrimenti  definire,  certo  tuttavia  che' 
il  mio  lettore  ne  ricorderà  abbastanza  il  carattere.  Essi  godono  oggi 
d'una  voga  invadente,  che  minaccia  di  eclissare  tutto.  Per  abbreviare, 
l'ultima  somma  pagata  dagli  Americani  per  un  paesaggio  di  Hobbema 
non  fu  inferiore  a  (i(Hl.(HH)  franchi.  Non  si  invidia  loro  questa  voga, 
giustificata  da  bellissime  opere  :  confessiamo  eh'  esse  sono  perfette  nel 
loro  genere;  ma  è  a  lamentare  una  volta  di  piìi  che  certe  qualità  di 
forza,  una  gran  varietà  di  risorse,  e  il  vivo  sentimento  della  natura. 


180  1    PAESl.STI    OLANDESI    A    ROMA 

che  si  fondono  in  quello  che  chiamasi  in  generale  il  genio  sassone  o 
germanico,  diventino  il  pretesto  per  tener  in  poco  conto  la  libertà,  la 
grazia,  la  gioia,  la  pura  luce,  l'accordo  agile  delle  belle  linee,  la  pro- 
fonda intelligenza  delle  cose  che  dà  la  coltura  latina  e  che  sono  giu- 
stamente un  privilegio  dei  nostri  Olandesi  d'Italia. 

Both,  Berghem.  Du.jiirdin,  Van  de  Wide,  quattro  artisti  superiori, 
quattro  glorie  dell'arte  dei  Paesi  Bassi,  quattro  conquiste  dello  spirito 
latino  nella  Bassa  Germania,  conquiste  del  Mezzogiorno  sul  Nord,  di 
cui  abbiamo  il  diritto  di  felicitarci. 

Questa  considerazione  definisce  il  loro  stile  in  generale.  E  ci  sa- 
rebbe facile,  traendola  più  oltre,  opi>orre  coltura  a  coltura  e,  i.stituendo 
il  parallelo  secondo  le  nostre  ])referenze.  rendere  ai  grandi  ingegni  di 
diversa  sorte  il  loro  posto  ed  ordine  naturale.  Ma  questa  polemica  non 
vale  1"  analisi  delle  opere  e  la  storia  della  loro  origine  che  ho  pro- 
messa: Soiu)  i  fatti  stessi  che  lodano  e  che  conviene  riferire. 


11. 

11  iirinio  inizio  dello  stile  di  cui  si  (ratta  risale  a  un  pittore  di 
Francotorte,  stahilitosi  a  Roma  fin  dal  principio  del  secolo  xvn,  cono- 
sciuto al  suo  tempo  col  solo  nome  di  Adamo,  e  che  noi  chiandamo  col 
suo  cognome  Elzheimei'. 

Egli  primo,  venuto  dopo  i  quadri  ingombri  di  fogliame  di  Paolo 
Bril,  ebbe  l'idea  di  raccogliere  accuratamente  i  vari  effetti  della  luce 
in  tutte  le  parti  di  un  paesaggio,  e  di  mettervi  l'ordine  con  questo 
mezzo.  Egli  tentò  degli  effetti  notturni  in  piccoli  e  minuziosi  lavori, 
che  lo  fecero  moltissimo  apprezzare  da  un  jùccolo  numero  d'amatori. 
11  conte  palatino  Goudt,  lo  incise  in  tavole  che  son  divenute  altresì 
rarissime,  tanto  die  le  origini  di  un'arte  che  doveva  spandersi  ben 
|<)sto  in  si  numerosi  esemplari  hanno  nella  storia  l'apparenza  d'una 
iniziazione  misteriosa. 

(  Breemberg  e  Poelembiug  che  chiamano  l'uno  Bartolomeo  l'altro 
Cornelio,  Olandesi  entrambi,  imitarono  Elzheimer,  e  percorrendo  la 
Cac^ipagna  romana,  cominciarono  a  mescolare  le  rovine  in  vedute  delle 
qitali  gli  aggruppamenti  d'alberi  avevano  cessato  di  fare  tutto  il  me- 
rit'o,  dopo  che  lo  studio  curioso  della  luce  vi  si  trovava  unito.  Con 
uiha  fantasia  ispirata  dai  pittori  di  stile,  delle  figure  nude,  divinità, 
bagnanti,  vi  erano  questa  volta  mescolate,  componendo  colle  rovine 
i;:legli  antichi  monumenti,  che  il  paese  fornisce  in  al)l)on(]anza.  un  ge- 
nere semi-mitologico,  e  si  chiamarono  «  le  Arcadie  ». 

L'anno  16*27  vide  questi  pittori  tornati  tutti  al  loro  ]mese,  Cornelio 
ad  Utrecht,  Bartolomeo  ad  Amsterdam,  ove  i  due  rami  gemelli  d'una 
medesima  arte  non  dovevano  più  da  allora  cessare  di  fiorire. 

Bisogna  segnalare  quest'anno  1627  come  un'epoca  in  questa  storia. 
È  il  tempo  difatti  che  riappare  a  Roma  un  uomo  giovane  ancora  e  poco 
noto,  che,  venuto  dapjirima  nella  Città  Eterna  nel  modesto  ufficio  di 
garzone  pasticciere,  s'era  inalzato  in  poco  tempo  alla  professione  di 
pittore.  Tomaio  per  qualche  tempo  in  Loiena  siui  patria,  l'ientrava  nel 
[laese  dell'arte,  questa  volta  per  non  più  uscirne  e  percoiaiuciarvi  una 
carriera  che  è  la  più  mirabile  e  la  più  gloriosa  che  piftoi-  di  paesaggio 
alibia  mai  percorsa.  Voglio  dire  Claudio  Lorenese.  Durante  50  anni  e 
fino  alla  morte  sopraggiunta  nel  168'2,  videsi  quest'ariista  condur-re  con 


1    PAESISTI   OLANDESI    A    ROMA  181 

lina  costanza  di  sforzi,  una  uniformità  di  disegno,  una  continuità  d'ispi- 
lazione  incomparabile,  quel!"  inesauribile  serie  di  lavori,  che.  senza 
l'aiuto  di  alcuna  facile  seduzione,  senza  chiasso  e  senza  varietà,  esposti 
più  che  altri  mai  al  rimprovero  di  ripetizione  e  di  monotonia,  non  ces- 
sarono, dopo  rammirazione  del  suo  secolo,  di  sostenerlo  nella  gloria 
presso  la  lontana  posterità.  Questo  periodo  abbraccia  tutto  il  tempo 
della  più  brillante  fioritura  dell'arte  olandese,  sicché  non  c'è  un  solo 
di  questi  pittori  dei  quali  principalmente  mi  occupo  (parlo  di  quelli 
che  vennero  a  Koma)  che  non  vi  abbia  conosciuto  il  Lorenese. 

È  certo  che  la  sua  inthieuza  fu  decisiva  nell'inizio.  Da  lui  questa 
scuola  d'Olanda  imparò  ad  animare  il  paesaggio  coi  raggi  trionfanti 
del  sole,  a  sgombrare  i  fondi,  ad  approfondire  l'orizzoiite.  a  gettare 
infine  su  tutte  le  cose  quella  facilità  e  quello  splendore  che  gli  altri 
non  conobbero  mai.  Claudio  fu.  in  qualche  modo,  discepolo  di  Poelem- 
burg  :  |)rese  da  lui.  fondo  e  forma,  il  genere  nuovo  deUe  Arcadie  :  ma 
quel  che  egli  vi  aggiun.se  di  suo  gli  conferisce  in  questa  concate- 
nazione di  stili  un'importanza  sì  eccezionale  che  devesi  considerarlo 
come  il  vero  iniziatore  del  genere  da  cui  gli  Olandesi  si  istruirono. 
Con  lui  l'arte  del  paesaggio  si  esercitò  nella  rappresentazione  della 
luce,  di  cui  s'imparò  a  digradar  gli  effetti  dall'estremo  orizzonte  fino 
agli  oggetti  pili  vicini.  La  profondità  delle  sue  pitture,  d'onde  viene 
quell'aria  di  naturalezza  insieme  e  di  sublimità,  deriva  da  questa  per- 
fetta esattezza:  quei  fondi  scoperti  ove  la  sera  e  l'aurora  splendono 
per  la  gioia  nostra  e  che  incorniciano  in  mille  modi  variati  i  fogliami 
dei  maestri  olandesi,  essi  non  li  presero  altrove  che  da  Claudio.  Essi 
medesimi  lo  riconobbero  e  questa  confessione  formale  si  legge  ancora 
in  Houbraken. 

La  luce  d'Italia  rivelata  coll'arte  d'ini  francese  ai  paesisti  venuti 
dall'Olanda,  tale  è  il  tratto  principale  del  genere.  Non  parlo  della  di- 
stribuzione degli  oggetti,  dei  castelli,  dei  ponti  sui  fiumi,  degli  armenti 
e  dei  cavalieri  che  vedonsi  alternare  presso  Claudio  col  bagaglio  ar- 
cadico, e  che  i  nostri  Olandesi  hanno  parimenti  serbato  e  accomodato 
a  modo  loro. 

È  d'uopo  immaginare  quello  che  era  a  Roma,  poco  dopo  il  1530. 
-  al  tempo  che  viveva  ancora  la  vedova  d' Elzheimer,  conservando  gelo- 
samente le  tele  più  perfette  del  defunto  -  il  piccolo  gruppo  di  pittori 
di  cui  Claudio  formava  il  centro  e  di  cui  il  francoforte.se  Sandrart 
resta  per  noi  lo  stoiiografo.  Facevano  insieme  delle  escursioni  artisti- 
che, sia  traverso  la  Campagna  romana,  sia  nei  siti  scelti  di  Subiaco 
e  di  Tivoli  :  si  eccitavano  allo  studio  e  l'allegria  non  difettava  loro. 
Sandrart  ha  riferito  gli  schizzi  e  le  pitture  ch'egli  eseguiva  in  queste 
passeggiate  a  lato  del  Lorenese  amico  suo.  Pietro  Van  Laar.  nomato 
Bamboccio,  celebre  per  le  sue  idee  gioviali  e  la  stranezza  della  sua 
figura,  distinguevasi  in  questa  compagnia.  Famigliare  di  Claudio,  come 
r  indica  Sandrart.  egli  fu  il  primo  fra  quelli  del  suo  paese  ad  intro- 
durre la  maniera  di  quell'aitista  nei  paesaggi.  Era  una  nuova  attrat- 
tiva, un  miscuglio  nuovo  di  stili,  di  cui  altri  avrebbero  tosto  tratto 
jìrofitto. 

Both  comparve  poco  dopo  e.  senza  forse  divenir  ainico  di  Claudio, 
poiché  su  ciò  ci  manca  la  testimonianza  di  Sandrart.  esegui  dapprima, 
sotto  la  medesima  intluenza.  dei  lavori  che  sono  i  più  meravigliosi 
della  scuola.  Poi  fu  un  po'  più  tardi  Asselyn  detto  Crabetje  o  Clio van- 
netto  Olandese,  infine  Miei,  copista  del  Bamboccio,  nomato  in   Italia 


182  I    PAESISTI   OLANDESI    A    ROMA 

Giovanni  della  Vite,  il  quale,  staliilitosi  a  Torino,  moi'ì  pittore  del 
Duca  di  Savoia. 

Quest'Olandese  fa  eccezione.  Tutti  tornavano  nel  loro  pae.se.  11 
Bamboccio  partì  primo,  poi  Bolli,  poi  Asselyn.  Dal  1545  questa  prima 
generazione  aveva  raggiunto  Breemberg  e  Poelemburg,  Bolli,  come 
dissi,  a  Utrecht,  Bamboccio  e  Asselyn  a  Amsterdam. 

Qui  sarebbe  interessante  sapere  precisamente  in  qual  modo  t|ue- 
st'aiie  nuova  fece  subito  scuola  nel  paese.  La  vita  che  questi  pittori 
menavano  ciascuno  nella  propria  città  è  un  punto  oscurissimo.  I  nomi 
stessi  degli  allievi  che  fecero  ci  mancano.  Non  si  conosce  meglio,  a  questo 
riguardo,  la  parte  degli  amatori  e  dei  mecenati  del  commercio  e  della 
banca  che  le  Provincie  Unite  possedevano  allora  in  altbondanza;  e 
infine  quella  dei  mercanti  di  quadri,  di  cui  l'importanza  era  conside- 
revole. Nell'incertezza  in  cui  siamo,  se  alcuni  dei  più  grandi  fra  questi 
pittori  avessero  essi  almeno  visto  l'Italia,  si  comprende  che  più  grande 
ancora  è  la  curiosità  di  sapere  come  si  propagasse  l' imitazione  di 
questo  genere.  È  una  delle  questioni  più  interessanti  per  gli  eruditi 
e  di  cui  è  da  augurai'si  che  alcuno  si  incarichi  un  giorno  di  istruirci. 

Comunque  sia,  non  dul>iliamo  che  uomini  come  il  ricco  Adriano 
Pan  d'Amsterdam,  il  quale  conobbe  a  Roma  Claudio  e  Sandrarl.  che 
mercanti  di  i(uadri  come  fu  un  po'  |)iù  tardi  il  jìortoghese  Diego 
Duarte  e  come  quell'  Uilenhorch  pi-esso  cui  studiò  Polidoro  Glauber, 
non  abbiano  efficacemente  aiutata  la  voga  che  tosto  si  dichiarò. 
Vicino  a  Both,  Guglielmo  De  Heusch,  vicino  a  Asselyn.  Moucheron, 
poi  Mommers  ,  poi  Swanevell  nominalo  Herman  d'Italia,  poi  un'ab- 
itondante  discendenza,  sparsa  dappertutto,  di  Poelemburg,  Cuylem- 
burg,  Hansl)ergen,  Van  aer  Lisse.  le  crescevano  splendore.  Questi  ul- 
timi vissero  all'AJa;  Harlem  fu  toccala  dal  Bamboccio,  che  vi  passò 
gli  ultimi  anni.  Dappertutto  si  sparse  il  gusto  per  questa  uianiera 
netta  e  brillante;  zuivere  en  heldere  n-ijze,  di  cui  Houbraken  riferisce 
che  i  pittori  di  quel  tempo  occupavano  i  loro  discorsi. 

Si  cominciò  a  vivere  nell'incanto  di  quegli  orizzonti  dorati,  di 
quelle  molli  chine  ove  il  sole  si  smarrisce  traverso  le  rocce  e  i  ce- 
spugli, di  quelle  frondi  che  la  luce  traversa,  il  cui  verde  assume 
riflessi  d'argento,  di  quei  corsi  d'acqua  capricciosi,  ove  spumeggiano 
delle  cascate,  di  quei  sentieri  salienti  e  tortuosi,  di  quei  muletti  agili, 
di  quegli  armenti  superbi  a  cui  la  figura  umana  mescola  il  ((uadro 
della  vita  all'aria  aperta  e  della  facile  esistenza.  Non  bastava  il  pen- 
nello; il  bulino  ugualmente  vi  si  compiaceva.  Tutti  questi  artisti  erano 
ugualmente  incisori:  l'acquaforte  nelle  loro  mani  jìrodusse  dei  capola- 
vori, fra  cui  la  serie  dei  paesaggi  che  Both  pubblicò  presso  Matham 
rimane  il  più  illustre  esempio. 

Nel  punto  saliente  di  questo  movimento  si  dimostrò  l'ingegno  di 
Berghem.  Ho  detto  in  ([ual  modo  e  per  quali  ragioni  egli  ne  segnò 
l'apogeo.  Non  si  può  negare  ch'egli  è  meno  fine  e  meno  squisito  in 
generale  che  Both  :  nondimeno  abbastanza  a])parisce  che  la  sua  estrema 
facilità  l'ha  reso  capace,  quando  occori'eva.  di  raggiungere  le  cime 
dell'arte,  li  suo  paesaggio  della  Galleria  Si.x  di  Amsterdam,  una 
delle  gemme  della  scuola,  basta  a  mostrar  questo  fatto,  e  a  riparare 
il  torto  che  gli  fanno  oggidì  trojipe  affrettate  produzioni  di  carattere 
popolare  e  volgare. 


I    PAESISTI    OLANDESI    A    ROMA  183 


III. 


È  tempo  di  dir  qualcosa  della  vita  che  conducevano  in  Italia  i 
pittori  olandesi  che  vi  si  recavano. 

Questi  pittori  e  ([uelli  di  Fiandra,  formavano  a  Roma  una  società 
nominata  «  la  Banda  »,  de  Bevi,  come  la  chiamano  gli  scrittori  olan- 
desi. I  menihri  si  nomavano  Bentvoueh  ossia  uccelli  clella  Banda.  È 
da  notare  che  una  società,  che  sembra  aver  tenuto  in  Roma  a  quest'epoca 
un  posto  di  qualche  importanza,  non  abbia  lasciato  se  non  pochissima 
traccia  nei  racconti  dei  contemporanei. 

Le  sue  origini  erano  oscure  agli  autori  stessi  che  nel  xvii  secolo 
ce  ne  hanno  conservato  il  licordo.  Corneille  Lebrun  (in  olandese 
De  Bruyn)  nei  suoi  Viagfji,  pubblicati  a  Delfi  nel  1698,  dice  corresse 
voce  che  Raffaello  stesso  l'avesse  fondata,  il  che  non  è  verosimile. 
Egli  unisce  il  racconto  del  suo  proprio  ingresso  in  quella  illustre  com- 
pagnia. Sembra,  da  tale  racconto,  che  fosse  una  società  di  divertimento, 
principalmente  una  società  per  bere,  lo  che  fu  il  gusto  eccessivo  dei 
Fiamminghi  d'ogni  temiKt.  Van  Mander  ha  riempito  le  sue  Vite  di 
Pittori  di  lamenti  a  tale  riguardo.  È  a  credere  che,  in  confronto  della 
sobrietà  italiana,  simili  costumi,  consacrati  da  una  associazione  e  da 
regolamenti  speciali,  facessero  in  Roma  un  certo  scandalo. 

Il  defunto  Bertolotti  fu  il  primo,  nei  suoi  Artisti  Belgi  e  Olandesi 
a  Roma,  a  riassumere  per  il  pubblico  italiano  il  curioso  testo  di  cui 
parlo.  Esso  contiene  tutti  i  dettagli  d'un  bizzarro  cerimoniale,  in  cui 
il  novellino,  o  membro  in  erl)a  {de  Groene,  dicevano  nella  Banda), 
passava  per  varie  prove,  nel  mezzo  d'una  rappresentazione  allegorica 
in  maschera  fatta  dai  suddetti  Uccelli.  Uno  di  essi,  montato  sopra 
un'alta  sedia,  leggeva  parecchie  esortazioni  per  la  pratica  della  pittura 
e  le  regole  della  società.  A  che  il  membro  in  erba,  dopo  aver  risposto 
il  più  umilmente  che  poteva,  veniva  coronato  di  lauro  verde  e  accla- 
mato con  lunghi  evviva  dai  suoi  nuovi  confratelli  sotto  il  nuovo 
nome,  detto  nome  della  Banda,  ch'egli  assumeva.  Lebrun  ha  aggiunto 
una  tavola  al  suo  racconto,  ma  si  può  credere  che  né  tavola  né  rac- 
conto fanno  parte  della  verità  intera,  se  si  guarda  un  certo  quadro  di 
Van  Wynen  inciso  in  una  stampa  di  Pool  e  Bernardo  Graat.  Il  giura- 
mento di  fedeltà  vi  è  rappresentato  in  una  scena  di  buffoneria  tale 
che  difficilmente  si  può  darne  idea.  Basti  sapere  che  la  torcia  alla  cui 
luce  vengono  letti  i  regolamenti,  è  introdotta  nel  corpo  del  matricolino 
nel  posto  il  meno  immaginabile.  Lo  stesso  Van  Wynen  dipinse  pure 
la  distribuzione  delle  lettere  d'invito  e  il  banchetto  che  seguiva,  egual- 
mente inciso  dagli  stessi  artisti.  Questo  banchetto  durava  tutta  la  notte. 
Era  il  matricolino  che  lo  pagava  a  tutti  i  tirmatari  delle  sue  lettere, 
ch'egli  chiamava  suoi  testimoni. 

Passata  cosi  la  notte  bevendo,  cominciava  una  cerimonia,  meno 
grossolana  e  più  scherzosa,  in  cui  le  antichità  di  Roma  trovavano  un 
posto  inatteso.  Era  il  ]iellegrinaggio  alla  tomba  di  Bacco,  che  quei 
devoti  al  dio  reputavano  consistere  in  un  sarcofago  di  porfido,  dipoi 
portato  al  Vaticano,  che  decorava  allora  la  chiesa  di  Santa  Gostanza 
fuori  porta  Nomentana.  All'alba,  la  truppa  si  metteva  in  marcia  verso 
questo  luogo  di  pellegrinaggio  cristiano,  e  vi  andava  a  far  le  sue  de- 
vozioni a  Bacco,  di  cui  la  parte  più  materiale  si  terminava  in  un  al- 


184  I    PAESISTI    OLANDESI    A    ROMA 

bergo  non  lungi  dal  santuario,  in  faccia  d'uno  dei  più  bei  punti  di 
vista  che  si  possano  trovale  nella  campagna  romana. 

Hoogstraaten,  nella  sua  Ititrodusione  alla  pratica  della  pittura. 
assicura  scherzando  che  una  tale  società  era  mantenuta  allo  scopo  di 
risvegliare  il  genio  che  sonnecchia.  Ciò  può  intendersi  in  parecchie 
maniere.  Houbraken,  nelle  sue  Vite  di  Pittori,  che  forma  la  quarta 
delle  testimonianze  conosciute,  aggiun.se  qual<-lie  campione  dei  nomi 
di  banda  che  si  davano  quei  famosi  compari.  I/uno  si  chiamava  Ar- 
chimede, l'altro  Marionetta  (Slenqwp),  l'altro  TEiemita,  un  quarto 
Platluisenbaard,  che  signitìca  qualche  cosa  un  po'  peggio  di  barbe 
à  poux. 

Pertanto,  e  a  dispetto  di  tanti  eccessi  burleschi,  ciò  che  fa  credere 
che  la  Banda  accademica  non  si  stancò  di  divertirsi  onestamente,  è 
la  compiacenza  mista  d'amor  proprio  nazionale  con  la  quale  i  prece- 
denti autori  ne  hanno  parlato.  È  vero  che.  per  mancanza  generale  di 
documenti  a  questo  riguardo,  noi  non  conosciamo  positivamente  alcun 
pittore  di  grande  rinomanza  che  ne  abbia  fatto  ]iarte.  Un  fatto  sicuro 
concerne  Carle  Dujardin:  ed  è  che  avendo  egli  rifiutato  di  far  parte 
della  Banda,  i  Bentvogels  non  tralasciarono  di  gratitìcarlo  d'un  sopran- 
nome ingiurioso,  Barba  di  becco,  o  Bockebaard. 

È  notevole  che  quanto  Houbraken,  Lebrun  e  Hoogstraaten  ci  hanno 
trasmesso  di  questa  società  si  riferisce  precisamente  all'annata  in  cui 
Carlo  apparve  in  Italia,  durante  il  tardivo  viaggio  di  cui  ho  parlato, 
nel  l(i74.  Queste  narrazioni  vengono  dunque  a  punto  per  fornirci  qual- 
che immagine  di  questa  Roma  fiamminga  ove  s'intratteneva  la  bella 
fiamma  di  cui  abbiam"  visto  l'effetto. 

In  que.^fo  periodo  avanzato  della  scuola,  il  quale  contando  dopo 
Breemberg  e  Poeleinburg,  si  può  classificare  come  terzo,  si  vede  spun- 
tare un  nuovo  ramo  di  cui  bisogna  dire  una  parola. 

Carle  Dujardin  fu  a  Roma  con  un  pittore  di  fama  mediocre,  di 
cui  le  testimonianze  del  tempo  ci  obbligano  pertanto  a  fare  speciale 
conto:  Simone  \'an  der  Does,  eccellente  artista  che  ebbe  una  parte  note- 
vole in  questa  storia.  Sembra  che  nella  scuola  si  fosse  stanchi  dell'uni- 
formità luminosa  di  Claudio:  ma  senza  dubbio  si  era  troppo  attaccati 
a  questo  maestro  per  abbandonare  completamente  la  sua  maniera,  e 
tutto  ciò  che  si  ideò  fu  di  rendere  il  sole  ])iù  l'aro  in  quadri  d'un 
nuovo  genere.  L'ombra  annegò  la  terra,  il  bestiame  e  le  persone,  di 
cui  si  compiacque  far  emergere  soltanto  qualche  estremità  nella  luce 
sempre  inalterabilmente  pura  e  splendida.  Questa  ricerca  degli  efietti 
d'ombra  prese  il  nome  di  maniera  bruna,  bruine  n-Z/ze.  È  una  parola 
questa  che  tolgo  ancora  da  Houbraken.  Questo  autore  riporta  che 
Carlo  e  Van  der  Does  usavano  disputarsi  in  proposito,  il  secondo 
parteggiando  per  la  maniera  oscura,  il  primo  per  la  chiara,  heldere. 
ch'egli  praticava. 

Quest'atfeimazione  serve  di  guida  preziosa  nell'esame  delle  opere 
di  {(uell'epoca.  In  Van  der  Does  si  ritrova  esattamente  la  maniera  ch'io 
ho  descritta  sotto  il  nome  d'oscura,  Forse  egli  ne  fu  rin\entore,  ma 
non  è  pertanto  lui  che  l'ha  meglio  praticata.  Io  credo  esser  il  primo 
a  notare,  come  riesce  evidente  dall'esame,  che  il  grande  maestro  in 
questo  genere  è  stato  Adriano  Van  de  Velde.  Io  cito  a  memoria  i  suoi 
Pastori  del  museo  d'Anversa,  la  sua  Siesta  della  Collezione  Wallace, 
sopratutto  la  Pastorella  del  palazzo  Steengracht  all'Aja.  capolavoro  asso- 
lutamente ammirabile,  così  sorprendente  d'altronde  per  il  paitito  preso 


I   PAESISTI    OLANDESI    A    ROMA  185- 

dell'ombra  che  mi  sembra  che  il  testo  di  Houbraken  ne  faccia  il  com- 
mentario esatto.  Un  altro  pezzo  di  sua  mano  del  medesimo  genere,  a 
Francoforte,  ha  la  data  del  1668,  e  segna  cosi  almeno  il  tempo  in  cui 
questa  maniera  trionfò. 

Tutta  la  breve  vita  di  Van  de  Velde  è  trascorsa  a  Amsterdam. 
Van  der  Does  vi  dimorò  circa  quindici  anni,  nello  stesso  tempo  che 
Du.jardin.  di  cui  i  viaggi  sembrano  aver  seguito  i  suoi.  Insieme  essi 
abitarono  rA.ja,  e  più  tardi  Roma,  opponendo  cosi  le  due  maniere  Tuna 
a  lato  dell'altra. 

Resta  a  stabilire  quanti  seguaci  ebbe  la  maniera  bruna.  Berghem, 
che  per  la  sua  facilità  poteva  assaggiare  tutte  le  varietà  del  genere. 
ha  qualche  volta  voluto  provarsi  in  questa,  ma  con  poco  successo.  Le 
tendenze  di  Du.jardin  son  })iuttosto  opposte.  Il  suo  colore  è  vivo,  splen- 
dente, la  sua  luce  fortissima  è  spiegata.  Non  si  sbaglierà  conside- 
randolo per  questo  lato  come  il  più  energico  di  tutti.  La  Galleria  di 
Arenberg  a  Bruxelles  ha  potuto  osare  di  conservare  il  suo  nome  su 
una  tela  ove  certi  tocchi  fanno  pensar  meno  agli  Olandesi  che  a 
Decamps. 

Tali  sono  gli  ultimi  tratti  della  storia  del  paesaggio  italiano  d'O- 
landa nel  suo  periodo  più  brillante.  Van  de  Velde  mori  nel  1672,  Carlo 
Du.jardin  a  Roma  nel  1678,  Berghem  ad  Amsterdam  nel  1683,  un  anno 
più  tardi  di  Claudio.  Con  lui  finiva  la  gran  voga  e  il  grande  splendore 
della  scuola,  della  quale  restano  ora  a  dire  alcune  applicazioni  parti- 
colari e  il  posteriore  destino. 


IV. 

Per  tema  di  confonder  troppe  cose,  ho  dovuto  lasciar  da  un  lato 
un  genere  estremamente  brillante  e  che  si  rese  assai  popolare,  quan- 
tunque nessun  maestro  eguale  a  quelli  di  cui  ho  parlato  s'incontri 
per  sostenerne  la  gloria:  è  quello  di  quei  porti  di  mare  del  Levante, 
(li  cui  il  primo  modello  rimonta  a  Claudio  stesso,  e  ove  sbarca  il  cor- 
teggio lussuoso  di  qualche  gran  signore  o  di  qualche  fantastica  prin- 
cipessa, ove  dei  vascelli  dalle  prore  ornate  si  rifugiano,  ove  abbor- 
dano scialuppe  sormontate  da  baldacchini,  ove  ogni  sorta  di  gente  si 
affretta  allo  sbarco,  e  intorno  alle  masserizie,  ove  dei  curiosi  si  spar- 
gono per  animare  la  scena  e  renderla  più  magnifica.  A  questi  soggetti 
aggiungo  tutti  quelli  in  cui  l'architettura  e  il  costume  vengono  ad 
aver  un  posto  principale,  diversamente  da  ciò  che  si  vede  nel  tipo 
arcadico  della  scuola,  d'onde  tutti  i  pittori  nominati  fin  qui  derivano: 
vedute  cittadine,  ove,  nell'assenza  di  varietà  campestri,  l'ornamento 
ricercato  dei  palazzi  e  la  piacevole  dispo.sizione  delle  rovine,  sempre 
offerte  al  pittoie  dall'Italia,  sembrano  servir  d'alimento  al  capriccio 
e  alla  fantasia  dell'artista. 

Nel  discredito  in  cui  son  cadute  ai  giorni  nostri  le  idee  di  cui 
tutti  quei  pittori  hanno  vissuto,  e,  se  non  le  opere  dei  più  eccellenti  fra 
essi,  almeno  l'estetica  del  genere,  è  naturale  che  questi,  non  salva- 
guardati da  alcun  merito  eccezionale,  siano  stati  dapprima  dimenti 
cali.  Non  bisogna  però  che  essi  siano  disprezzati. 

Gian  Battista  VVeenix  e  il  francofortese  Lingelbach  fecero  la  for- 
tuna di  questi  soggetti  al  tempo  che  Berghem  viveva,  il  primo  a 
Utrecht,  il   secondo   a   Amsterdam.    Berghem   stesso   non   mancò  di 


186  t   PAESISTI    OLANDESI    A    ROMA 

attingervi,  e  si  vide  in  Harleni  Toiiiniaso  Wyt-lc.  conosciuto  per  i  suoi 
quadri  d'interno,  di  genere  affatto  differente,  provarsi  in  questa  sedu- 
cente maniera. 

Bisogna  confessare  che  né  gli  uni  ne  gli  altri  hanno  portato  nella 
rappresentazione  degli  orizzonti  marini  e  nell" imitazione  delle  super- 
tici  liquide  l'arte  miracolosa  di  Claudio.  Ciò  che  fu  Botli  riguardo  a 
questo  ultimo  nel  genere  del  paesaggio  terrestre,  nessuno  l'è  stato  in 
quello  delle  marine.  Ma  i  primi  piani,  arcliitetture  e  costumi,  sono 
almeno  d'una  maniera  eccellente,  una  delle  più  vive  e  piacenti  che  si 
ahhiano.  mai  adottata  dai  pittori  di  (|uaisiasi  scuola.  Weenix  ha  di- 
pinto i  suoi  personaggi  col  medesimo  pennello  e  colla  stessa  pasta  che 
servirono  alle  figure  di  Both.  opere,  si  dice,  di  suo  fratello  Adriano, 
se  pure  non  dello  stesso  Weenix.  giacché  nulla  impedisce  di  supjjorlo. 

Ad  ogni  modo,  e  checché  la  pedanteria  accumuli  contro  questa 
fantasia  d'oriente  latino,  sbocciata  nel  paese  del  sole,  contro  questo 
favoloso  quadro  degli  Scali  del  Levante,  vago  e  magico  ricordo  dei 
tempi  in  cui  Venezia  regnava  su  l'Arcipelago,  in  cui  i  vascelli  scol- 
piti portavano  in  Europa  le  merci  ambite  e  preziose  delle  Indie,  col 
grave  i)ericolo  d'esser  saccheggiati  dai  Corsari,  in  cui  la  lingua  franca, 
che  si  crede  di  sentir  risuonare  sulle  labbra  di  tutti  quei  facchini,  por- 
tava, conquistando,  il  vocabolario  latino  presso  l'Armeno  e  presso  il 
Turco,  presso  il  Greco,  l'Arabo  e  lo  Schiavo,  è  bello  di  deporre  gli 
scrupoli  e  di  abbandonarci  al  fascino  che  gustavano  fra  il  maestoso 
silenzio  dei  canali  fìanclieggiati  d'alberi  della  Venezia  del  Nord,  in  fondo 
alle  ricche  dimore  del  Keisersgracht,  i  mecenati  traftlcanti  dell'Arcipe- 
lago della  Sonda  e  di  tutti  i  mari  del  globo. 

Mai  abbastanza  si  dirà  quanta  ]iroi>rietà.  cura  e  solidità  la  pit- 
tura olandese  deve  alle  abitudini  di  vita  comoda  ed  opulenta  che  un 
counuercio  straordinariamente  jnospero  manteneva  nei  Paesi  Bassi.  I 
(piadri  eran  oggetti  di  mobiglio.  Bisognava  terminarli  puliti  e  lucci- 
canti, come  la  noce  dei  tavoli  preziosamente  scolpiti,  come  le  argenterie 
rare,  come  i  fiori  di  prezzo  che  vediamo  aggiungervisi.  nelle  conver- 
sazioni di  Terburg  e  di  Metsu.  Ed  é  un  altro  tratto  da  riportarsi  qui, 
quello  dell'uso  che  si  fece  allora  dei  paesaggi  per  decorar  le  stanze. 

Fu  una  moda  simile  a  quella  che  si  vide  in  Francia  al  tempo  di 
Luigi  X\'l  e  del  Direttorio,  alla  quale  gli  ultimi  paesaggi  storici  ser- 
virono. Grandi  pezzi  di  paesaggi  portati  sul  plinto  dei  muri,  incorni- 
ciati nella  decorazione,  vi  tenevano  luogo  di  tappezzeria.  11  poeta  olan- 
dese Veihoek  ha  lasciata  una  lunga  descrizione  in  versi,  accompagnati 
d'elogi,  di  questo  genere  d'ornamenti.  «  Ora.  -  egli  dice  -  tutte  le  pareti 
delle  sale  sono  dipinte  di  artificiose  praterie,  di  verdeggianti  boschetti 
che  un  levar  di  sole  rischiara...  »  Ed  egli  termina  con  l'elogio  del 
pittore,  di  cui  il  nome  dev'esser  citato  (|ui.  a  titolo  di  maestro  del 
genere  :  Pynacker. 

Sembra  veramente  che  queste  decorazioni  non  avessero  atteso 
questo  pittore  per  esistere.  Il  museo  Konstliefde  d'Utrecht  conserva  un 
quadro  di  Poelemburg  che  servi  primamente  da  ornamento  di  cami- 
netto. .Ma  questo  é  ben  poca  cosa  al  jiaiagone  della  voga  di  cui  godette 
Pynacker  e  dell'abbondanza  della  sua  ojiera.  .\  questo  riguardo  egli 
tiene  un  [M)sto  a  parte,  e  assai  ragguardevole,  nella  scuola.  Si  hanno  di 
lui  dei  quadri  estremamente  accurati  e  preziosi,  che  non  testimoniano 
quasi  d'una  scienza  meno  profonda  e  d'uno  spirito  meno  attento  della 
maggioranza  delle  tele  di  Both.  \'e  ne  sono  altri  in  cui  il  tocco  é  prò- 


I    PAESISTI    OLANDESI    A    ROMA  187 

priameiite  decorativo  e  d'un  genere  che  non  si  vede  jiresso  nessun  altro, 
quasi  elle  Pynacker  avesse  dovuto  nascei'e  per  fornire  la  prova  incon- 
testabile delle  attitudini  ornamentali  del  genere. 

Ciò  che  non  bisogna  omettere  qui  è  che  dal  suo  lato  il  ])aesag- 
gio  reinbranesco  non  restava  punto  indietro  per  questo  lato.  Ever- 
dingen  ehbe  in  questo  genere  lo  stesso  ruolo  di  Pynacker:  e  i  due 
jiittoi'i.  nei  quali  si  riassumeva  tutta  l'arte  del  paesaggio  dei  pittori 
d'Olanda,  ebbero  la  gloria  di  dividersi  le  decorazioni  di  cui  abbiam 
detto.  Houbraken  si  lamenta  che  questa  moda  ])assò  presto,  e  il  suo 
malumore  si  esala  in  proposito  contro  la  tappezzeria  d'appartamento 
che  prese  il  posto  di  queste  pittui'e  e  die  egli  chiama  la  peste  del- 
l' arte. 

Ho  detto  che  la  morte  di  Berghem  segna  la  fine  di  tutta  questa 
epoca.  Resta  a  concludeie  questa  storia  con  (|uei  pochi  che  vengono 
al  suo  seguito. 

Un  solo  discepolo  veramente  singolare  gli  sopravvisse.  Non  par- 
liamo dei  Soohnaker,  dei  Van  der  Beni,  e  di  parecchi  altri,  contratfat- 
toii  piuttosto  che  allievi,  che  al  suo  tempo  moltiplicarono  le  fredde 
copie  del  suo  stile.  Ma  \'erscure,  o  Verschuuriiig,  merita  dopo  lui  un 
posto  d'onore  per  il  valore  delle  sue  pitture.  Qualche  quadro  di  Stoop 
segna  anche  un  talento  che  non  devesi  disdegnare.  Goubau,  o  Goebouw. 
portò  il  genere  ad  Amsterdam,  nello  stesso  tempo  che  l'eccellente 
Minderhout  vi  faceva  conoscere  quello  dei  porti  di  mare.  In  questa 
ultima  qualità  di  soggetti  lavorarono  in  quel  tempo  Van  der  Ulft  e 
Begeyn,  il  quale  morì  a  Berlino. 

Si  vede  qui  qualcosa  della  scuola  iu  via  di  trasportarsi  all'estero, 
voglio  dire  fuori  d'Olanda  e  d'Italia,  in  Prussia  passarono  anche  Gott- 
lieb  Glauber,  detto  Mirtillo,  fratello  di  Glauber  detto  Polidoro,  pittore 
rinomato  in  questa  taida  epoca. 

Cosa  notevole,  tutta  (jiiesla  scuola  restò  come  sconosciuta  in  Francia. 
Né  Both.  ne  Berghem.  uè  Van  de  \'elde,  né  Dujardin  appaiono  nelle 
collezioni  di  Luigi  XIV.  Non  si  scelsero  fra  i  maestri  olandesi  che  due 
o  tre  inttori  d'interno.  Quanto  al  paesaggio  al  seguito  di  Paul  Bril  non 
si  conosceva  altri  fuori  di  Cornelio  e  di  Bartolomeo,  come  venivan 
chiamati  Breemberg  e  Poelemburg.  E  quantunque  Claudio  Lorenese 
fosse  apprezzato  come  valeva,  non  si  supi)oneva  cli'egli  avrebbe  avuto 
tanta  posterità,  lo  non  so  se  Glauber  detto  Polidoro,  che  prese  questo 
soprannome  dalla  Banda  accademica  di  Roma,  non  traesse  un  po'  più 
di  rinomanza  dai  suoi  rapporti  con  il  famoso  Lairesse.  che  di]>ingeva 
le  figure  dei  suoi  paesaggi.  Egli  conobbe  Carlo  Dujardin  a  Roma  e 
dipinse  per  il  princijie  d'Orange  a  Soesldyk  uno  degli  ultimi  modelli 
di  paesaggio  decoiativo.  Gli  eccellenti  fratelli  Van  Bloemen  d'Anversa, 
nominati  in  Italia  Standardo,  e  l'Orizzonte,  sembrano  egualmente  non 
■esser  rimasti  del  tidto  sconosciuti. 

Quanto  agli  altri,  furon  necessarii  i  primi  amatori  di  quadri  olan- 
desi, del  xvm  secolo,  come  la  Contessa  di  Verrue  e  Julienne,  per  in- 
trodurre infine  la  loio  reputazione.  La  quale  guadagnò  bentosto  tutto 
ciò  che  l'oblio  dell'età  precedente  aveva  lor  fatto  perdere.  La  voga  di 
Berghem  sopratutto  si  dichiarò  :  e  cpiesto  pittore  divise  con  Wouwerman 
le  predilezioni  del  tempo. 

Non  bisogna  dimenticare  che  Vernet  si  è  formato  in  gran  parte 
sotto  l'intluenza  di  questa  voga,  e  che  il  suo  talento,  d'altronde  scarso 
e  insipido,  non  ha  preso  ciò  che  sembra  tener  da  Claudio  che  per  la 


188  I    PAESISTI    OLANDESI   A    ROMA 

intromissione  di  questi  iiittoii.  i^o  stesso  Hubert  Robert  lia  (iiialcosa 
d'essi. 

Nel  paese  stesso  la  scuola  aveva  cessato  d'esistere.  Standard  morto 
ad  Anversa  nel  1720,  l'Oj'izzonte  morto  a  Roma  nel  ]74^t  ne  segnarono 
l'estremo  termine.  11  fiammingo  Demarne,  nei  galanti  pezzi  cli'egli  di- 
pinse in  Francia  sul  finire  del  secolo,  e  ove  riappare  qualcosa  di  questo 
stile,  separato  com'egli  è  dalla  tradizione  defunta  da  un  intervallo  di 
mezzo  secolo,  non  deve  considerarsi  che  come  autore  d'una  risurre- 
zione effìmera  :  e  le  ultime  vestigia  ne  svanirono  con  gli  insegnamenti 
dei  paesaggi  storici  francesi  dove  si  serbava  ancoia  un  resto  delle  i)ra- 
ticlie  di  Vernet.  Ho  detto  in  qual  modo  ciò  che  nei  gusti,  nelle  abi- 
tudini, nella  moda  perdeva,  si  mutava,  si  abbassava  in  mille  modi, 
continuò  cionondimeno  ad  occujiar  l'immaginazione  popolare.  Succede 
di  queste  vecchie  scuole  come  dei  grandi  avvenimenti  politici,  che  assai 
tempo  dopo  che  le  ultime  conseguenze  ne  sono  compiute,  durano 
ancora,  trasformati,  e  allo  stato  di  leggenda  infine  misconosciuti,  nella 
memoria  ingenua  dei  semplici  e  nella  tradizione  fUittuante  della  società. 

Oggi,  dopo  tante  rivoluzioni  nei  gusti,  tante  reputazioiìi  novelle, 
tante  discussioni,  tanta  estetica,  tanti  saggi  in  ogni  genere  d'un'au- 
dacia  imprevista,  dopo  che  il  terreno  dell'arte,  solcato  e  smosso  in  ogni 
senso,  sembra  indifferente  ad  accettare  qualsivoglia  novità,  e  nessun 
pregiudizio  forse  è  più  capace  di  indurre  uno  spirito  retto  a  giudicare 
contro  il  proprio  gusto,  non  dubitiamo  che  i  pittori  di  cui  abbiamo 
tracciata  la  storia  non  riescano  a  farsi  pregiare  come  per  il  passato. 
Della  profonda,  infinita  natura  essi  ci  conservano  la  gioia,  lo  spazio  e 
la  luce  :  gli  elementi  tutti  delle  loro  opere  conservano,  senza  scapilo  della 
verità  e  della  forza,  quella  compostezza  superiore  che  si  chiama  stile. 

Questo  stile  non  è  un'invenzione  dell'arte,  come  paiecchi  cercano 
di  far  credere,  ma  una  suggestione  della  natura,  propria  incontesta- 
bilmente alle  contrade  di  cui  l'Italia  resta  il  tipo  più  coni|)leto.  Fra 
tutti  i  pittoi'i  ispiratisi  a  questo  paese,  è  ad  essi  che,  tutto  sommato, 
si  ritornerà  di  preferenza.  Essi  ce  ne  serbano  le  impressioni  chiare,  le 
grazie  commoventi,  lo  splendore  sereno,  in  una  lingua  la  cui  flessuo- 
sità compenetra  tutte  le  sfumature  e  fonde  tutte  le  parti:  ammirabile 
esempio  di  Claudio,  di  cui  essi  hanno  in  cento  maniere  lipreso  il  poema, 
variandolo  con  tutte  le  risorse  di  cui  dispone  la  pittura  nei  Paesi  Bassi, 
fusione  unica,  e  forse  senza  esempio,  d'uno  stile  sublime,  d' un'arte 
perfetta,  e  d'una  natura  incompaiabile. 

L.    DlMIEK. 


CARPACCIO 


Yif/ore  Garpacciu  et  hi  Confrérie  de  Sninte  Ursiile  à  Venise,  par  Pompeo  Molmenti 
et  Gustav  Ludwu;.  Florence.  L.  Bemporad  et  fils,  libraires  éditeurs,  1903. 

Fra  i  più  giaiirii  pittori  veneziani  del  Rinascimento,  il  Carpaccio 
seppe,  meglio  d'ogni  altro,  rappresentare  ne'  suoi  quadri,  insieme  coi 
puri  sentimenti  della  religione,  l'espressione  sincera  della  vita  che 
s'agitava  per  le  vie  di  Venezia.  Della  maravigliosa  sua  patria,  oltre 
la  bellezza  del  cielo  e  la  sontuosità  degli  edifìzii.  egli  riproduce  stu- 
pendamente il  lusso  e  la  pompa  dei  costumi,  la  solennità  delle  ceri- 
monie, lo  splendore  delle  feste.  Destano  sempre  la  più  viva  am- 
mirazione, non  ostante  gli  oUraggicbe  il  temilo  e  più  ancora  l'ignoranza 
degli  uomini  hanno  loro  recato,  i  quadri  della  Vita  di  Saìd'  Orsola,  che 
si  conservano  nell'Accademia  di  Venezia.  Quei  quadri,  tra  i  più  antichi 
che  si  conoscano  di  lui  e  nei  quali  si  manifestò  primieramente  tutta 
la  potenza  del  suo  ingegno,  furono  fatti  per  la  cappella  della  Scuola 
di  Sanf  Orsola,  che  fu  soppressa  nel  1810.  Così  come  son  oggi,  essi 
hanno  altezze  diverse,  ma  nella  loro  origine  avevano  tutti  le  stesse 
dimensioni.  Ciò  è  provato  luminosamente,  con  l'aiuto  di  documenti, 
nella  stupenda  pubblicazione  di  cui  diamo  notizia,  la  quale  è  un  pre- 
zioso contributo  non  solo  alla  storia  di  Sant'Orsola  e  alla  vita  del 
Carpaccio,  ma  alla  storia  dell'arte  e  della  vita  di  Venezia  in  quel  soave 
Quattrocento  che  fu  la  splendida  aurora  della  grande  pittura  veneziana. 

Pompeo  Jlolmenti  e  Gustavo  Ludwig,  due  nomi  illustri  e  s'altri 
mai  autorevoli  fra  gli  studiosi  dell'arte  veneziana,  animati  dallo  stesso 
amore  pel  Carpaccio,  hanno  messo  in  comune  i  loro  studi  j  er  dare 
siffatta  pubblicazione.  Essa  non  è  che  un  ]irimo  saggio,  ma  di  singo- 
lare importanza,  sull'opera  del  grande  artista.  Quanto  vi  è  detto  è 
tutto  nuovo  e  confortato  da  documenti,  che  mostrano  come  molte  no- 
tizie e  molti  giudizi  dati  fin  qui  sul  Carpaccio  e  sull'opera  sua  siano 
in  tutto  o  in  parte  erronei.  Del  Carpaccio  il  Molmenti  si  mostrò  fer- 
vido ammiratore  tin  dalla  sua  prima  giovinezza,  scrivendo  di  lui  pa- 
gine ripiene  di  sincero  entusiasmo.  Datosi  ])iù  tardi  alle  ricerche  dili- 
genti e  pazienti,  frutto  delle  quali  fu  la  Storia  di  Venezia  itella  vita 
privata,  conservò  sempre  quell'antica  ammirazione  e  ad  essa  unì  quella 
pel  Tiepolo,  altro  grande  pittore,  col  quale  tramontò  splendidamente  la 
lunga  e  maravigliosa  giornata  della  grande  arte  veneziana,  come  splen- 
didamente era  sorta  col  Carpaccio.  Tanto  sull'uno  che  sull'altro  egli 
compì  ricerche  e  diede  in  luce  documenti  che  ne  fecero  meglio  cono- 
scere la  vita.  Il  Ludwig,  profondo  conoscitor  d'arte  egli  pure,  è  un 
instancabite  ricercatore  d'archivi;  le  sue  conclusioni,  nuove,  acute  e 


190  c:ahi'ac.(:u) 

convincenti,  sull'arie  veneziana,  sono  ormai  accettate  dai  maggiori 
critici  e  storici  dell'arte:  il  Tode,  il  Bode,  il  Cantalamessa.  il  Venturi. 
Nei  cataloghi  delle  Gallerie  d'Europa  le  vecchie  ed  eirate  attiibuzioni 
vengono  corrette  secondo  le  notizie  e  i  documenti  scoperti  da  lui.  Non 
fa  maraviglia  pertanto  se  due  cosi  valenti  studiosi,  mettendo  insieme 
l'opera  loro  intorno  ad  un  argomento  egualmente  caro  ad  entrambi, 
sono  riusciti  a  scoprire  ciò  ciie  altri  prima  di  loro  non  avevan  saputo. 


CARPACCIO.  —  Tosta  ili  (loniin   (Disogno). 


e  ricostruire  ciò  cli'era  stato  distiutto  e  di  cui  non  rimanevano  che 
poche  tracce  appena  visibili. 

Una  vera  e  perfetta  ricostruzione  è  ipiesfa  die  han  fatto  dei  quadri 
della  Vita  di  Sant'Orsola. 

Posto  in  chiaro  ch'essi  oiiginaiiamente  dovevano  aver  avuto  le 
stesse  dimensioni  quanto  alTaltezza  :  poterono  scoprire,  confrontando 
le  misure  presenti  con  le  antiche,  conservate  nelle  note  di  Pietro  Ed- 
wards,  e  consnltando  le  incisioni  del  De  Pian,  fatte  nel  secolo  xviii, 
che  tutti  erano  stati  egualmente  ridotti  di  più  centimetri  nei  lati,  forse 
per  adattarli  ai  locali  dell'Accademia,  dove  fuiono  trasportati  nel  1810. 
Dopo  ciò  parve  loro  importante  di  tentarne  la  ricostruzione,  giovandosi, 
per  le  parti  laterali,  delle  incisioni  del  De  Pian,  e  per  le  superiori,  di 
minute  indicazioni,  potute  rilevare  sull'estremo  limite  del  taglio  e, 
dove  queste  mancavano,  di  motivi  ornamentali  tolti  ai  quadri  medesimi. 


CARPACCIO  191 

Ricostruiti  cosi  i  quadri,  bisognava  ricostruire  la  cappella  di  San- 
t'Orsola qual  era  al  tempo  del  Carpaccio,  per  vedere  il  partito  che 
questi  aveva  saputo  trarre  dalla  forma  e  grandezza  di  essa  pel  numero 
e  la  distribuzione  di  quelli.  L'aspetto  esterno  dell'edilìzio  è  dato  dal- 
l'antico piano  di  Venezia  attribidto  a  Jacopo  dei  Barbari;  quellolin- 
lei'no  gli  autori  desunsero  dalle  indicazioni  prospettiche  dei  quadri 
stessi,  da  quelle  fornite  dai  documenti  e  da  confronti  con  altri  edifizii 


Carpaccio. 


Testa  (li  donna  (.Dise^iuo). 


del  tempo  e  particolarmente  con  ia  chiesa  di  S.  Giacomo  dall'Orio,  ed 
ebbero  la  soddisfazione  di  constatare  che  la  lunghezza  delie  pareti 
laterali  corrispondeva  a  quella  complessiva  dei  quadri,  così  com'essi 
li  avevano  ricostruiti,  dai  quali  erano  ricoperte.  Rifatto,  perlai  modo, 
l'edifìzio,  poterono,  con  l'aiuto  di  preziosi  documenti  dell'Archivio  di 
Stato,  rifarne  la  storia.  Da  questa  risulta  che  la  Scuola  di  Sant'Orsola 
fu  fondata  nel  13CKÌ  e  che  quattr'anni  appresso  fu  cominciata  ad  eri- 
gere, nel  cimitero  dei  monaci  dei  Santi  Giovanni  e  Paolo,  la  cappella, 
che  fu  compiata  nel  1318.  Nella  seconda  Marie(jola  di  detta  Scuola, 
in  data  del  1(>  novembre  1488,  è  parola  di  economie  a  fine  di  abbel- 
lire la  cappella  e,  so]iiattiitto,  di  far  dipingere  /  teleri  de  la  isforia  de 
madona  santa  Orsola,  che  sono  appunto  i  quadri  che  il  Carpaccio 
dipinse,  il  primo  de'  quali  reca  la  data  del  1490,  che  è  altresì  la  prima 
che  si  conosca  della  vita  artistica  di  lui. 


1^2  CARPACCIO 

Egli,  secondo  le  nuove  ed  accurate  indagini  degli  autori,  nacque 
in  Venezia  prima  del  147i2.  da  famiglia  oriunda  di  Torcello,  e  morì 
non  dopo  il  IMò.  Suo  maestro  fu  Lazzaro  Bastiani.  da  altri  erronea- 
mente creduto  suo  discepolo,  del  quale  il  Carpaccio  segui  la  maniera, 
tanto  elle  i  posteri  attribuirono  i  (juadri  deli" uno  alla  giovinezza  del- 
l'altro. II  Bastiani  era  particoiaiiucnte  studioso  della  |)rospeftiva.  la 
qual  dote  si  riscontra  eminente  nel  Carpaccio.  A  torto  alcuni  lian 
voluto  far  derivare  le  prospettive  del  Carpaccio  da  quelle  di  Gentile 
Bellini,  il  quale  se  emerge  per  la  purezza  della  concezione,  pel  colo- 
rito e  il  disegno,  è  spesso  difettoso  nella  prospettiva;  ed  è  poi  tanto 
meno  vero  cbe  il  Carpaccio  abbia  potuto  formare  il  suo  stile,  stu- 
<liando  le  opere  del  Bellini  alla  Scuola  di  S.  Giovanni  Evavgeiista,  in 
(pianto  cbe  egli  possedeva  già  il  suo  stile  caratteristico  nella  Scuola 
(li  Sitnt'Oniola    ])rima  che  quegli  desse  principio  a'  suoi  quadri. 

L'ultimo  dei  quadri  della  Vita  di  SaiifUrsola  ba  la  data  del  141>6; 
altri,  tra  t(uelli  che  non  hanno  data,  possono  esser  stati  eseguiti  poste- 
riormente, ma  non  più  tardi  del  14'.t8.  nel  qual  anno  sorse  una  grave 
contesa,  che  durò  a  lungo,  tra  i  monaci  dei  Santi  Giovanni  e  Paolo 
e  la  Scuola,  cbe  si  disputavano  la  proprietà  della  cappella.  Questa  fu 
ingrandita  nel  Ló()4  e  rifatta  nel  1407.  In  tale  occasione,  per  lasciar 
posto  a  cinque  grandi  tinestre.  ciascuno  dei  quadri  fu  accorciato  nella 
parte  superiore. 

Interpretandone  gli  argomenti,  gli  autori  procedettero  col  pensiero 
che  l'artista  riproduce  esattamente  le  cerimonie,  le  feste  e  i  costumi 
veneziani  del  suo  tempo,  cosicché  le  sue  pitture  non  solamente  evo- 
cano, come  in  una  visione  luminosa,  lo  splendore  dell'antica  vita 
veneziana,  ma  otfiono  altresì  agli  storici  odierni  un  mirabile  commento 
dei  vecchi  documenti  che  descrivono  quelle  cerimonie,  quelle  feste  e 
quei  costumi.  Sapendo  inoltre  che  i  pittori  di  quel  tempo  solevano 
ritrarre  nei  loro  quadri  determinate  persone  e,  particolarmente,  i 
committenti  delle  opere  loro,  cercarono  se  il  Carpaccio  avesse  seguito 
l'usanza  comune,  e  col  mezzo  di  lunghi  e  pazienti  confronti  con  altri 
ritratti,  poterono  identificare  qualcuno  dei  personaggi  effigiati  nei 
quadri  di  Sant'Orsola  e,  fra  gli  altri,  alcuni  membri  della  famiglia 
Loredan  cbe  furoiu)  benefattori  della  Scuola,  a  cui  fecero  dono  dei 
quadri  preziosi  ne'  quali  rivivono.  In  questi  infatti  sono  dipinte  le 
arme  dei  Loredan.  quali  si  vedevano  scolpite  sulle  loro  tombe  nella 
capi)ella  o  nei  luoghi  circostanti. 

Per  far  poi  meglio  comprendere  come  l'opera  insigne  del  Carpaccio 
abbia  potuto  nascere  e  manifestarsi  in  tutta  la  sua  grandezza  e  bel- 
lezza, gli  autori  hanno  cercato  di  ricostruire  con  opportuna  erudizione, 
frutto  in  parte  di  nuove  accurate  ricerche,  l'ambiente  sociale  in  mezzo 
a  cui  quell'opera  sorse.  Il  capitolo  V.  che  descrive  la  vita  intima 
della  Scuola,  è  oltremodo  importante.  Esso  ci  dà  copiose  notizie  sulle 
diverse  specie  di  confraternite  esistenti  a  quel  tempo  in  Venezia,  sui 
loro  legolamenti,  sul  line  cbe  ciascuna  si  proponeva;  ci  fa  conoscere 
gli  usi,  le  insegne,  le  vesti  dei  confratelli;  ci  mostra  gli  oggetti  sacri, 
e  ci  fa  assistere  alle  feste  religiose,  alle  processioni,  ai  trasporti  fu- 
nebri, facendo  rivivere  quel  mondo  così  singolare  di  pietà  sincera 
congiunta  alla  maggior  pompa  esteriore,  che  è  uno  dei  lati  più  carat- 
teristici della  vita  e  dell'arte  di  Venezia. 

La  leggenda  di  Sant'Orsola  e  delle  undicimila  vergini,  formatasi 
a  Colonia,  dove  la  Santa  e  le  sue   compagne   hanno   culto  dal  terzo 


Iiss 


A'i ,  'Cii.z^:; 


vi  :  > 


13 


Voi.  CSa,  Serie  IV  -  IG  luglio  1903. 


194  cARrAccio 

secolo,  andò  via  via  modificandosi  fino  ad  assumere,  nel  secolo  unde- 
cimo.  la  forma  sotto  la  quale  ce  l'ha  rappresentata  il  Carpaccio.  Egli 
s'ispirò  naturalmente  alle  fonti  italiane  nelle  quali,  in  confronto  delle 
nordiche,  che  trattano  l'argomento  con  semplicità  e  gravità,  prevale 
l'elemento  pittoresco:  permettendosi  di  fare  ad  esse  qualche  variante 
di  sua  testa.  La  leggenda,  com'egli  l'ha  rappresentata,  si  può  riassu- 
mere brevemente  cosi:  Gli  ambasciatori  d'Inghilterra  chiedono  al  re 
di  HretaL'ti:i   Im    inniv  di  (>r<i'l;i  -^iin    tiL'Iin   ]>r\  tÌL'Iin  ild   lnri>  <i'jiiore. 


^ 


?t 


'^t.^ 


Dist-guo  Jel  Carpaccio  per  //  soyno  dì  Siiiil  Oraoln. 

Galleria  degli  Uffizi.  Firenze. 


Il  re  di  Bretagna,  consigliatosi  prima  con  Orsola,  acconsente,  purché 
il  re  d'Inghilterra  e  suo  figlio  si  facciano  cristiani,  permettano  che 
quella  vada  in  pellegrinaggio  a  Roma  e  le  procurino  la  compagnia 
di  dieci  nob  li  vergini  donzelle,  seguite,  ciascuna,  da  altre  mille.  Le 
condizioni  sono  accettate.  Orsola,  col  suo  seguito,  intraprende  il  pel- 
legrinaggio, al  quale  s'unisce  anche  il  giovane  principe  d'Inghilterra; 
ma  una  fiera  tempesta  getta  i  naviganti  sulle  rive  di  Colonia.  Quivi 
un  angelo  apjiarisce  in  sogno  ad  Orsola  e  le  ordina  di  recarsi  a  Roma, 
per  ritornare  appresso  a  Colonia,  dov'ella  riceverà  la  corona  del  mar- 
tirio. La  Santa,  in  compagnia  del  fidanzato,  va  a  Roma,  dove  è 
accolta  con  grande  onore  dal  Papa.  Questi,  alla  sua  volta,  fa  un 
sogno  pari  a  quello  di  Orsola  e,  per  comando  celeste,  rinunzia  al 
papato  e  segue  quella  nel  suo  viaggio  di   ritorno.  A  Colonia  i  pelle- 


CARPACCIO 


195 

?  da 


grini    s'abbattono    negli  Unni,  che    allora   assediavano  la  città, 
essi  sono  tntti  barbaramente  trucidati. 

Neil"  interpretazione  di  queste  scene  commoventi,  il  Carpaccio 
ebbe  in  Italia  un  modesto  precursore,  forse  Tommaso  di  Modena,  che 
verso  la  fine  del  xiv  secolo  o  sul  principio  del  xv,  dipinse  in  Treviso- 
nella  chiesa  di  Santa  Margherita,  ora   demolita,  alcuni   affreschi   che 


1  fratelli  Loredtnio. 

Particolare  di  un  quadro  del  Carpaccit 


si  conservano  nel  Museo  di  quella  città.  La  grande  rassomiglianza 
fra  quest'opera  e  quella  del  Carpaccio,  fa  credere  che  questi  l'abbia 
conosciuta,  essendovi  nei  paiticolari  dell'una  e  dell'altra  molte  ana- 
logie che  non  possono  essere  puramente  accidentali;  ma  mentre  quella 
mostra  ancora  l'infanzia  dell'arte,  l'opera  del  Carpaccio  ne  mostia  la 
fiorente  giovinezza. 

Così,  come  son  ora  all'Accademia  di  Venezia,  in  una  sala  etta- 
gona, imitante  l'antica  cappella,  i  quadri  sono  disposti  in  modo  che 
agli  autori  non  pare  il  più  ragionevole  e  tanto  meno  conforme  a  quello 
onde  li  avrebbe  disposti  il  Carpaccio  nella  cappella.  Per  quella  dispo- 


196  CAKPACCIO 

sizione,  la  Storia  incomincia  a  destra  dello  spettalore,  e  il  gran  qnadro 
dell'altare  è  collocato  fra  la  Partenza  dei  fidanzati  e  l'Arrivo  a  Roma, 
mentre  il  suo  posto  naturale  sarebbe  tra  le  Esequie  e  il  Ricevimento 
degli  ambasciatori.  Essi  credono  che  la  Storia  dovrebbe  cominciare  a 
sinistra  di  chi  guarda,  e  ciò  per  varie  ragioni  talmente  serie  e  convin- 
centi che  non  si  può  non  convenire  con  loro.  A  queste  s'aggiunge  il 
fatto  che  nel  primo  dei  quadri,  sotto  il  trono  del  re,  si  scorgono  an- 
cora le  tracce  d'un  taglio,  che  prova  esservi  stata  in  quel  posto  una 
porta,  la  quale,  non  essendo  indicata  nel  piano  attribuito  al  de'  Bar- 
bari, che  mostra  la  parte  esteriore  della  cappella  dal /«/o  dell'Epistola, 
si  deve  necessariamente  supporre  che  s'aprisse  dal  lato  dell' EvaìKjelo. 
Questo  quadro  è  diviso  in  tre  compartimenti,  nel  primo  de'  quali 
a  sinistia,  gli  autori  ravvisano  alcuni  tra  i  membri  della  famiglia 
Loredan,  che  avrebbero  regalato  alla  Scuola  l'opera  magnifica.  11 
taglio  era  nel  secondo  dei  compartimenti,  e  fu  coperto  dalla  pittura 
che  oggi  si  vede,  opera,  forse,  del  Carpaccio  stesso,  dopoché,  nel  1504, 
fu  costruita  una  tribuna  speciale  per  l'altare  e  appianato  il  coro  dove 
la  porta  s'apriva.  Se  non  che  tal  cambiamento  ha  nociuto  al  quadro, 
dacché  non  si  possa  più  comprenderne  la  composizione  e  la  divisione. 
E  questa  una  delle  ragioni  per  le  quali  gli  autori  hanno  insistito  sulla 
ricostruzione  dell'antica  cappella.  In  esso  son  ritratti  Giovanni  Bellini 
e  Lazzaro  Bastiani,  amico  l'uno,  maestro  l'altro  del  Carpaccio. 

11  secondo  de'  quadri  rappresenta  II  Re  di  Bretagna  che  congeda 
gli  ambasciatori.  La  scena  stupenda  riproduce  esattamente  il  7'icevi- 
mento  degli  ambasciatori,  quale  si  faceva  nella  sala  del  Collegio  di 
Venezia.  La  lettera  ch'essi  recavano  al  Doge  era  letta  ad  alta  voce 
dal  segretario  del  Collegio,  e  la  risposta  di  quello  era  dettata  dal  can- 
celliere ad  uno  scrivano.  Particolarmente  caratteristico  per  verità  di 
espressione  e  semplicità  di  esecuzione  è,  nel  quadi'O,  il  gruppo  tbrmato 
dalle  due  figure  di  quest'ultimi;  cosicché  il  popolo  veneziano  chiama 
l'intero  quadro  Lo  scrivano. 

Argomento  del  terzo  è  II  ritorno  degli  ambasciatori  alla  corte  del 
re  inglese.  È  uno  dei  quadri  più  belli  della  serie,  per  la  magnificenza 
degli  edilizi  che  ricordano  quelli  di  Venezia,  ed  è  il  solo  che,  non 
prestandovisi,  non  sia  stato  tagliato  nella  parte  superiore.  In  quella 
vece  fu  abbassato,  e  la  parte  di  esso  che  oltrepassava  il  limite  infe- 
riore degli  altri  quadri,  fu  nascosta  dietro  la  spalliera  del  banco  ch'era 
addossato  alla  parete.  Avesse  voluto  il  cielo  che  la  medesima  sorte 
fosse  toccata  anche  agli  altri!  Nuove  e  preziose  notizie  danno  gli  autori 
sulle  compagnie  della  Calza,  delle  quali  sono  rappresentati  in  questo 
quadro  alcuni  cavalieri. 

11  quarto,  che  ricopriva  in  tutta  la  sua  larghezza  il  muro  dov'era 
"q, porta  d'entrata,  rappresenta  La  partenza  degli  sposi,  ed  è   diviso 
^-<Ìi  die  parti  ineguali  da  uno  stendardo  dipinto.  La  minore  sì  trovava 
f^Miz^a  iJorta,  che  s'apriva  da  un  lato,  verso  la  parete  dclV Evangelo; 
in  a\qgore,  sopra  il  banco  della  confraternita.  Le  due  grandi  torri  che, 
sopra  i,  fj\  maggiore,  s'innalzano  ai  jjiedi  delle  colline,  sono  quelle  di 
ia  maggiy,  ^iindia.  Il  Carpaccio  non  aveva  veduto  né  Luna  né  l'altra, 
nella  partere^otuto  conoscere  la  foi-ma  dal  libro  del  Breydenbach  Pere- 
Rodi  e  di  CantJ'f'w  Sanctam,  stampato  a  Magonza  nel  14S6.  Le  inci- 
^^^  ne  aveva  igrflibro,  fatte  su  disegni  di  Reiiwich,  furono  messe  a 
gi'inatio  in  rendacelo  non  solo  in  questa,  ma  in  altre  delle  sue  opere; 
sioni  di  questo    ^  ripromettono  di  dimostrare  chiaramente,  se,  com'essi 
P'otìfto  dal  Carn' 


CARPACCIO  197 

sperano  e  come  è  da  augurare  vivamente,  avranno  occasione  di  pub- 
blicare un  giorno  tutti  i  loro  studi  sull'opera  completa  di  lui.  Figurano 
in  questa  parte  maggiore  del  quadro  altri  membri  della  famiglia  Loredan. 
Fra  essi  il  giovinetto  vestito  del  ricco  ed  elegante  costume  di  una  delle 
compagnie  della  Calza,  quella  dei  Zardinieri,  è  Antonio  Loredan.  Egli 
tiene  in  mano  un  cartello  a  forma  di  banderuola,  dove  sono  le  iniziali 
di  alcune  parole  che  dovrebbero  significare  come  di  que'  quadri  faccia 
dono  alla  Santa  Nicolò,  il  vecchio  padre  di  lui,  ivi  effigiato  a  poca 
distanza.  Pare  fosse  dapprima  intenzione  dell'artista  di  mettere  il  car- 
tello nelle  mani  del  vecchio,  dacché  vi  si  vegga  l'abbozzo  di  esso  ;  ma 
poi,  forse  per  ragioni  di  convenienza  artistica,  mutò  parere  e  lo  pose  in 
quelle  del  giovane. 

Dei  quadri  seguenti,  che  coprivano  la  parete  dal  lato  dell'Epi- 
stola, il  quinto  e  il  sesto  rappresentavano  il  Sogno  di  Sant'Orsola  e 
l'Arrivo  a  Roma.  Essi,  secondo  gli  autori,  formavano  in  origine  un 
quadro  solo,  diviso  in  due  parti  da  un  filetto  d'oro.  Nell'ingrandi- 
mento della  cappella,  il  dittico  fu,  senza  dubbio,  diviso  in  due,  e  i 
due  quadri  che  ne  risultarono,  furono  separati  l'uno  dall'altro  da 
un  pila.stro.  Narra  la  leggenda  che  Sant'Orsola,  arrivata  a  Colonia, 
vide  in  sogno  un  angelo  che  le  ordinò  di  recarsi  a  Roma.  La  spie- 
gazione del  sogno  era  evidente,  quando  i  due  quadri  formavano  un 
dittico:  divisi,  appariscono  come  due  scene  di.stinte  di  cui  non  si 
vede  la  relazione.  Ciò  è  tanto  vero  che  i  descrittori  del  ciclo  sono 
indotti  nell'errore  di  premettere  al  Sogno  l'Arrivo  a  Roma.  Siffatta 
disposizione,  che  è  un  anacronismo,  hanno  i  quadri  nella  sala  del- 
l'Accademia di  Venezia. 

Neir ylrrn-o  a  Roma  il  fondo  rappresenta  il  Castel  Sant'.Angelo. 
quale  l'avea  fatto  restaurare  Alessandro  VI,  e  poiché  nella  medaglia 
commemorativa  di  quel  restauro  sopra  il  castello  figura  l'angelo,  gli 
autori  hanno  creduto  di  doverlo  aggiungere  al  quadro,  dove  proba- 
bilmente si  vedeva  piima  della  mutilazione. 

La  scena  di  questo  quadro  è  ispirata  da  quella  veneziana  della 
Processione  del  Doge  con  tutto  il  cerimoniale  che  1'  ccompagnava.  Nel 
papa  il  Carpaccio  ritrasse  Alessandro  VI.  attenuandone  i  lineamenti 
sensuali  con  una  tal  quale  rigidezza  ascetica,  e  in  uno  dei  cardinali, 
Domenico  Grimani.  .\ltri  ivi  ritratti  sono  l'ambasciatore  veneziano  Ni- 
colò, Michiel  e  Francesco  .\rzentin.  il  più  autorevole  dei  monsignori  ve- 
neziani, allora  residenti  in  Roma.  11  blasone  di  lui.  ripetuto  su  tutte  le 
bandiere  papali,  mostrerebbe,  secondo  gli  autori,  il  desiderio  del  Car- 
paccio di  vederlo  innalzato  al  soglio  pontetìcale,  indegnamente  occu- 
pato, in  que'  giorni,  dal  Borgia. 

Di  minor  valore  in  confronto  degli  altri  è  il  settimo  quadio,  che 
rappresenta  l'Arrivo  di  Sanf  Orsola  col  Papa  a  Colonia  assediata  dagli 
Unni.  Reca,  col  nome  del  pittore,  la  data  del  settembre  14U().  e  dev'es- 
sere il  primo  che  il  Carpaccio  compose,  com'  è  il  primo  datato  da  lui 
che  si  conosca.  Credono  ragionevolmente  gli  autori  ch'egli  abbia  in- 
cominciato da  esso  per  provarsi  in  una  composizione  di  secondaria, 
importanza.  Ha  piccole  dimensioni,  poiché  quando  fu  composto  cerano 
ancora  lungo  le  pareti  le  tombe  dei  Loredan,  come  risulta  dai  docu- 
menti. Il  Carpaccio  avrebbe  scelto  per  esso  un  piccolo  spazio  libero 
fra  le  tombe,  ed  avendo  già  fatto  il  piano  del  suo  ciclo,  ne  cominciò 
l'esecuzione  con  la  scena,  clie.  nella  disposizione  definitiva  del  e  ciò, 
doveva  occupare  quello  spazio. 


198  CARPACCIO 

L'ultimo  quadro  è  diviso  in  due  parti  ineguali  da  una  colonna 
dipinta.  La  scena  della  maggiore  rapiuesenta  il  martirio  di  SanfOrsola, 
del  papa  e  delle  vergini,  vittime  della  crudeltà  degli  Unni:  ed  è  d'una 
ingenuità  che  commuove.  Vittime  e  carnetici  sono  pieni  di  gentilezza 
negli  atti,  quasi  si  trattasse  non  di  un  massacro,  ma  di   un   giuoco. 


//  pfìlio   del  Re  degli  rimi. 

Particolare  di  un  quadro  del  (.' it*pai-fio.  in  cui  il  pittore   probabilmente  effiiiió  se  stesso. 

La  mite  natura  ond'era  dotalo  avrà,  senza  dubbio,  impedito  all' artista  di 
cominendere  tutto  l'orrore  di  quella  scena.  Tra  le  figure  dei  carnefici  dà 
particolarmente  nell'occhio  quella  d'un  giovane  che,  colpito  dalla  bellezza 
di  Orsola,  lascia  cadere  la  spada.  Secondo  la  leggenda  quel  giovane  è  il 
figlio  del  Re  degli  Unni,  che  innamoratosi  della  Santa,  avrebbe  voluto 
salvarla,  purché  questa  avesse  acconsentito  di  divenire  sua  sposa.  Ella 


UAnrin_.VjHj 


aiaturalmente  ricusò.  La  somiglianza  di  questo  giovane  con  un  ritratto 
d'  ignoto  di  scuola  veneziana  nella  Galleria  degli  Uffizi,  induce  gli 
autori  all'ardita,  ma  non  improbabile,  supposizione  che  in  quel  gio- 
vane il  Carpaccio  abbia  voluta  ritrarre  se  stesso.  Nella  parte  minore 
del  quadro  sono  rappresentali  i  funerali  di  Sant'Orsola. 

Ti'a  i  per.sonaggi  che  seguono  la  bara,  quelli  vestiti  del  costume 
dei  patrizi  veneti  appartengono  alla  famiglia  Loredan.  La  dama  ingi- 
nocchiata in  un  angolo  del  quadro  è  Eugenia  Caotorta  che  fu  moglie 
di  Nicolò  Loredan  ;  il  suo  stemma,  intrecciato  a  quello  del  marito, 
figura  sul  piedistallo  della  colonna.  Ell'era  già  morta  prima  che  il 
i|uadro  fosse  dipinto;  per  ciò  il  pittore  l'avrebbe,  secondo  il  costume, 
rappresentata  in  disparte  dei  viventi  e  con  in  dosso  u)i  abito  reli- 
gioso, quello  delle  pinzochere,  col  quale  ella  avrà  probabilmente  desi- 
derato di  essere  sepolta. 

A  coronare  l'ammirabile  ciclo,  s'innalzava  sull'altare  ì;i  [xila  rap- 
presentante la  glorificazione  di  Sant'Orsola.  Essa  ricopriva  nell'antica 
cap]iel]a  (juasi  tutta  la  parete  di  fondo.  L'architettura  che  vi  è  di])inta 
figura  un  piccolo  tempio,  che  formava,  in  qualche  modo,  la  continua- 
zione della  semplice  navata  della  cappella.  Sant'Orsola  sembra  uscire 
da  un  fascio  di  palme  posto  nel  centro,  mentre  dal  cielo  discende 
l'Eterno  Padre  per  benedirla. 

A  destra  e  a  sinistra  sono  inginocchiate  le  altre  vergini  vestite 
dei  sontuosi  costumi  delle  patrizie  venete,  e  fra  l'una  e  l'altra  si  di- 
stinguono i  visi  del  principe  fidanzato  e  del  papa.  In  un  gruppo  di 
tre  bellissime  vergini,  nella  piima  fila  a  sinistra  dello  spettatole,  l'ar- 
tista avrebbe  ritratto  tre  giovinette  della  casa  Loredan  e  in  quello  di  tre 
uomini  in  piedi  in  un  angolo,  pure  a  sinistra,  il  (jastaldo,  il  vicario 
e  lo  scrivano  della  Scuola,  che  maggiormente  s'erano  adoperati  a  van- 
taggio delle  pitture  destinate  ad  ornare  le  pareti  della  cappella. 

Tale,  in  breve,  è  l'ingegnosa  e  sapiente  ricostruzione  che  il  Molmenti 
e  il  Ludwig  hanno  fatto  dei  quadri  componenti  il  ciclo  meraviglioso, 
restituendo  loro  molte  bellezze  che  il  Carpaccio,  col  suo  senso  decorativo, 
aveva  saputo  cogliere.  Eseguita  mercè  l' opera  accurata  del  inttore 
Silvio  Misinato  sulle  negative  fotografiche  dei  quadri,  essa  è  riprodotta 
stupendamente  nelle  otto  grandi  favole  che  s'aggiungono  al  libro.  11 
quale,  e  pel  contenuto  e  per  essere  magnificamente  stampato  e  adorno 
di  numerose  e  finissime  incisioni,  non  potrà  non  essere  accolto  col 
massimo  favore  da  quanti,  tra  le  mutazioni,  le  contraddizioni  e  le  aber- 
razioni dell'arte  odierna,  serbano  tuttavia  un  culto  a  quel  caro  e  glo- 
rioso Quattiocenlo.  del  quale  il  Carpaccio,  tra  i  grandi  pittori  vene- 
ziani, è  una  delle  piìi  ingenue  e  dolci  espressioni. 

Antonio  Zardo. 


1  CAVATORI  DI  ARDESIA 


I. 

Grigia  è  la  valle  e  son  grigie  le  rupi, 
Su  cui,  brandendo  la  ferrata  mazza, 
Batte  e  s'  affanna  la  gagliarda  razza 
L'ardesia  a  disfaldar  giù  dai  dirupi. 

Rozze  capanne  in  grigia  e  breve  piazza 
Sorgon  dai  fianchi  di  burroni  cupi  : 
Le  cave  aperte  son  bocche  di  lupi: 
Stride  sui  massi  la  rupestre  gazza. 

Non  carezza  d'amante  o  di  fanciullo. 
Non  sorriso  di  elei,  non  ombra  amica, 
Non  lieto  canto  sul  granito  brullo. 

Sola,  dinanzi,  l' orrida  nemica 
Parete  bigia  e  '1  ruinoso  rullo 
ni  pietre  e  la  titanica  fatica. 

11. 

0  dolce  sera,  tu  che  apportatrice 
Sei  di  riposo  a  quelle  membra  stanche. 
Scendi,  t'  affretta,  e  persuadi  airanche 
Lasse  la  pace  e  alibruna  ogni  cornice. 

Rosso  licore  e  coltri  molli  e  bianche 
Essi  non  hanno:  e  pur  non  maletlice 
L'accento  lor,  né  sta  vendicatrice 
L'ira,  che  al  ferro  fa  correr  le  branche. 

Ma  voi  che,  sparse  qui,  croci  di  legno. 
Storia  di  morti  e  culto  di  viventi. 
Siete  d'umanità  1"  unico  segno. 

Dite,  dite  a  chi  passa:  Ai  sofferenti 
Amor,  giustizia  e  di  pii  sensi  il  pegno. 
Oh,  nuovi  raggi,  aurore,  a  queste  genti! 

Chiesa  di  Val  Malenco. 

Alfredo  Baccelli. 


SUL  L' IPPICA 


PENSIERI    E    RICORDI 


Capitolo  I. 

E  già  da  tern|)o  die,  osservando  il  decadimento  e  la  diminuzione 
della  nostra  produzione  equina,  me  ne  vado  rammaricando,  anche 
perchè  tale  fenomeno  è  tanto  più  deplorevole  in  quanto  che  vi  è  stata 
un'epoca  nella  quale  i  cavalli  italiani  erano  rinomati  in  tutta  Europa 
e.  come  ottimi  ripioduttori,  esportati  all'estero. 

Non  è  ceitamente  la  nostra  terra,  che  rimarrà  abbondante  di  pa- 
scoli, finché  non  ci  obblighino  a  distruggerli,  ne  la  mitezza  del  nostro 
clima  che  c'impedisca  di  otteneie  migliori  risultati  dai  nostri  alleva- 
menti del  nobilissimo  animale. 

Le  cause  del  decadimento  sono  molto  e  complesse,  ma,  a  mio  pa- 
rere, tre  sono  le  principalissime,  cioè  la  ristrettezza  di  mezzi  e  l'igno- 
ranza dei  nostri  allevatori,  la  nociva  influenza  dei  proprietari  di  scu- 
derie di  corse  ed  i  mal  scelti  aiuti  ed  incoraggiamenti  dati  dal  Governo. 

L'universale  disagio  dei  proprietari  ha  fatto  si  che  molti  fra  co- 
loro che  allevano  cavalli  han  dovuto  alienare  le  migliori  fattrici,  perchè 
costretti  a  batfei'c  moneta  ni  (pialuni[ue  modo  e  così  per  la  rii)rodu- 
zione  sono  rimaste  soltanto  le  più  scadenti.  Inoltre,  in  Italia,  il  Mini- 
stero della  Guerra,  essendo  il  principale  acquirente  di  cavalli  ed  esi- 
gendo, per  la  rimonta  dell'esercito,  degli  animali  che  abbiano  raggiunto 
una  certa  altezza,  pensiero  predominante  di  tutti  gli  allevatori  è  di- 
ventato quello  di  produrre  grande.  La  loro  ignoranza  poi  li  ha  con- 
dotti ad  usare  mezzi  inadeguati  allo  scopo;  hanno  voluto  ad  ogni  costo 
stalloni  grossi,  senza  preoccuparsi  d'altro,  e  cosi,  da  animali  linfatici 
e  male  costruiti  son  venuti  degli  ippogrifl  e  non  sempre  grandi.  I 
pro|>rietari  di  scuderie  da  corse  poi  non  giurano  che  pel  puro  sangue 
inglese  e  lo  considerano  un  istromento  di  un  giuoco  col  quale  si  pos- 
sono vincere  ingenti  somme,  e  più  facilmente  si  può  distruggere  il 
proprio  patrimonio.  Perciò  hanno  sopratutto  in  mira  di  sviluppare  nel 
cavallo  una  qualità  sola,  la  velocità,  perchè  è  con  questa  che  si  vin- 
cono i  grossi  premi:  né  loro  importa  se  tale  pregio  si  ottenga  anche 
a  detrimento  di  tutti  gli  altri.  Le  loro  teorie  in  ippica  sono  adeguate 
ai  loro  intenti,  ma  spesso  opposte  a  ciò  che  si  richiede  per  produrre 
dei  cavalli  che  rispondano  ai  bisogni  più  comuni  e  veri  del  paese. 
Giacché,  a  tale  effetto,  non  occorrono  animali  soltanto  veloci,  ma  anche 


202  sull'ippica 

robusti,  ben  costruiti,  fortemente  membrati,  resistenti  alle  inleiuperie 
ed  alla  fatica,  insomma  animali  nei  ([uali  vi  sia  un  complesso  di  qua- 
lità differenti,  formanti  una  perfetta  armonia. 

ila  i  pio|)ri('tari  di  scuderie  di  corse  vestono  con  i-icercata  eleganza, 
parlano  perfettamente  il  gergo  sixjrtivo  della  lingua  inglese  e  con  tali 
pregi  si  sono  saputi  impoire  ed  hanno  invaso  tutte  le  Commissioni 
ippiche,  dalle  quali  si  detta  legge.  La  loro  influenza  però  non  ha  ser- 
vito ad  altro  che  a  riempire  i  Depositi  degli  stalloni  governativi  con 
lo  scarto  delle  loro  scuderie  di  corsa,  le  quali  poi  occupano  appena 
il  quinto  posto  fra  quelle  delle  nazioni  più  progredite  nell'ippica.  Perciò 
non  credo  di  errare,  ritenendo  l'opera  loro  funesta  al  miglioramento 
delle  nostre  razze  cavalline. 

Finalmente  il  Governo,  almeno  per  quel  che  riguarda  il  Ministero  del- 
l'Agricoltura e  Commercio,  non  si  è  mai  occupato  delle  fattrici,  dimen- 
tico in  ciò  del  parere  degli  Arabi,  i  ])iù  antichi  e  valenti  fra  gli  allevatori 
di  cavalli,  i  quali  litengono  essere  le  giumente  il  fondamento  j)rimo 
ed  essenziale  di  ogni  buona  razza.  Ma,  se  da  quel  Ministero  nulla  si 
è  fatto  a  tale  scopo,  so  invece  che  qualche  tentativo  è  stato  iniziato 
da  quello  della  Guerra,  che  sta  ricostituendo  l'antica  razza  di  Persano, 
per  fornire,  a  qvianto  si  dice,  delle  buone  fattrici  e  cederle  a  prezzi  di 
favore  ai  privati  allevatori. 

Mi  è  noto  che.  a  questo  intento,  hanno  già  riunito  circa  200  cavalle, 
e  si  son  fatti  jireslare  dal  Ministero  di  Agi-icoltura  e  Commercio  gli 
stalloni.  Giiihilf-  tiglio  di  Mcìtou  e  Jacnhello,  proveniente  dall'antica 
razza  Piacentini,  tutti  e  due  non  certamente  stalloni  di  prini'oi-dine. 
Ma  nulla  di  più  preciso  posso  dire  intorno  alla  ricostituzione  della 
razza  di  Persano,  non  essendo  mai  stato  invitato  a  visitarla,  come 
nemmeno  credo  lo  sia  stato  alcun  altro  intendente  o  amatore  di  cavalli. 

Però,  come  sopra  ho  accennato,  il  Ministero  di  Agricoltura  e  Com- 
mercio si  è  sempre  limitato  all'acquisto  di  stalloni  ed  alla  loro  distri- 
buzione nelle  varie  stazioni  di  monta.  Ma  in  ciò  non  ha  mai  avuto 
un  programma  ben  definito,  non  una  linea  di  condotta  prestabilita  che 
seguisse  con  perseveranza  :  si  è  sempre  jiiegato  a  tutte  le  influenze  che 
si  sono  succedute  ed  incrociate.  Ha  conij^erato  cavalli  da  corsa  per 
ingraziarsi  gli  sportsmen,  ha  acquistato  degli  hacknejjs  per  soddisfare 
gli  allevatori  che  volevano  jirodurre  grande  ed  ha  cominciato  tali  ac- 
quisti quando  siffatti  cavalli  venivano  abbandonati  negli  altri  paesi 
perchè  se  ne  erano  sperimentati  i  pessimi  risultati. 

Per  solleticare  la  fibra  patriottica  si  è  messo  ad  acquistare  cavalli 
comunque  fossero,  purché  nati  in  Italia;  finalmente,  accentuandosi 
ovunque  un  movimento  di  ritorno  ad  ajiprezzare  gli  arabi,  ne  ha  voluti 
avere  anch'esso,  ma  è  andato  a  cercarli  proprio  nel  paese  ove  non  ve 
ne  sono.  Così  ha  formato  mia  miscela  eteroclita,  che  neppure  ha  saputo 
distribuire  con  criteri  razionali,  ma  l'ha  disseminati  nelle  varie  Stazioni 
di  monta,  a  seconda  che  predominavano  influenze,  non  sempre  ili  per- 
sone scientifiche  in  quel  ramo. 

Quest'estate  passata  ho  avuto  occasione  di  vedere  il  Deposito  cen- 
trale di  stalloni  governativi  a  Pisa,  e  sono  rimasto  esterrefatto  dal 
gran  numero  di  rozze  che  vi  ho  trovato.  Tale  vista  mi  ha  confermato 
nell'antico  mio  convincimento  che,  cosi  stando  le  cose,  meglio  sarebbe 
sopj)iimerlo.  Sono  persuaso  che.  se  ciò  avvenisse,  le  nostre  razze  equine 
ritornerebbero  gradatamente  all'antica  loro  ruvidezza,  ma  insieme 
riacquisterebbero  il  tipo,  l'eiiuilibrio  delle  forme,  la  robustezza  e  resi- 


sull"  ippica  203 

stenza  ali"  intemperie  ed  alle  fatiche,  pregi  che  in  passato  ne  formavano 
la  rinomanza. 

L'importazione  degli  stalloni  dall'estero  certo  diminuirebbe,  ma  quei 
pochi  che  ancora  si  acquisterebbero,  giova  sperare,  sarebbero  migliori, 
perchè  comperati  soltanto  da  privati  allevatori,  resi  guardinghi  dal 
propiio  interesse.  In  ogni  caso  è  poco  presumibile,  che  questi,  anche 
mettendoci  della  buona  volontà,  riescano  a  fare  peggio  del  Governo  : 
perciò,  a  mio  parere,  l'azione  governativa  in  questo  ramo,  anziché  gio- 
vare, è  una  delle  principali  cause  del  decadimento  della  nostra  produ- 
zione equina. 

Ma,  come  ebbi  a  dire  in  Senato,  il  proporre  la  soppressione  dei 
Depositi  degli  stalloni  governativi  non  condurrebbe  a  nulla,  perchè 
questi  ormai  formano  una  istituzione,  intorno  alla  quale  si  sono  abbar- 


Stalione  Rajah  di  razza  Kohailan. 

bicati  tanti  e  sì  svariati  interessi,  che  non  vi  è  più  forza  umana  che 
valga  ad  abolirli.  Volendo  essere  pratici  e  giovare  efficacemente  agli 
interessi  dell'ippica,  iiisogna  contentarsi  di  cercare  che  gli  attuali  stal- 
loni vengano  gradatamente  rimpiazzati  da  migliori,  che  gli  acquisti 
siano  fatti  con  criteri  più  razionali,  e  venga  eseguita  con  migliore 
discernimento  la  loro  distribuzione  nelle  varie  Stazioni  di  monta. 

Con  tale  intendimento  ho  spesso  esposte  le  mie  idee,  scrivendo  e 
pronunciando  discorsi,  ma  presto  mi  sono  accorto  che  per  questa  via 
non  approdavo  a  nulla,  giacché  nessuno  leggeva  i  miei  scritti  e  le  mie 
parole  le  portava  via  il  vento.  Allora  ho  tentato  un  altro  mezzo,  quello 
cioè  di  influenzare,  se  era  possibile,  con  privati  colloqui,  quei  ministri 
«he,  per  il  loro  speciale  ufficio,  dovrebbero  interessarsi  più  particolar- 
mente dell'ippica. 

E  perciò  due  anni  or  sono  jio  avuto  un  colloquio  col  generale 
Ponza  di  San  Martino,  allora  ministro  della  Guerra.  Dopo  avergli  esposto 
gli  ottimi  risultati,  che  nella  provincia  romana  si  erano  avuti  in  pas- 
sato dall'incrocio  di  cavalle  indigene  con  stalloni  arabi,  gli  proponevo 
l'acquisto   di   tali  cavalli,    per   adibirli   alla   riproduzione  nell'alleva- 


204  sull'ippica 

mento,  che  il  Ministero  della  Guerra  stava  allora  ripristinando  nella 
tenuta  di  Persane.  Ma,  essendo  cosa  ditticilissima  poterli  acquistare  n 
Oriente  senza  l'appoggio  di  qualche  personaggio  altolocato,  gli  proposi 
di  inviare  un  incaricato,  al  quale  avrei  dato  lettere  di  presentazione 
per  illustri  personaggi  che  avevo  conosciuto  in  Gerusalemme,  quando 
vi  andai  or  sono  alcuni  anni,  e  mediante  rinlUienza  dei  quali  avevo 
potuto  acquistare  un  hello  stallone  dell"  illustre  razza  dei  Kohailan, 
chiamato  Rajah,  che  ho  poi  importato  in  Italia. 

Come  ognun  sa,  sulle  opposte  sponde  del  mar  Morto  o  lago  Asfal- 
tide,  cessa  la  Palestina  e  incominciano  le  stc minate  lande  dell'Arabia, 
ove  tribìi  nomadi  vanno  vagando:  da  li  i  capi  Beduini  scendono  con- 
tinuamente in  Terra  Santa,  per  scortare  le  carovane  o  accompagnare 
privati  viaggiatori,  che  bramino  andar  sicuri  nelle  varie  gite  che  si 
faiiuo  nei  luoghi  ricordati  dalla  Bibbia.  Ma  se  è  tacile  vederli  montati 

sui  loi'o  superbi  destrieri,  altrettanto 
è  difficile  il  persuaderli  a  distarsene 
e.  come  ho  detto,  ciò  non  si  ottiene 
se  non  per  l'intluenza  preponderante 
di  qualche  persona  altolocata:  avevo 
pelò  fiducia  die  l'inviato  del  Governo 
italiano  avrebbe  potuto  otter.erlo  me- 
diante le  mie  lettere. 

Quando  ebbi  finito  di  parlare  mi 
jiaive  che  il  ministro  accogliesse  con 
l)enevolenza  la  mia  proposta;  però, 
era\anio  pi'ossimi  alla  chiusura  del 
Parlamento  e,  non  essendo  l'estate 
stagione  piopizia  per  andare  in  quei 
luoghi,  convenimmo  di  riprendere  i 
nostri  discorsi  ad  ottobre  e  che  allora 
per  parte  del  Ministero  si  sarebbe 
l)resa  una  risoluzione  definitiva. 

Intanto  ebbi  a  recarmi  in  Unghe- 
ria per  miei  piivati  interessi,  e  non 
lungi  dalle  terre  che  vi  possiedo  mi 
capitò  di  visitale  un  l)ellissimo  alle- 
vamento di  cavalli  a  base  di  puro  sangue  arabo,  impiantato  da  cinque 
o  sei  anni  soltanto  dal  signor  Leopoldo  Pfeiffer  di  Orlowniak,  che  lo 
iniziò  acquistando  dall'ora  dismessa  razza  del  re  di  Wiirtemberg  uno 
splendido  stallone,  chiamato  Anmrad,  e  quindici  o  sedici  madri  di 
puro  sangue  arabo. 

Essendo  rimasto  colpito  dalla  bellezza  dei  prodotti  di  questo  nuovo 
allevamento,  mi  proposi  di  segnalarlo  al  nostro  Governo,  perchè  even- 
tualmente vi  avrebbe  potuto  fare  degli  acquisti  altrettanto  buoni  e 
adatti  allo  scopo,  (pianto  quelli  che  si  importano  dilettamente  dal- 
l' Oriente.  Ma.  al  mio  ritorno  in  Roma,  trovai  che  tutto  era  cambiato; 
al  Ministero  della  Guerra  non  si  pensava  ])iìi  ad  acquistare  stalloni 
per  la  razza  di  Persano,  invece  il  generale  Berta  era  stato  mandata 
da  quello  di  Agricoltura  e  Commercio  a  ricercarne,  ma  non  più  in 
Siria  o  in  Palestina,  come  avevo  proposto,  bensì  in  India. 

Rimasi  meravigliato  a  tale  notizia,  né  sapevo  darmi  ragione  del 
perchè  i  cavalli  arabi  si  dovessero  ricercare  nell'India,  anziché  nel 
loro  paese  d'origine. 


Leopoldo  Pfeiffer  di  Orlowniak. 


sull'ippica  "20b 

Nell'estate  passata  poi,  aveiulo  avuto  occasione  di  visitare,  come 
ho  detto,  il  Deposito  centrale  degli  stalloni  governativi  in  Pisa,  mi 
sono  accertato  che  s'era  commesso  un  grave  errore  a  mandare  in 
India,  giacche,  vedendo  i  cavalli  riportati  dal  generale  Berta,  in  nes- 
suno di  essi  potei  riscontrare  i  caratteri  distintivi  dei  nobili  corsieri 
dei  deserti  dell'Arabia.  Pure  mi  fu  detto  che  quelli  erano  i  migliori, 
e  che  i  rimanenti  sparsi  in  diversi  altri  Depositi  erano  di  gran  lunga 
più  scadenti.  Figuriamoci  che  cosa  mai  dovevano  essere! 

La  sfavorevole  impressione  che  ne  ebbi  è  stata  poi  indirettamente 
confermata  dal  Consiglio  ippico,  che  ha  proposto  di  scartarne  alcuni, 
e  dai  privati  allevatori,  che  ne  hanno  rimandati  diversi,  non  stiman- 
doli adatti  per  la  monta. 

Malgrado  tale  insuccesso,  il  Ministero  di  Agricoltura  e  Commercio 
quest'anno  ha  mandato  nuovamente  in  India  per  acquistarvi    cavalli 


StullMiif  Allunali. 

arabi,  e  questa  volta  vi  ha  inviato  il  capitano  Airoldi.  lo  stesso  che 
l'anno  passato  aveva  riportato  dalla  Siria  e  dai  paesi  limitrofi  splen- 
didi animali  acquistati  per  S.  M.  il  Re.  Parrebbe  incomprensibile  che 
il  detto  capitano  sia  stato  inviato  in  India,  anziché  nei  paesi  ove  la 
sua  missione  aveva  incontrato  pieno  successo,  se  non  si  sapesse  che 
spesso  le  decisioni  della  nostra  burocrazia  sono  prive  di  qualimque  senso 
pratico  (1). 

Ma  riprendiamo  il  filo  della  nostra  narrazione.  Quando  nell'otto- 
bre tuoi  ritoinai  a  Roma,  trovai  che  l'on.  Baccelli  aveva  assunto 
il  portafoglio  dell'Agricoltura.  Industria  e  Commercio.  Mi  affrettai  ad 
andarlo  a  visitare  e  gli  segnalai  l'allevamento  del  signor  Pfeiffer,  ove, 
a  mio    parere,    avrebbe    potuto   trovare   eccellenti    stalloni    arabi.    In 


(1)  Questi  eavalli  sono  arrivati  in  Italia  o  stanno  ai  Deposito  di  Santa  Maria 
di  Oapua:  non  avendo  avuto  l'occasione  di  vederli,  non  potrei  dare  su  di  essi 
un  giudizio  mio  personale  ;  però,  da  amici,  mi  è  stato  riferito  che  sian  peggiori 
di  quelli  acquistati  anteriormente  dal  generale  Berta. 


206  sull'ippica 

sej?uito  a  tale  notizia,  l'on.  Baccelli  inviò  il  cav.  Alessandro  Pia- 
centini in  Ungheria,  col  mandato  di  stendere  un  rapporto  intorno 
a  detto  allevamento.  E  tale  relazione,  essendo  riuscita  favorevole, 
vennero  acquistati  poi  due  stalloni,  che  ora  trovansi  al  Deposito  di 
Pisa,  cioè:  Marko,  cavallo  di  tre  anni,  puro-sangue  arabo,  baio  dorato, 
e  Ssamer,  mezzo-sangue  arabo,  baio  ciliegia,  j)ure  di  tre  anni. 

Fermandoci  un  poco  intorno  a  questo  primo  acquisto,  si  potrebbe 
chiedere  perchè  il  signor  Alessandro  Piacentini  abbia  segnalato  per 
la  compra  un  cavallo  di  mezzo  sangue,  sapendosi  che  dai  puro-sangue 
soltanto  si  ha  certezza  di  ottenere  un  tipo  costante  nei  prodotti. 

Ed  eccone  la  ragione:  Tallevamento  del  signor  Pfeilfer  è  ristret- 
tissimo e,  quando  lo  visitò  il  Piacentini,  non  v'era  disponibile  che  un 
puro-sangue;  non  volendosi  limitale  a  questo  solo,  ha  dovuto  per 
forza  segnalare  anche  un  mezzo-sangue.  Però,  quello  che  egli  ha  scelto 
è,  come  suol  dirsi,  cosi  vicino  al  sangue,  ossia  prodotto  da  sì  numerosi 
incroci,  che  vi  ha  ogni  probabilità  che  anche  i  suoi  prodotti  siano 
di  tipo  costante  ugualmente  a  quelli  dei  puro-sangue.  Perciò  non 
potrei  biasimarlo  per  quest'unico  esperimento;  ma  per  l'avvenire  con- 
siglierei sempre,  per  maggior  sicurezza,  di  attenerci  esclusivamente  ai 
puro-sangue. 

Qui  non  sarà  fuor  di  proposito  il  dare  qualche  spiegazione  del 
perchè  un  allevatore  tanto  intelligente,  qual'è  il  Pfeiffer.  si  sia  dato  di 
preferenza  alla  produzione  dei  mezzo-sangue.  Ciò  è  avvenuto  perchè 
non  siamo  stati  noi  soli  a  commettere  degli  errori  in  ippica;  pei  me- 
desimi sono  passate  più  o  meno  tutte  le  altre  nazioni,  ed  anche  l'Un- 
gheria. Lì  pm-e  è  venuta  la  smania  delle  corse;  lì  pure  hanno  creduto 
di  far  bene,  incrociando  le  loro  razze  indigene  con  cavalli  da  corsa. 
Ma  i  cavalli  autoctoni  dell'  Ungheria,  ajipartenendo  per  la  massima 
parte  ai  così  detti  Jiirkcr.  animali  di  molto  lirio.  resistentissinii,  ma  di 
forme  alquanto  sottili,  tale  incrocio  ha  portato  di  conseguenza  un  as- 
sottigliamento eccessivo,  sicché  ora  in  Ungheria  cercano  di  reagire 
contro  gli  errori  commessi,  di  correggere  quanto  hanno  fatto  di  male 
e  nel  momento  la  loro  principale  preoccupazione  è  quella  d'ingrossare 
le  ossa  dei  cavalli.  Credono  di  raggiungere  meglio  lo  scopo,  impiegando 
a  preferenza  stalloni  di  mezzo  sangue  arabo  ;  quindi  tali  riproduttori, 
essendo  più  licercati,  sono  quelli  che  raggiungono  prezzi  ]iiù  elevati, 
e  ciò  spiega  a  sufficienza  perchè  il  signor  Pfeiffer  s"  attenga  special- 
mente a  produrre  tali  cavalli  nel  suo  allevamento.  In  quanto  poi  al 
decidere  se  gli  Ungheresi  abbiano  scelta  la  migliore  via  ]ier  raggiun- 
giungere  l'intento,  non  ho  sufficienti  cognizioni  e  notizie  per  potermi 
pronunciare.    In  ogni  caso  non  spetta  a  me  di  definire  la  questione. 

Credo  che  il  primo  acquisto  fatto  pel  nostro  Governo  in  Ungheria 
abbia  incontrato  favore.  Benché  nessuno  me  ne  abbia  mai  parlato,  lo 
desumo  dall'avere  il  ministro  Baccelli  dato  in  settembre  nuovamente 
incarico  al  Piacentini  di  recarsi  in  quel  paese  per  comperarvi  due  altri 
cavalli.  Questi,  come  ebbe  avuta  tale  commissione,  venne  a  trovarmi 
ed  avemmo  insieme  una  conversazione  sull'argomento,  nella  (piale  gli 
dissi  che  mi  sembrava  inutile  si  recasse  ancora  dal  Pfeiffer.  poiché  già 
conosceva  perfettamente  lo  stato  di  quell'allevamento,  né  aveva  bisogno 
di  ulteriori  notizie  intorno  al  medesimo  e  che  in  ogni  caso,  per  farvi 
dei  nuovi  acquisti,  conveniva  attendere  la  prossima  primavera,  epoca 
nella  quale  soltanto  i  suoi  iniledri  avrebbero  raggiunti  i  tre  anni.  Ed 
aggiunsi  che  in  Ungheria,  oltre  questo,  non  mi  erano  noti  altri  alleva- 


-tali..,,..    ]l,irl,, 


r""wi  I     ■  ■'■' 


é»  m 


■  .,^-^'''-^^''*ésm^ 


Stallone  Szamer. 


■208  sull'ippica 

menti  di  arabi,  fuorché  quello  governativo  di  Babolna;  ina  die  non  vi 
ero  mai  stato,  e  lo  conoscevo  soltanto  di  nome  e  di  reputazione.  Gli 
consigliai  di  andarlo  a  vedere,  benché  avevo  poca  speranza  vi  po- 
tesse riuscire  a  concludere  qualcosa,  perchè  i  prodotti  di  Babolna  non 
sono  destinati  ad  essere  venduti,  bensì  a  sopperire  ai  bisogni  interni 
dell'Ungheria,  e  talvolta  soltanto  se  ne  cedeva  qualcuno  ad  un  Governo 
estero  per  cortesia  internazionale.  Quindi  se  a  Babolna  non  avesse  tro- 
vato il  fatto  suo,  gli  suggerii  di  proseguire  il  suo  viaggio,  recandosi 
nella  Russia  meridionale,  ove  sapevo  che  esistevano  antiche  e  rinomate 
razze  di  cavalli  orientali  appartenenti  ad  alcuni  miei  parenti  ])olacchi. 
Ciò  mi  fece  sorgere  l'idea  di  accompagnarlo  nel  suo  viaggio  e  met- 
tere in  esecuzione  un  antico  progetto,  che  varie  circostanze  mi  ave- 
vano sino  allora  impedito  di  c;)mpiere,  quello  cioè  di  andare  a  far  vi- 
sita a  questi  miei  parenti  nei  loro  possedimenti. 

Credo  che  tale  mia  proposta  sia  stata  riferita  al  Ministero  di  Agri- 
coltura e  Commercio,  peichè  poco  dopo  ricevetti  una  lettera  ufticiale 
del  Ministro,  nella  (juale  mi  invitava  ad  accompagnare  il  Piacentini 

in  Russia  e  a  facilitargli  con  le  mie 
relazioni  1"  esecuzione  del  compito 
che  gli  era  stato  affidato.  Accettai 
il  mandato  offertomi,  e  nei  primi 
dello  scorso  settembre.  Piacentini  ed 
io  partimmo  da  Roma  e  per  la  via 
d'Ancona  e  Fiume  ci  recammo  di- 
rettamente a  Budapest.  Lì,  per  jirima 
cosa,  andammo  dal  signor  dottore 
.1.  l)aritn\i.  ministro  ungherese  per 
l'Agricoltura  ed  il  Commercio:  questi 
ci  dette  il  {ìeruiesso  di  visitare  lo  sta- 
bilimento di  Babolna  e  gentilmente 
ci  concesse  di  acquistarvi  uno  stal- 
lone di  puro  sangue  arabo  per  conto 
del  Governo  italiano. 


11  giorno  appresso,  partivamo  per 
Babolna  e  vi  giungevamo  dopo  tre 
ore  di  ferrovia;  alla  stazione  ci  atten- 
deva una  carrozza,  alla  quale  erano 
attaccati  quattro  bellissimi  cavalli 
orientali  di  quella  razza,  che  in  po- 
chi mimiti  ci  conducevano  al  centro  dello  stabilimento  ippico,  ove 
fummo  ricevuti  dal  direttore,  colonnello  Fadlallah. 

Condotti  da  lui,  visitammo  tutti  i  fabbricati,  comprese  le  vaste 
scuderie,  e  ne  ammirammo  la  razionale  costruzione,  fatta  egregiamente 
ma  con  grande  semplicità  e  senza  alcun  lusso.  11  colon  elio  ci  mostrò 
pure  i  riproduttori  e  la  numerosa  schiera  di  puledri  :  debbo  confes- 
sare che  il  momento  non  era  favorevole  per  visitare  questa  razza, 
essendosi  la  medesima  lasciata  decadere  alquanto,  in  questi  ultimi 
tempi,  per  mancanza  di  buoni  stalloni  arabi.  L'anno  passato  s'eran 
ridotti  ad  averne  uno  solo  e  ancora  questo  arrivato  all'età  di  ventidue 
anni,  il  vecchio  Ohajan,  superbo  esemplare  di  arabo  puro-sangue,  i 
cui  prodotti  però  non  han  sempre  corrisposto  a  quanto  si  poteva  al- 


ili. 


sull'ippica  '209 

tendere  da  lui.  perchè  alcuni  sono  venuti  leggermente  curvi  sulle  gambe 
davanti,  altri  un  poco  sottili  di  stinchi. 

Finalmente  il  Governo  ungherese  si  è  deciso  a  mettere  riparo  a 
tale  inconveniente  e  l' inverno  passato  inviò  quel  direttore  a  fare  nuovi 
acquisti  in  Oriente  :  avendo  in  lui  la  persona  più  adatta  che  per  tale 
incarico  si  potesse  mai  desiderare,  giacché  il  colonnello  Fadlallah  è 
arabo  egli  stesso.  Molti  anni  or  sono,  era  venuto  fanciullo  a  Babolna, 
conducendovi  un  cavallo  acquistato  in  Oriente,  e  da  quel  tempo  vi  è 
sempre  rimasto.  Entrato  nella  milizia,  ne  ha  percorso  tutti  i  gradi  fino 
a  quello  di  colonnello,  ed  in  tale  qualità  è  stato  nominato  direttore  di 
quella  razza  governativa. 

Egli,  dunque,  nell'inverno  lOOl-Wtì  ha  fatto  un  viaggio  in  Oriente, 
trattenendovisi  per  circa  .sei  mesi,  percorrendo  tutto  il  paese  ed  inol- 
trandosi fino  alle  rovine  di  Babilonia  :  ne  ha  potuto  riportare  sei  stal- 
loni e  nove  cavalle  di  puro  sangue  arabo,  il  numero  più  grande  di  codesti 
animali  clie  tutti  in  una  volta  siano  stati  mai  esportati  dall'Oriente. 

Debbo  alla  sua  cortesia  di  aver  iiotuto  procurarmi  le  fotografie  di 
alcuni  dei  più  belli  esemplari  dei  suoi  acquisti,  che  qui  riproduco. 

Osservando  queste  illustrazioni  si  può  rilevare  che,  come  uella 
seconda  figura,  il  tipo  di  quel  cavallo  si  scosta  alquanto  da  quello  che 
abitualmente  presentano  gli  arabi.  Qui  la  statura  dell'animale  è  più 
alta,  le  fattezze  più  robuste  e  la  testa  presenta  una  curva  leggermente 
montonina.  Ho  appreso  dal  colonnello  Fadlallah  che  tali  fattezze  si 
riscontrano  fra  i  cavalli  delle  razze  dell'  interno  dell'Asia  e  trovansi 
più  specialmente  nei  dintorni  di  Babilonia,  mentre  quelli  appartenenti 
alle  tribù  della  costa  hanno  invece  il  tipo  che  siamo  stati  abituati  a 
vedere.  Ebbi  pure  da  quel  Colonnello  molte  altre  interessanti  notizie 
intorno  ai  cavalli,  che  non  mi  accingo  a  riferire,  perchè  ciò  mi  con- 
durrebbe troppo  oltre,  e  mi  farebbe  varcare  gli  stretti  limiti  che  mi 
sono  imposti  in  questo  scritto. 

Però  non  voglio  tacere  quant'egli  rispose  al  quesito  da  me  postogli, 
se  era  opportuno  ricercare  cavalli  arabi  in  India,  risposta  che  autore- 
volmente confermava  l'antico  mio  convincimento  in  proposito. 

«  Vedete.  -  egli  mi  disse  -  non  tutti  i  cavalli  che  provengono  dal- 
l'Arabia sono  discendenti  d'illustie  genealogia  o  appartengono  a  grandi 
famiglie,  come  dicono  gì'  indigeni  e  quali  li  ricerchiamo  per  miglio- 
rare le  nostre  razze.  Che,  anzi,  nel  paese  stesso  di  loro  origine,  codesti 
esemplari  sono  rarissimi.  Non  si  esportano  in  India,  perchè  colà  non 
ve  ne  è  richiesta,  non  essendo  gli  Inglesi  allevatori  di  cavalli  arabi. 

«  Egli  è  vero  che  dall'Arabia  vi  mandano  ogni  anno  numerosissimi 
cavalli,  ma  questi  sono  d'alti-o  genere  :  sono  di  minor  sangue  e  adatti 
a  pronto  servizio,  quali  li  richiedono  gli  ufficiali  delle  guarnigioni  bri- 
tanniche, oppure  piccoli  jjoueys  adatti  pel  giuoco  del  jjolo,  che  è  assai 
in  voga  in  quelle  contrade. 

«  Il  signor  Bliint  è  1'  unico  che  in  Inghilterra  allevi  cavalli  puro- 
sangue» arabo  ;  ma  questi  è  andato  in  Arabia  e  non  già  in  India  per 
acquistarvi  i  capi-stipiti  della  sua  razza  ». 

Avendo  trovato  a  Babolna  un  numero  scarsissimo  di  cavalli  di 
puro  sangue  arabo,  pensammo  che  nelle  condizioni  attuali  sarebbe 
stato  indiscreto  di  sottrarne  anche  una  alle  esuberanti  richieste  dell'in- 
terno dell'Ungheria  stessa,  e  declinammo  la  gentile  concessione.  A  tale 
risoluzione  ci  spinse  anche  Tessere  i  cavalli  di  Babolna  relativamente 
cari,  cosa  del  re^to  giusta,  vista  la  rinomanza  della  loro  provenienza. 

14  Voi.  evi,  Serie  IV  -  16  IngUo  1903 


■^tallone  Sherife. 


Stallone  Kohailan-Rashid. 


stallone  Kmtiur, 


Stallone  Hadxsali-. 


'ali  sull'ippica 

Ma  per  noi  l'acquisto  di  un  solo  cavallo  avrebbe  esaurita  la  te- 
nuissiina  somma  messaci  a  disposizione  dal  Governo,  e  quindi  pren- 
demmo il  divisamento  di  proseguire  il  nostro  viaggio  di  ricerche, 
avviandoci  per  la  Russia  meridionale.  La  nostra  meta  diventava  dunque 
quella  di  arrivare  nelle  terre  dei  miei  parenti  polacchi:  mi  era  noto 
che  le  loro  proprietà  trovavansi  nella  provincia  di  Ukrania,  ma  ne 
ignoravo  l'esatta  ubicazione  e  non  sapevo  se  presentemente  vi  dimo- 
rassero, giacciiè  fra  me  e  loro  esistono  queste  strane  relazioni  :  benché 
in  ottimi  rapporti  d'amicizia,  data  la  lontananza  dei  paesi  nei  quali 
abitiamo,  passano  degli  anni  senza  ch'io  sappia  dove  stiano,'  né  loro 
quel  che  accada  di  me. 

Conoscendoli  poi  poco  amanti  di  scriver  lettere  e  spesso  anche 
negligenti  a  rispondere,  pensai  che  avremmo  perso  inutilmente  il  tempo 
ricercandoli  per  corrispondenza  ed  avremmo  fatto  piìi  presto  recandoci 
direttamente  a  Kiew,  città  capitale  dell' Ukrania,  dove  potevamo  facil- 
mente rintracciarli  a  furia  di  telegrammi;  ciò  che  poi  ci  riuscì  con 
successo. 

Dunque  ritornati  a  Budapest  ci  recammo  subito  all'ufficio  Cook 
per  assumere  informazioni  intorno  al  viaggio  che  avevamo  da  (-om- 
piere.  e  per  prendere  i  biglietti.  Ignaro  della  lunghezza  delle  distanze 
che  si  percorrono  in  Russia,  quale  non  fu  la  mia  sorpresa  apprendendo 
elle  per  andare  da  Pest  a  Kiew  occorievano  48  ore  di  ferrovia!  Ne 
fui  dispiacentissimo,  perchè,  mentre  compio  con  molta  facilità  i  lunghi 
percorsi  in  mare,  quelli  in  ferrovia  mi  sono  in  uggia  ])el  continuo 
scotimento  del  treno  che  mi  urta  i  nervi. 

Ma  ormai  non  v'era  da  indietreggiare  e,  come  volgarmente  si 
dice,  eravamo  in  ballo  e  conveniva  ballare. 

Così  l'il  di  settembre  1903  montavamo  in  vagone  alla  stazione 
nord  di  Budapest  ed  il  giorno  .seguente,  alle  8  di  mattina,  arrivavamo 
a  Leml)erg.  Lì  vi  erano  alcune  ore  di  fermata  ;  ne  piofittammo  per 
andare  a  far  colazione  in  città.  Non  conoscendo  alcuno  che  ci  potesse 
servire  di  guida,  capitammo,  per  indicazione  di  un  facchino  della 
stazione,  in  un  piccolo  albergo  di  quinfordine,  ove  ci  servirono  un 
deplorevole  pasto  del  piìi  pretto  stile  polacco.  Poi  disgrazia  volle  che, 
essendo  differente  l'ora  della  ferrovia  da  quella  della  città,  ci  sbagliammo 
ed  arrivammo  in  ritardo  alla  stazione  quando  il  diretto  delle  due,  che 
dovevamo  prendere,  era  già  partito. 

Convenne  aver  pazienza  ed  aspettare  quello  omnibus  delle  9.50 
di  sera  per  proseguire  il  nostro  viaggio.  Impiegammo  quelle  ore  che 
ci  restavano  di  forzata  permanenza  a  visitare  Lemberg  e  ne  percor- 
remmo le  strade  die  sono  lastricate  con  pessimi  ciottoli,  disagiata- 
mente, parte  a  piedi  e  parte  in  carrozza. 

Malgrado  ciò  non  posso  riferire  molto  intorno  a  quella  città,  né 
saprei  dire  altro  se  non  che  é  prsta  in  una  situazione  pittoresca, 
appare  del  tutto  moderna,  con  grandi  case  costruite  di  recente,  con 
eleganti  botteghe.  Le  sue  larghe  vie  sono  sempre  gremite  di  gente: 
tra  la  folla  si  incontrano  moltissimi  ebrei  con  due  lunghi  boccoli  che 
scendono  dalle  tempia,  e  vestiti  nel  loro  tradizionale  costume  che  asso- 
miglia alle  lunghe  sottane  dei  preti. 

*  * 
Ripreso  il  treno  verso  le  9  di  sera,  alle  3  dopo   mezzanotte  arri- 
vammo alla  frontiera  e  lì  ci  colpì  il  vedere  che  tanto  gli  addetti  alla 
dogana,  quanto  quelli  della  ferrovia  eran  vestiti  in  uniforme  militare, 


slll"  IPPICA  213 

portavano  berretti  bianchi  con  visiere  in  cuoio  ed  avevan  alti  stiva- 
loni: in  Russia  tutto  è  organizzato  militarmente.  Dopo  avere  minu- 
tamente osservato  i  nostri  passaporti  e  guardato  con  attenzione  se  tra 
le  nostre  carte  ed  i  nostri  libri  nascondevansi  scritti  o  stampati  d'in- 
dole sovversiva,  ci  fecero  entrare  in  una  gran  sala  d'aspetto,  fornita 
d'un  eccellente  buffet. 

In  Russia  tutte  le  stazioni,  anche  le  più  piccole,  hanno  di  qiiesti 
buffet,  sempre  allestiti  con  ottime  vivande  :  forniti  di  carne  di  ogni 
specie  e  di  pesci  eccellenti,  provenienti  dai  numerosi  fiumi  che  solcano 
le  terre  del  vasto  Impero,  né  manca  mai  il  caviale,  specialità  russa  per 
eccellenza.  Ma  ciò  che  servono  continuamente  e  che  i  Russi  sorbiscono 
ad  ogni  istante  è  del  thè  senza  latte,  versato  in  bicchieri  di  cristallo, 
messavi  entro  una  fetta  di  limone.  11  bicchiere  di  thè  in  Russia  equi- 
vale alla  tazzettina  di  caffè  dell'Oriente. 

Le  rotaie  delle  ferrovie  russe  sono  a  scartamento  più  largo  delle 
altre:  credo  per  porre  im  impedimento  ad  ogni  possibile  invasione 
dall'estero.  Per  conseguenza  i  loro  vagoni  sono  più  grandi  e  comodi 
di  quelli  del  resto  d'Europa.  Vi  ci  adagiammo  confortevolmente  :  non 
tardammo  a  prendervi  sonno  e  ci  svegliammo  soltanto  alla  levata 
del  sole. 

Appena  fattosi  chiaro  potemmo  vedere  1'  aspetto  del  paese:  tra- 
versavamo la  piccola  Russia,  eravamo  nell'Ukrania,  oi'a  utticialmente 
denominata  Governo  di  Kiew.  Queste  lande  erano  primitivamente  abi- 
tate soltanto  da  nomadi  cosacchi  :  furono  dominate  anticamente  prima 
dai  Lituani,  poi  possedute  a  vicenda  dai  Turchi,  dai  Tartaii.  e  dai 
Polacchi,  e  disputate  da  questi  con  continue  guerre,  finalmente  an- 
nesse alla  Russia,  formano  ora  parte  integrale  di  quell'Impero.  Questo 
paese  deve  la  sua  rinomanza  in  Europa  specialmente  al  i)oema  di 
Byron.  intitolato  Mazeppa,  nel  quale  il  nobile  Lord  canta  le  avven- 
turose gesta  del  protagonista  che,  giovine  paggio,  venne  sorpreso  da 
un  gran  signore  polacco  in  amoroso  colloquio  con  la  di  lui  moglie. 
L'offeso  marito,  per  vendicarsi,  lo  fece  legare,  spogliato  d'ogni  vesti- 
mento, sul  dorso  di  un  indomito  cavallo,  che  lasciato  libero,  traversò 
tutta  la  ste]>pa  con  vertiginosa  corsa  e  non  s'arrestò  che  quando  fu 
giunto  alla  mandria  dalla  quale  traeva  origine  :  lì,  estenuato,  cadde 
morto. 

1  nomadi  cosacchi  sciolsero  Mazeppa,  lo  raccolsero  morente,  colle 
loro  premurose  cure  lo  richiamarono  a  vita,  sicché  egli  presto  ria- 
cquistò le  forze  e  la  salute.  Fissatosi  fra  costoro,  prese  parte  alle  loro 
guerre,  vi  si  segnalò  per  senno  e  coraggio,  tanto  che  finalmente  lo 
elessero  atamanno  o  loro  duce  supremo.  Dopo  molte  vicende,  già  vec- 
chio, si  alleò  al  Re  Carlo  XII  di  Svezia,  ne  seguì  le  imprese,  finché 
ne  condivise  la  disfatta  finale  nella  battaglia  di  Pultawa,  ove  l'eser- 
cito di  quel  monarca  fu  completamente  distrutto  dai  Russi.  Da  questo 
punto  il  nobile  Lord  prende  le  mosse  del  suo  poema,  ed  immagina 
che  il  re  e  Vataiiiuiiiio,  fuggiaschi,  si  siano  ricoverati  sotto  una  quercia 
per  passarvi  la  notte  seguente  al  giorno  della  loro  sconfitta  e  che  Ma- 
zeppa,  onde  alleviare  l'insonnia  di  Carlo  XII.  gli  racconti  questo  dram- 
matico episodio  della  sua  giovinezza. 

Dunque  traversavamo  la  cosi  detta  steppa  che  ho  nominato  più 
sopra,  ma  l'aspetto  attuale  ne  è  ben  diverso  da  quello  che  presentava 
ai  tempi  di  Mazeppa.  Allora  quelF  immensa  pianura  era  coperta  sol- 
tanto da  erba  selvaggia  e  la  percorrevano  nomadi  cosacchi,  spingen- 


(214  sull'ippica 

dovi  le  loro  mandrie  d"  indomiti  cavalli.  Ora  II  vergine  seno  della 
stejipa  è  stato  solcato  ovunque  dall'aratro;  vi  si  produce  quella  enorme 
quantità  di  grano,  che  poi,  caricato  sulle  navi  alla  costa  del  mar  Nero, 
viene  ogni  anno  a  riversarsi  nei  porti  Italiani  per  sopperire  alle  nostre 
deticienze  di  frumento.  Oltre  ai  campi  di  grano,  si  vedono  ancora  vasti 
appezzamenti  lùcopertl  di  barbabietole:  tale  coltura  è  recente,  e  si  è 
estesa  coll'Impianto  di  numerose  fabbriche  di  zuccliero,  la  cui  produ- 
zione ha  subite  gravi  oscillazioni  che  sono  state  causa  di  rapide  for- 
tune, (juanto  d'Ingenti  rovesci. 

La  pianura  della  Russia  meridionale  assomiglia  tanto  a  quella 
dell'Ungheria  quanto  alla  Pampa  argentina.  Soltanto  quella  dell'Un- 
gheria presenta  un  aspetto  assai  meno  grandioso,  essendone  lo  spazio 
molto  più  ristretto,  mentre  la  pianura  Argentina,  per  la  sua  stermi- 
nata grandezza  e  per  l'enorme  larghezza  dei  fiumi  che  la  solcano,  im- 
pressiona assai  più  ed  apparisce  più  maestosa  ancora.  Però  mentre  la 
Pampa  argentina  e  la  pianura  ungherese  sono  assolutamente  livellate 
e  piatte,  la  steppa  russa  è  leggermente  ondidata  ed  In  ciò  assomiglia 
più  alla  campagna  romana.  Ma  le  ondulazioni  della  pianuia  russa  non 
raggiungono  mai  l'elevazione  di  quelle  dell'Agro  romano,  ove  In  certi 
punti  appaiono  vere  colline.  In  tutti  e  due  si  osserva,  meno  alcune 
piccole  selve,  l'istes.sa  totale  assenza  di  piante,  e  per  gli  alberi  gli 
abitanti  della  Piccola  Russia  sembrano  avere  la  stessa  antipatia  che 
hanno  i  nostii  contadini  e  gli  uni  e  gli  altri  danneggiano  e  distruggono 
le  piantagioni  che  qualche  ])roprietario  intiaprendente  tenta  iniziarvi. 

Il  clima  dell'  Ukrania,  è  freddissimo  d' inverno  ed  assai  caldo 
d'estate:  i  cambiamenti  di  temperatura  vi  sono  rapidi,  tantoché  all'an- 
data avemmo  un'atmosfera  tropicale  e  pochi  giorni  dcjpo,  al  ritorno, 
soffiava  una  brezza  rigidissima.  In  questa  vasta  pianura  i  venti  si 
scatenano  furiosamente  e  comuni  vi  sono  gli  uragani  :  verso  la  calata 
del  .sole  assistemmo  allo  spettacolo  pittoresco  e  grandioso  di  uno  di 
questi  uragani  che  s'innalzò  ad  un  tratto.  Le  case  dei  contadini  sem- 
bravan  tremare  sotto  l'azione  del  vento,  i  rari  alberi  piegavano  quasi 
fino  a  terra  le  loro  frondose  cime,  la  jiolvere  che  ric()])re  le  strade  s'in- 
nalzava In  vortici  simili  a  trombe  marine  e  l'eiba.  agitata  dal  vento, 
l)areva  la  superficie  del  mare  quando  s"  increspa  sotto  1"  azione  della 
brezza  mattutina.  Poi  si  fece  notte  e  le  tenebre  ricoprirono  il  maestoso 
spettacolo;  alle  nove  di  sera  giungemmo  alla  stazione  di  Klew.  Li  sa- 
limmo in  un  drojki,  tipico  genere  di  carrozze,  sjteclale  alla  Russia.  Il 
drojki  è  un  legno  bassissimo,  al  quale  è  attaccato  un  solo  cavallo  con 
un  finimento  singolare,  sormontato  da  un  grande  arco  In  legno.  Lo 
giuda  un  cocchiere,  generalmente  grasso,  vestito  con  un  lungo  sopra- 
bito che  pare  una  sottana  e  porta  in  capo  un  cappello  a  cilindro  colle 
falde  arricciate. 

Con  questo  veicolo  traversammo  quasi  Inteiameide  la  città,  tra- 
ballando sui  ciottoli,  onde  le  sue  strade  sono  lastiicate.  finché  ci  fer- 
mammo alla  porta  del  Grami  Hotel.  Entrati  in  (piesf  albergo,  osser- 
vandone la  disposizione  interna,  jiarvemi  che  assomigliasse  a  quella 
degli  Hotels  deirAinerica  meridionale  e  mi  rammentò  sjìecialmente  un 
albergo  della  città  di  Rosario,  ove  ero  sceso  alcuni  anni  or  sono.  Ma 
forse  vedevo  così  soltanto  perchè  l'aspetto  della  steppa  mi  aveva  vi- 
vamente risvegliato  I  ricordi  dell" Argentina. 

Dopo  breve  refezione,  ce  ne  andammo  a  ri])osare.  contenti  di  poter 
dormire  finalmente  in  letti  che  stavano    fermi,    senza   più    sentire    le 


sull'ippica  215 

oscillazioni  della  ferrovia.  Riuianemnio  un  intero  giorno  a  Kiew,  e  lo 
impiegammo  a  visitarne  le  principali  curiosità.  Prima  però  di  riferire 
i  miei  ricordi,  dirò  che  Kiew  è  chiamata  la  madre  di  tutte  le  città  della 
Russia  ed  anche  la  Gerusalemme  di  quell"  Impero,  per  le  sue  cata- 
combe, per  i  suoi  santuari  e  le  sue  chiese,  frequentate  sempre  da  un 
numero  grandissimo  di  pellegrini,  i  quali,  durante  le  feste,  che  hanno 
luogo  dal  lu  luglio  al  15  agosto,  ascendono  talvolta  fino  a  150,(HH). 

Per  chi  volesse  poi  conoscere  in  succinto  la  storia  di  questa  città, 
trascrivo  il  breve  sunto  che  trovasi  nella  Guida  del  Baedeker: 

«  Kiew  fu  fondata  da  Kii,  Chtchek  e  Khoriv,  tre  fratelli  della 
razza  dei  Poliani.  Alla  loro  morte,  Askold  e  Dyr,  variaghi  del  seguito 
di  Rurik,  s'impadronirono  di  quel  piincipato.  Oleg,  successore  di  Ru- 
rik,  occupò  Kiew  neirSSi^,  facendola  sua  capitale.  Ben  presto  vi  fu 
introdotto  il  cristianesimo  e  nel  988  il  principe  fece  battezzare  i  suoi 
popoli.  La  città  fu  assai  importante  sotto  .laroslav  I:  ma,  alla  sua 
morte  (10.Ó4),  cominciò  la  decadenza  e  le  lotte  civili.  Fu  distrutta  quattro 
volte  negli  anni  11B9,  1171.  1^204  e  h24():  quesfultima  dai  Tartari,  che 
poi  ne  furono  cacciati  nel  1320  da  Ghedimin,  principe  lituano. 

«  Nel  1483  di  nuovo  fu  distrutta  dal  Khan  di  Crimea  Mengli-Ghirel; 
ma  presto  venne  rialzata  ed  ottenne  da  Sigismondo  I  il  diritto  di 
Macjdehurrjo  nel  lóKi.  11  metropolita  Michele  Logosa  adottò  l'Unione, 
ma  Pietro  Moghila  ristabili  1'  ortodossia  nel  KiSl.  Kiew  passò  alla 
Russia  nel  1631  ». 

Kiew  è  attualmente  una  città  di  circa  280.()tM»  abitanti;  è  posta  in 
una  situazione  pittoresca,  la  divide  il  fiume  l)nie])r,  che  in  quel  tratto 
ha  una  larghezza  che  varia  da  360  a  530  metri  :  a  destra  s'  innalza 
sopra  una  collina  che  ascende  fino  a  90  metri  sid  livello  del  fiume:  a 
sinistra  si  stende  in  pianura.  È  fortitìcata:  sede  di  un  governatore  di 
provincia,  di  un  generale  comandante  un  corpo  di  aimata  e  di  un 
metropolita,  ha  un'università  ed  una  scuola  politecnica.  È  venerata 
per  le  numerosissime  sue  chiese  e  luoghi  santi;  ma  sopratutto  è  una 
città  eminentemente  commerciale  ed  accentra  il  traffico  di  tutta  la 
Russia  meridionale. 

A  Kiew  adunque  rimanemmo  un  giorno,  e.  condotti  da  un  dome- 
stico di  piazza,  audanunoa  vederne  le  curiosità  più  rimarchevoli.  Inco- 
minciammo dal  museo,  che  è  di  recente  istituzione  ed  è  posto  in  un 
grande  edificio  moderno,  costruito  in  istile  neo-ellenico,  le  cui  sagome 
tentano  arieggiare  quelle  d'un  tempio  greco.  Nelle  sale  del  pianterreno 
sono  disposte  le  collezioiM  di  antichità;  visitandole,  non  vi  ho  tro- 
vato nulla  di  rimarchevole,  interessanti  però  sono  degli  oggetti  sciti, 
provenienti  da  scavi  locali.  Ma,  per  apprezzarli  e  quindi  descriverli, 
converrebbe  avere  studi  speciali  che  non  possiedo.  Nelle  sale  superiori 
poi  vi  è  una  galleria  di  quadri,  la  quale  mi  appari  essere  al  disotto 
del  mediocre. 

Da  li  ])assammo  alle  catacombe  di  Lavra;  la  chiesa  che  vi  sta 
sopra  è  dedicata  all'Assunzione.  Questa  è  di  origine  antichissima,  però 
venne  distrutta  da  un  incendio  nel  1729.  Fu  poi  ricostruita  nello  stile 
barocco,  che  era  di  moda  in  quel  tempo:  all'interno  è  ricchissima  per 
sovrabbondanza  di  decoiazioni  e  di  dorature.  Quando  vi  entrammo  vi 
si  celebrava  una  funzione  sacj-a.  era  gremita  di  pellegrini  e  vi  risuo- 
navano i  canti  rituali  della  liturgia  ortodossa,  i- quali  per  la  bellezza 
della  musica  e  la  perfezione  della  esecuzione  sono  meritamente  rino- 
mati. Sono  un  intreccio  di  sole   voci   senza  accompagnamento   istru- 


!216  sull'ippica 

mentali,  come  nelle  nostre  cappelle  papali  in  Roma.  Tali  canti  hanno 
un  carattere  originale,  un'impronta  prettamente  nazionale,  che,  a  chi 
li  ascolta  per  la  prima  volta,  producono  un  grandissimo  etìetto. 

In  sacrisi ia  incontrammo  un  grosso  frate.  A^estito  di  una  lunga 
sottana  nera,  che,  all'uso  ortodosso,  portava  in  capo  una  mitria  tonda, 
dalla  quale  scendevano  lunghi  veli.  Era  seduto  accanto  ad  un  tavolo 
coperto  di  ceri  :  mediante  una  piccola  oblazione  egli  vi  presenta  una  di 
queste  candele  ;  accesala,  si  scende  a  visitare  le  catacombe.  Queste 
sono  posteriori  di  qualche  secolo  alle  nostre.  1"  introduzione  del  cri- 
stianesimo in  Russia  non  rimontando  oltre  il  9tKt.  Come  le  nostre, 
sono  composte  di  lunghi  cunicoli  scavati  sotteira:  vi  si  ricoveravano 
i  primi  cristiani  in  Russia,  ugualmente  a  quanto  facevano  in  Roma 
molti  anni  jìrima. 

A  fianco  di  questi  cunicoli  vi  sono  delle  celle,  scavale  nel  masso, 
che  servirono  anticamente  per  dimora  ai  romiti  :  ora  vi  hanno  de- 
positali dei  corpi  santi,  racchiusi  entro  sarcofaghi  foderati  di  broccato 
all'interno  e  ricoperti  all'  esterno  di  lamine  d"  argento  con  ornati  la- 
vorati a  shaho.  Fra  le  leggende  che  corrono  intorno  alle  storie  dei 
santi  romiti,  ve  ne  ha  una  singolarissima  ed  è  quella  di  un  tale  Gio- 
vanni, detto  il  Sofferente,  il  quale  pretendono  sia  per  mortificazione 
vissuto  treni' anni  sepolto  sino  al  collo.  Ignoro  quanto  vi  possa  essere 
di  vero  in  tale  racconto  ;  ciò  non  pertanto  vi  mostrano  una  lesta 
sporgente  dal  suolo,  sulla  quale  hanno  messa  una  nùtria  e  ve  la  ad- 
ditano come  quella  del  suddetto  santo,  lasciatovi  semisepolto  nella 
stessa  posizione  in  cui  visse. 

Dalle  catacombe  di  Lavra  ])assammo  a  vedere  il  cimitero  moderno; 
questo  è  posto  in  cima  alla  più  alta  collina  che  si  elevi  entro  la  cinta 
di  Kiew.  11  panorama  che  si  gode  da  quella  elevazione  è  veramente 
splendido;  la  vista  vi  si  estende  non  solo  sull'intera  città,  ma  anche 
sidla  campagna  che  la  circonda  ed  il  Dniepr  appare  come  un  nastro 
d'argento  che  serpeggi  tra  verdi  pianure,  tinche  s'inoltra  entro  l'abi- 
tato e  divide  Kiew  in  due  parti.  Ma,  se  da  quel  cimitero  la  veduta  che 
si  gode  è  rimarchevole,  non  lo  son  punto  le  tombe  ed  i  monumenti 
moderni  che  riempiono  questo  asilo  della  morte. 

Poco  lungi  da  li,  in  mezzo  ad  una  piazza,  vedemmo  una  statua  eque- 
stre di  bronzo  sopra  un  piedistallo  di  granilo,  che  rappresenta  l'ata- 
manno  dei  cosacchi  Bocidan  Klemnitshìj,  che  visse  dal  1593  al  1(557  e 
compì  l'annessione  della  Piccola  Russia  alla  Grande.  Tale  statua  mi  parve 
un'opera  d'arte  rimarchevole.  L'alamanno  vi  è  rappresentato  nell'alto 
di  arrestare  d'un  tratto  il  suo  focoso  destriero,  nelle  cui  sagome  si 
riscontra  tutta  la  nobiltà  del  puro  sangue  arabo.  L'  artista  che  lo  ha 
eseguito  ha  dimostrato  di  essere  un  profondo  conoscitore  della  struttura 
del  cavallo,  dote  che  assai  di  rado  possiedono  gli  scultori  moderni. 
Molte  altre  piazze  sono  pure  ornate  di  statue  monumentali,  rappre- 
sentanti santi  ed  imperatori;  ma  fuori  di  quella  del  citato  duce  dei 
Cosacchi,  nessuna  mi  sembrò  degna  di  nota. 

Santa  Sotia.  la  cattedrale  di  Kiew,  è  insigne  monutnento  di  arte 
bizantina.  In  questa  città  vi  sono  pure  altre  chiese  che  contengono 
interessanti  esem]ilari  di  quello  stile,  e  che  sarebbero  state  meritevoli 
di  esser  vedute  ;  ma  la  ristrettezza  del  tempo  non  ci  consentì  di  visitare 
che  quella  sola,  e  ricordandola  dirò  che  Santa  Sofìa  venne  fatta  inalzare 
dal  duca  di  Russia  Jaroslaiv  e  fu  costruita  dal  1020  al  1037,  che  è  di 
forma  rettangolare,  misura  54  metri  di  lunghezza  e  36  di  larghezza,  è 


sull'ippica  217 

sormontata  nel  centro  da  una  gran  cupola  di  forma  schiacciata  ad  arco 
evaso,  all'esterno  è  dorata  e  la  circondano  molte  altre  piccole  cupole 
che  hanno  la  stessa  sagoma.  AH'  interno,  l'abside  è  decorato  con  un 
gran  mosaico  in  campo  d'oro,  che  ricorda,  per  la  tipica  rigidità  delle 
figure,  le  parti  più  antiche  dei  mosaici  di  S.  Marco  in  Venezia,  nonché 
quelle  delle  chiese  di  Ravenna  ;  sui  lati  vi  sono  soggetti  sacri  dipinti 
all'encausto:  le  figure  di  questi  sono,  per  tipo,  contemporanee  a  quelle 
dei  mosaici.  Dal  peristilio  s'innalza  una  gian  scala,  che  coniluce  a  un 
ballatoio  che  nell'interno  gira  intorno  alla  chiesa;  le  pareti  di  questa 
scala  sono  pure  ricoperte  di  pitture  all'encausto:  ma  è  curioso  notare 
che  le  medesime  non  rappresentano  più  santi  o  soggetti  biblici,  bensì 
vi  sono  etBgiati  balli,  scene  di  caccia  ed  animali  fantastici,  bizzarrie 
che  si  riscontrano  spesso  nelle  produzioni  dell'arte  di  quei  tempi. 

Dalla  basilica  di  Santa  Sofia,  passammo  a  visitare  una  chiesa  tutta 
moderna,  quella  di  S.  Vladimiro,  costruita  dal  1862  al  1896.  È  un 
grande  edificio  fabbricato  con  molto  sfarzo  e  ricchezza  di  materiali: 
all'interno  è  ornato  con  pilastri  e  riquadrature  di  Tnarmi  di  vari  colori. 
Artisti  russi  ne  hanno  decorato  tutti  gli  spazi  lasciati  vuoti,  dipin- 
gendovi santi,  scene  bibliche  e  fatti  storici,  fra  i  (juali  primeggiano 
due  pitture,  in  grandi  riquadri,  le  quali  raffigurano  l'una  la  conver- 
sione di  S.  Vladimiro,  l'altra  il  medesimo  santo  che  assiste  al  batte- 
simo dei  suoi  popoli 

Queste  pitture  mi  fecero  bellissima  impressione:  vi  riscontrai  po- 
tenza di  composizione,  correttezza  nel  disegno  e  molta  grazia  ed 
armonia  nel  colorito.  Mi  apparvero  portar  1"  impronta  di  un  carattere 
affatto  nuovo,  essere  l'espressione  di  un'arte  eminentemente  nazionale. 
Tali  dipinti  sono  una  manifestazione  della  ettlorescenza  che  ora  sta 
germogliando  rigogliosa  jìer  tutta  la  Russia,  tanto  nelle  arti  belle, 
quanto  nella  letteratura  e  nelle  scienze,  sintomo  di  un  potente  risveglio 
intellettuale,  prodromo  di  futiua  trasformazione  della  razza  slava.  Ma, 
se  tali  sintomi  appariscono  chiari,  è  impossibile  misurarne  fin  d'ora 
tutte  le  conseguenze  che  ne  seguiranno  e  distinguere  ciò  che  a  quei 
popoli  serba  l'avvenire. 

Terminata  così  la  visita  dei  più  interessanti  monumenti,  impie- 
gammo il  resto  della  giornata  a  percorrere  in  ogni  senso  le  strade  di 
Kiew,  per  avere  un'  idea  dell'aspetto  generale  della  città. 

Tornato  all'albergo,  trovai  dei  telegrammi,  dai  quali  appresi  che 
tanto  la  mia  zia  Branicka.  quanto  il  mio  cugino  Ladislao,  ci  atten- 
devano con  ansia  e  mi  dicevano  di  recarmi  a  Bieloczerckiew,  piccola 
città,  che  dista  di  tre  ore  di  ferrovia  da  Kiew  e  piesso  alla  quale  sono 
situate  le  loro  proprietà. 

(Conlinna). 

Baldassarre  Odescalchi. 


LE  PIÙ  ANTICHE  CIVILTÀ  DELL'ITALIA 


Chiunque  consideri  quale  fosse  la  scienza  delle  antichità  in  Italia 
«inquant'anni  sono,  deve  riconoscere  che,  nello  studiare  il  problema 
delle  più  antiche  civiltà  del  nostro  paese,  si  trascuravano  allora  ele- 
menti di  capitale  importanza  (1). 

Di  quei  giorni,  tutto  quanto  di  antico  veniva  in  luce  e  non  era 
pregevole  pel  lavoro  o  per  la  materia,  ove  non  fossero  monumenti 
scritti,  si  restituiva  spesso  al  suolo  dal  quale  era  uscito.  Le  cure  degli 
archeologi  erano  ancora  più  che  altro  l'ivolte  a  decorare  i  musei  con 
quanto  di  nobile  e  di  splendido  avevano  prodotto  le  età  gloriose. 
Nessuno  si  dava  pensiero  delle  intere  pagine,  che  della  loio  vita  e 
della  fede  loro  le  più  lontane  generazioni  hanno  stampato  nei  luoghi 
di  abitazione,  o  pietosamente  composte  nei  sepolcri. 

Fu  Bartolomeo  Gastaldi,  il  nostro  rimpianto  collega,  che  nel  1861 
ci  schiuse  nuovi  orizzonti  e  ci  additò  la  via  da  seguire  {"ij.  Fu  quel  forte 
intelletto  di  Gaetano  Chierici,  troppo  presto  rapito  alla  scienza,  che 
c'insegno  poco  dopo  ad  eseguire  gli  scavi  archeologici  con  metodo  rigo- 
rosamente scientifico,  ad  osservare  i  più  minuti  particolari  di  ogni 
fatto,  a  studiare  le  antichità  nelle  loro  relazioni  col  terreno  ove  stanno 
«epolte,  a  distinguere  strato  da  strato,  a  cercare  il  coordinamento  di 
essi  e  a  svolgerli  e  a  interpretarli  come  le  pagine  di  un  libro  (3). 

Una  volta  dimostrato  che  l'Europa  fu  abitata  dall'uomo  innanzi 
all'età  geologica  nostra,  parve  si  avessero  documenti  della  sua  esi- 
stenza in  Italia  tino  dalla  terziaria,  ma  nulla  lo  prova.  Le  ossa  del 
pliocene  di  Colle  del  Vento,  giudicate  umane,  fiuono  liconosciute  di 
un  antropoide;  lo  scheletro  d'uomo  di  Castenedolo,  creduto  pliocenico, 
per  poco  non  è  risorto  con  una  fede  di  nascila  dei  nostri  giorni;  eie 
incisioni  sulle  ossa  di  balenottero  di  Monte  Aperto  sono  rimaste  il 
semplice  testimonio  della  voracità  dei  carcarodonti  (4). 

Talune  delle  nostre  contrade  furono  ad  ogni  modo  fra  le  prime 
in  Europa  percorse  dall'uomo  durante  l'età  quaternaria,  nello  stesso 
tempo    che  la    penisola    iberica,    la  Francia,  le  isole  britanniche  e  il 

il)  Diil  discorso  che  l'A.  tcnm>  iiirAccaileraiii  dei  Lincei  nella  seduta  so- 
lenne del  7  giugno. 

(2)  Nei  Bend.  ci.  Accademia  dei  Lincei  (CI.  di  se.  mor.,  yoI.  XI,  pag.  348  e  segg.), 
ho  ricordato  i  nomi  e  le  opero  dì  coloro  che  qua  e  là  in  Italia  fecero  scoperte 
od  osservazioni  di  speciali  fatti  paletnologici  anteriormente  al  Gastaldi,  a  partire 
dal  secolo  xvi. 

(3)  Gaetano  Chierici  e  la  paletiioìoqia  italiana,  appendice  al  Bull,  di  Paletn. 
Ital.,  1880. 

(4)  Bull,  di  Paletn.  Itul..  a.  TU.  pag.  90:  a.  XIII,  pag.  08;  a  XY,  pag.  89. 


LE    PIÙ    ANTICHE    CIVILTÀ    DELL"IT.\LIA  219 

Belgio.  Soltanto,  al  di  qua  delle  Alpi,  rimasero  dapprincipio  deserte 
le  isole  e  le  pendici  occidentali  dell'Appennino.  Quella  prima  gente 
visse  all'aperto  e  nomade  con  gli  elefanti  e  con  gli  ippopotami.  Innanzi 
però  che  gli  elefanti  fossero  scomparsi,  altre  famiglie  erano  giunte  che 
lavoravano  in  diverso  modo  la  pietra,  e  trovavano  ricovero  nelle  ca- 
verne o  ai  piedi  delle  rupi  che  strapiombano.  Fu  allora  che  altre 
regioni  europee  furono  occupate  dall'uomo,  fra  le  quali  l'occidente 
della  nostra  penisola  e  la  Sicilia  (1). 

D'onde  erano  venute  quelle  famiglie''  Nello  stato  attuale  della 
scienza  si  può  ajipena  arriscliiare  la  ipotesi  che  provenissero  dall'Af- 
frica le  più  antiche,  poiché  dal  Marocco  e  dall'Algeria,  giù  fino  al 
Congo  e  alla  Somalia,  i  primi  prodotti  del  lavoro  umano  sono  quelli 
stessi,  tipici,  che  nell'Europa  occidentale  stanno  sepolti  alla  maggiore 
profondità  nelle  alluvioni  quaternarie.  E  se,  giudicando  dalle  armi  e 
dagli  utensili  di  pietra  rimasti,  vogliamo  figurarci  la  civiltà  che  rap- 
presentano, il  pensiero  corre  a  quello  che  sono  i  nativi  delle  vergini 
foreste  dell'Australia,  a  quello  che  erano  gli  indigeni  della  Tasmania 
prima  che  la  «  Guerra  Nera  »  li  sterminasse. 

Con  la  misera  vita  di  quei  selvaggi  si  apre 'la  storia  dell'Italia, 
se  può  chiamarsi  storia  la  notizia  di  un  passato  al  quale  non  arriva 
la  memoria  dell'unuinità.  Tuttavia  se  di  quelle  anticliissime  genera- 
zioni manca  ogni  ricordo,  ne  rimasero  distinti  a  lungo  i  discendenti, 
lasciandone  il  testimonio  nelle  sedi  occupate.  Cadeva  la  Repubblica 
Romana  e  nell'alto  Veronese,  sui  Alonti  Lessini.  persistevano  semi- 
selvaggi i  tardi  nepoti  delle  prime  famiglie  calate  dalle  Alpi  (2). 

Se  si  ripetesse  o  perduiasse  nell'età  geologica  nostia,  sia  pure 
solo  in  parte,  ciò  che  vi  fu  di  più  caratteristico  nella  i)recedente,  forse 
il  naturalista  non  può  dire  completamente.  11  cultore  dell'archeologia 
primitiva  ad  ogni  modo  non  si  abbandona  certamente  a  un  puro  volo 
della  fantasia  litenendo,  che  mentre  i  primi  abitatori  dell'Occidente 
si  spingevano  fino  ai  fjords  del  Jutland  e  delle  isole  danesi,  presen- 
tando sul  Baltico  il  quadro  della  vita  attuale  dei  Fuegini,  e  turbe  di 
Iperborei,  seguendo  il  renne  attraverso  il  Belgio  e  la  Francia,  arriva- 
vano ai  Pirenei  e  alle  Alpi,  l'Italia  si  allietava  di  una  nuova  luce.  A 
dei  selvaggi,  non  dissimili  nella  vita  dall'Australiano,  si  sovrappose 
una  immigrazione  che  occupò  non  il  solo  continente,  ma  pur  le  isole, 
e  che  nella  scala  della  civiltà  uguagliava  sotto  vari  aspetti  la  ftimiglia 
polinesiana  quale  apparve  agli  esploratori  olandesi. 

S'inizia  allora  l'età  che  diciamo  neolitica  (3).  Sui  piani  e  sui  colli, 
dalle  contrade  lombarde  alle  spiaggie  del  .Ionio,  sorgono  villaggi  di 
capanne  circolari  mezzo  sepolte  nel  terreno,  abitate  da  famiglie  dedite 
alla  pastorizia.  Fra  i  monti  invece  si  riparano  anche  nelle  caverne, 
t'he  però  più  spesso  occupano  per  asilo  dei  morti  che  per  ricovero  dei 
vivi.  Fabbricano  con  la  pietra  armi  ed  utensili,  ma  sono  levigati  e  di 


(1 1  In  Itiilia  il  materiale  paleolitico  presenta  solo  i  tipi  detti  chelléen  o  inoii- 
stérii'ii  chf  caratterizzano  distinti  giacimenti,  il  secondo  dei  qnali  è  meno  antico 
dell'altro  ed  assai  più  diffuso.  Cfr.  Bull  di  Paletn.  Hai.,  a  XXVIII,  pag.  15S  e  segg. 

(2)  Bull,  di  laletn.  Hai.,  a.  XVI.  pag.  (51. 

(3)  Per  quello  che  risguarda  l'età  neolitica  e  l'eneolitica,  che  ne  è  la  conti, 
nuazione.  reggasi  l'importante  lavoro  del  Colini.  //  sepolcreto  di  Remedello,  che 
si  pubblica  nel  Bull,  di  Paletn.  Ital..  a  partire  dalla.  XVI  :  in  esso  sono  pure 
citate  le  molte  pubblicazioni  italiane  e  straniere  relative  alle  dette  età. 


2i^0  LE   Pir    ANTICHE    CIVILTÀ    DELL'ITALIA 

rocce  non  tutte  forse  del  paese.  Dove  poi,  nelle  inchistrie.  palesano 
una  singolare  eccellenza,  gli  è  nella  ceramica,  sorprendente  per  la 
tecnica,  per  le  forme  e  per  le  decorazioni. 

Con  quelle  famiglie  appariscono  i  primi  sepolcri.  11  rito  funebre 
è  quello  della  inumazione,  e  al  cadavere,  deposto  come  nomo  che 
riposi  sul  fianco  piegate  le  ginocchia,  o  nella  attitudine  del  feto,  quasi 
per  esprimere  la  fede  in  una  risurrezione,  si  associa  quanto  Festinto 
aveva  di  necessario  in  vita.  In  alcuni  casi  si  tumulavano  le  ossa 
scarnite,  come  fra  i  Taitani  e  fra  i  nativi  delle  Andaman.  applicando 
talora  alla  faccia  del  cranio  la  maschera  funebre,  segno  di  riconosci- 
mento e  di  onore  nel  mondo  degli  spiriti.  Talvolta  i  superstiti  tratte- 
nevano un  osso  in  ricordo  del  morto,  se  non  per  un  concetto  animi- 
stico, oppure,  se  egli  in  vita  aveva  subita  la  trapanazione  flel  cianio. 
per  guarire  da  quella  che  fu  detta  «  la  malattia  sacra  »,  si  tagliavano 
rotelle  craniali  quali  talismani  che  ne  preservassero  i  vivi. 

Né  solo  questo  ci  rivelano  i  pi'imi  sepolcri.  Nelle  pianure  si  afli- 
davano  gli  estinti  alla  nuda  terra  e  tra  i  monti  alle  caverne,  ma  dove 
era  possibile  si  scavavano  le  tombe  nelle  rupi,  costruendosi  cosi  il 
più  antico  monumento  del  continente  europeo.  Per  solito  somigliano 
a  un  angusto  forno,  e  vi  si  entra  scendendo  ali" ingresso  per  un  breve 
declive  o  per  un  pozzetto  cilindrico.  In  pianta  disegnano  la  figura 
della  casa,  e  pel  garbo  delle  curve,  per  la  finezza  della  scarpellatura. 
sono  quanto  di  più  iierfetto  nel  genere  si  possa  eseguire  con  l'ascia 
di  pietra. 

Gli  avanzi  di  quella  lontana  età  certamente  non  attestano  un  pro- 
gresso locale  dello  stato  anteriore,  né  accennano  ad  una  civiltà  len- 
tamente introdottasi.  Qua  e  là.  con  ciò  che  avevano  di  proprio, 
restavano  i  vecchi  abitatoli,  e  in  mezzo  ad  essi  apparvero  improvvisa- 
mente usi  e  costumi,  arti  e  industrie  senza  relazione  col  passato.  La 
scena  mutò  d"un  tratto,  sicché  nel  quadro  abbiamo  la  immagine  di 
una  nuova  immigrazione,  della  quale  il  cultore  dell'archeologia  pri- 
mitiva non  può  pronunziare  il  nome.  Egli  vi  dice  soltanto  che  dovette 
approdare  alle  spiaggie  meridionali,  se  fra  gli  oggetti  di  ornamento, 
portati  con  sé  e  abbandonati  nel  suolo  delle  capanne  e  delle  caverne, 
lasciò  i  gusci  del  mollusco  delle  perle  e  della  Mitra  oleacea.  Sono 
miseri  avanzi,  ma  rispondono  eloquentemente  a  chi  non  disdegni  di 
interrogarli  e  svelano  le  vie  dell'Oriente.  Né  deve  sembrale  inverosimile 
la  traversata  del  Mediterraneo  sopra  dei  canotti  nell'età  della  pietra. 
In  condizioni  uguali  i  Polinesiani  si  portarono  sul  Pacifico,  distenden- 
dosi dalla  Nuova  Zelanda,  alle  Sandwich  e  all'isola  di  Pasqua,  un 
triangolo  di  circa  05  gradi  per  85,  e  soltanto  quelli  delle  Isole  della 
Società,  al  secondo  viaggio  di  Cook,  avevano  una  fiotta  di  17(lU  ca- 
notti con  08,000  uomini  di  equipaggio. 

L'Asia  Anteriore  come  la  Minore,  le  isole  dell'Egeo  come  l'Egitto, 
ebbero  la  civiltà  neolitica  pari  alla  nostra  :  la  stessa  acropoli  di  Atene 
ha  dato  di  recente  un  sepolcro  che  vi  appartiene:  ma  di  tale  civiltà 
si  ignora  ancora  la  sorgente,  né  sappiamo  da  qual  punto  partissero 
coloro  che  la  portarono  nell'Occidente.  Questo  é  certo,  che  non  solo 
le  famiglie  stabilitesi  in  Italia,  ma  pur  le  altre  spintesi  ai  lidi  più 
lontani  parteciparono  ai  progressi  di  quelle  rimaste  oltre  il  Mediter- 
raneo orientale,  e  al  pari  di  esse  impararono  a  fondere  il  rame. 

L'introduzione  dell'uso  del  rame  segnò  la  fine  della  pura  età  neo- 
litica, ma    non  la  chiuse    d'un  tratto.   Non  fu   che   assai  lentamente 


LE    PIÙ    ANTICHE   CIVILTÀ    DELL  "ITALIA  221 

che  le  primitive  condizioni  ebbero  a  trasformarsi,  tanto  lentamente 
«he  oggi  ancora,  in  Italia  come  altrove  nell'Europa,  rimane  un  filo 
che  ci  lega  a  quel  remotissimo  passato.  L'errore  popolare  di  attri- 
buire alle  armi  di  pietra  una  origine  celeste,  credendole  generate  dal 
fulmine,  è  la  persistenza  di  una  superstizione  che  sale  alla  piìi  alta 
antichità  italica  e  greca,  e  anche  allora  non  era  che  l'eco  di  una  ar- 
monia morta  da  secoli  (1). 

Non  è  possibile  dire  in  breve  quello  che  divenisse  la  civiltà  neo- 
litica col  nascere  della  metallotecnica,  quali  i  rapporti  che  stringevano 
l'uno  all'altro  i  vari  centri  abitati  su  tanta  estensione  di  paese.  Gli  usi 
e  i  costumi  del  jieriodo  anteriore  non  mutarono  sostanzialmente,  ma 
ebbero  maggiore  sviluppo  le  industrie,  specie  la  ceramica,  si  molti- 
plicarono i  tipi  delle  armi  e  degli  utensili  di  pietra  del  più  squisito 
lavoro,  e  si  spandevano  per  ogni  dove  prodotti  di  contrade  dispara- 
tissime.  Arrivava  nella  Lombardia  l'argento  lavorato  dalla  penisola 
iberica,  e  nell'Italia  media  e  nella  inferiore  alle  armi  del  paese  se  ne 
aggiungevano  altre,  forse  originarie  delle  sponde  del  Nilo,  quali  si 
rinvennero  ad  Ilio  e  nell'Alto  Egitto. 

11  segno  più  solenne  peraltro  della  civiltà  che  si  svolgeva  allora 
nel  bacino  del  Mediterraneo,  e  fino  all'estremo  Occidente  e  al  Nord, 
l'abbiamo  nello  sviluppo  delle  grotte  funerarie  scavate  nelle  rupi  e 
nei  monumenti  megalitici,  la  cui  semplicità  misteriosa  e  la  rozza 
g:randiosità  colpiscono  tanto  più  vivamente  la  nostra  immaginazione, 
in  quanto  manca  la  speranza  di  svelarne  il  significato. 

Erano  templi  all'aperto  quegli  enormi  circoli  di  monoliti"?  Erano 
■colossali  felici,  o  dovevano  rammentare  gesta  gloriose  quegli  informi 
blocchi  che  isolati  o  disposti  in  file  si  levano  al  cielo?  La  storia  loro 
è  perduta,  e  sappiamo  soltanto  che  si  collegano  coi  dolmen,  gigan- 
teschi sepolcri  che  per  la  suppellettile  e  pei  rito  funebre  hanno  lo 
stesso  valoie  delle  grotte  scavate  nelle  rupi.  Una  grotta  aitificiale 
•eneolitica  dell'Italia  ])arla  il  medesimo  linguaggio  di  un  dolmen  del- 
l'Andalusia, della  Bretagna  o  della  Drenthe.  E  qua  e  là  sulle  loro 
pareti  sono  talvolta  scolpiti  i  segni  che  non  solo  le  industrie,  ma 
pur  le  idee  religiose  legavano  quelle  antiche  popolazioni  dell'Europa 
alle  più  lontane  dell'Asia.  Le  figure  dell'ascia  iramanicata  e  della 
donna  ignuda,  rappresentate  in  alcuni  dolmen  e  in  alcune  grotte  del- 
l'Occidente, sono  il  riflesso  di  uguali  simboli  venerati  fino  nell'Asia 
Anteriore. 

1  monumenti  megalitici  e  le  grotte  artificiali,  nel  loro  insieme, 
formano  una  corona  die  chiude  l'Europa  centrale,  nella  quale  si  può 
■dire  non  siavene  traccia,  tanto  clie  bisogna  correre  dalle  sponde  del- 
l'Elba alla  Crimea  e  al  Caucaso  prima  di  incontrare  di  nuovo  i  dol- 
men. Del  fatto  sono  state  ]iroposte  le  più  disparate  interpretazioni, 
ma  non  è  forse  diffìcile  di  spiegarlo,  ove  si  tenga  conto  di  un-  note- 
role  avvenimento  che  nello  stesso  tempo  si  compiva  nell'Europa 
centrale. 

Dal  Wiirtemberg  e  dalla  Savoia  alla  Baviera  ed  all'Austria  s'im- 
piantavano allora  entro  i  laghi  le  prime  stazioni  lacustri.  Pur  queste 
•ci  rivelano  un  popolo  che  associava  dapprincipio  l'ascia  piatta  di  rame 
agli  strumenti  di  pietra,  sicché  non  è  dubbia  la  sua  ajiparizione  al 
termine  dell'età  neolitica,  ma    nulla  ci  autorizza    a  credere  che  fosse 

(1)  Cartailhac,  L'àffe  de  pierre  dans  les  souvenirs  et  sBperstitions  populaires. 


222  l.E    Pir    ANTICHE   CIVILTÀ    DELL  ITALIA 

uscito  dalle  famiglie  che  già  occupavano  il  nostro  continente.  Esso 
non  vive  in  capanne  sparse,  né  in  caverne,  bensì  in  centri  limitati  e 
popolosi  che  hanno  carattere  di  città.  Inferiore  ai  vecciii  abitatori 
nella  ceramica,  li  avanza  nella  copia  e  nella  varietà  di  altre  indu- 
strie. Possiede  numerosi  armenti,  e  nei  terreni  circostanti  coltiva  su 
vasta  scala  il  lino  e  il  grano.  Non  lo  eccita  il  pensiero  di  eternare 
in  alcun  modo  la  sua  memoria  :  certo  egli  non  ha  scolpito  sulle  rupi 
il  segno  del  suo  passaggio,  né  ha  inalzata  ]>ur  solo  una  pietra  che 
lo  rammentasse  alle  generazioni  future.  La  sua  storia  è  scritta  sol- 
tanto nei  ritìuti  della  vita  quotidiana,  oggi  coperti  dalle  acque  o 
dalle  torbaie. 

11  mutarsi  improvviso  della  scena  nel  cuore  dell"  Europa  rivela 
senza  dubbio  una  nuova  gente,  la  quale  do\  ette  arrivare  per  la  Valle 
del  Danubio,  invitata  dalla  lunga  distesa  di  laghi.  All'  intorno  rima- 
sero indipendenti  le  popolazioni  antiche,  e  furono  queste  che  lascia- 
rono il  testimonio  della  potenza  loro  non  interrotta  nei  monumenti 
megalitici  (1)  che.  specie  al  Nord,  si  continuarono  ad  inalzare  per 
lungo  tempo,  e  del  cui  signiticafo  rimase  traccia  fin  tardi  nel  culto 
alle  pietre,  fieramente  colpito  da  editti  di  Childeberto.  Carlomanno, 
Caiiomagno  e  da  fulmini  dei  Concili  di  Arles,  Tours,  Nantes  e  Toledo  (3). 
Ma  la  barriera  delle  Alpi  non  limitò  a  sud  il  dominio  dei  nuovi  ve- 
nuti, e  valicate  le  giogaie  lepontine  scesero  nella  Lond)ardia,  ne' occu- 
parono gli  stagni  e  i  laghi,  con  la  sede  forse  principale  in  quello  di 
Varese.  Di  quei  giorni  l'Italia  e  le  isole,  importa  di  rammentarlo, 
erano  popolatissime  da  genti  di  diversa  origine,  alcune  con  la  civiltà 
neolitica,  altre,  e  in  numero  maggiore,  con  quella  caratterizzata  dal- 
l'uso del  rame. 

La  prima  invasione  lacustre  nell'Italia  dilatò  via  via  i  propri 
confini,  superando  a  ponente  il  bacino  d'Ivrea  e  toccando  il  Chiese 
a  levante:  a  sud  si  distese  fin  dove  erano  conche  allagate  acconce 
per  nuove  sedi,  senza  giungere  alle  rive  del  Po.  E  in  progresso  di 
tempo  sarebbero  cadute  nel  suo  dominio  anche  le  regioni  subalpine 
orientali,  se  non  fosse  sopraggiunto  il  popolo  destinato  a  fondere  in 
uno  i  vari  elementi  della  penisola  e  a  compiere  la  propria  missione 
sulle  rive  del  Tevere. 

Etnicamente  doveva  (piesto  avere  origine  comune  con  quello  dei 
laghi  centrali,  perchè  eguale  ne  era  la  maniera  di  vita,  perchè  gene- 
ralmente simili  ne  sono  le  industrie.  Per  esso  è  certa  la  provenienza 
dalla  Valle  del  Danubio,  a  motivo  degli  avanzi  lasciati  lungo  la  via  (3). 
Poneva  come  l'altro  le  stazioni  sopra  le  palafitte,  ma  anche  fuori  dei 
laghi  e  degli  stagni;  e  dobbiamo  a  questo  se  ce  ne  rimangono  inoltre 
i  sepolcri,  che  presentano  un  rito  funebre  affatto  nuovo,  quello  della 
cremazione.  Non  aveva  interamente  abbandonato  l'uso  di  armi  e  di 
utensili  di  pietra,  portava  con  sé  il  bronzo  che  sapeva  fondere  mira- 
bilmente, e  traeva  l'ambra  dal  Baltico.  Gli  erano  sconosciuti  l'argento 
e  il  ferro,  ma  non  si  può  dire  altrettanto  con  certezza  dell'oro.  Emi- 
grava in  giorni  nei  quali  fiorivano  le  splendide  civiltà  dell'Oriente, 
tuttavia   non  è  chiaro   se  e  quali   relazioni   avesse   con    l'una  o  con 

(1)  Jiend.  d.  Accad.  d.  Lincei,  ser.  4".  voi.  VI.  1"  som.,  pag.  192. 

(2)  Nadaillac,  Les premiers  ìiommes  et  ks  temps préhistoriqnes.  toL  I,  pag.  14. 

(3)  Questo  venne  osservato  fino  dal  1877  {J/em.  d.  Accad.  d.  Lincei,  CI.  di 
se.  mor.,  ser.  3",  voi.  I,  pag.  309j. 


LE    PIÙ   ANTICHE   CIVILTÀ    DELL' ITALIA  223 

l'altra.  In  ciò  che  ha  lasciato  di  quel  periodo  non  vi  ha  nulla,  almeno 
fin  qui,  che  rammenti  l'Asia  Anteriore,  e  scarsi  o  di  dubbio  valore 
sono  gli  indizi  di  rapporti  con  l'Asia  Minore  e  con  1'  Egeo. 

Pervenuto  nella  Croazia,  nella  Moravia  e  nella  Bassa  Austria  sì 
distende  come  un  ventaglio,  e  al  sud,  proseguendo  tra  i  monti,  con 
un  ramo  passa  sulla  Bosnia  (1),  e  con  un  ramo  diverso  scende  nel 
Veneto,  ne  popola  i  laghi  tuttora  disabitati,  e  poiché  questi  non 
bastano  si  diftoiide  fuori  di  essi,  popolando  il  Mantovano  e  i  tenitori 
orientali  del  Bresciano  e  del  Cremonese.  Xè  ([ui  si  arresta.  A  diffe- 
renza delle  prime  famiglie  lacustri  varca  il  Po,  invade  l'Emilia,  e  sale 
su  per  i  colli  subapennini  fino  a  toccare  le  alture  di  Porretta. 

Uscito  dalla  schiatta  che  edificava  le  abitazioni  sui  pali,  non  ab- 
bandonò l'antica  usanza  qualunque  fossero  le  condizioni  del  luogo.  Si 
posasse  nelle  pianure  o  sui  colli  costruiva  religiosamente  la  palafitta, 
che  costituiva  il  carattere  nazionale  delle  proprie  stazioni.  Sono  opera 
sua  e  di  cpiel  lontano  periodo  le  terremare  della  bassa  Valle  del  Po, 
forse  il  più  importante  monumento  della  pura  età  del  bronzo  in  tutta 
Europa,  pel  quadro  completo  che  ce  ne  mostra,  e  di  altissimo  valore 
per  noi,  come  quello  che  ci  svela  l'origine  della  civiltà  italica,  ci  dà 
il  filo  per  interpretare  e  coordinare  antichissime  tradizioni  rifiutate 
come  leggende,  e  ci  guida  a  risolvere  il  problema  della  fondazione  di 
Roma. 

So  di  dir  cose  troppe  volte  ripetute,  ma  poiché  l'avere  chiarita 
nelle  terremare  la  prima  pagina  notevole  della  nostra  storia  è  tutto 
merito  di  studiosi  italiani,  confido  che  non  si  vorrà  tenermi  in  colpa 
se  ricordo  le  particolarità  caratteristiche  di  quelle  stazioni. 

Fin  qui  abbiamo  incontrato  selvaggi  nomadi,  o  società  più  pro- 
gredite ma  jiur  sempie  primitive,  o  popolazioni  come  quelle  dei  laghi 
lombardi,  relativamente  avanzate,  le  cui  reliquie  però  non  permettono 
di  formarci  un  concetto  pieno  della  loro  organizzazione  sociale.  Nelle 
terremare  invece  ogni  dato  rivela  norme,  leggi,  riti  che  si  mantengono 
e  si  svolgono  nelle  età  posteriori. 

Esse  non  disegnano  in  pianta  la  figura  che  il  caso  porti;  sul  monte 
o  nel  piano  sono  sempre  quadrilatere  con  forma  di  trapezio,  in  origine 
determinata  nelle  pianure  dalla  ragione  idraulica  di  avere  nell'angolo 
acuto  il  partitore  dell'acqua  che  allagava  la  fossa:  trapezoidale  era  la 
Roma  quadrata,  e  più  tardi  trapezoidale  si  costrusse  la  favissa  del 
tempio  di  Vesta,  perchè  il  tempo  rende  spesso  venerabile  e  perpetuo, 
sia  pure  come  simbolo,  ciò  che  ne  viene  dalle  passate  genera- 
zioni. Chiudono  le  terremare  un  argine  di  terra  circondato  da  fossa, 
e  aggere  e  fossa  cingevano  la  Roma  Serviana.  Per  determinare  il  peri- 
metro delle  loro  stazioni  i  terramaricoli  scavavano  nel  vei-gine  un 
solco,  e  cum  aeueo  vomere,  secondo  la  tradizione,  i  popoli  storici 
dell'Italia  tracciavano  con  un  solco  il  pomerio.  Le  terremare  sono 
orientate  con  orientazione  primaverile  che  prova  la  stagione  in  cui  si 
impiantavano:  orientate  erano  le  città  italiche,  e  si  ha  pur  sempre  la 
tradizione  delle  primavere  sacre.  Un  unico  ponte,  di  solo  legno,  mette 

(1)  La  suzione  di  Dòii.ja  Dolina  sulla  Sava,  ad  esempio,  trova  riscontro 
nella  terramara  Castione  dei  Marchesi  in  provincia  di  Parma  {Glasnik  Zema- 
Ijskoy  Mmeja  n  Bosni  r  Hcrcegovini.  voi.  XIII,  tav.  I-YIII:  voi.  XIV.  tav.  I,  II. 
Cfr.  con  gli  Atti  d.  Accad.  d.  Lincei,  Mem.  d.  CI.  di  so.  mor.,  ser.  3",  voi.  TIII, 
tav.  II-IV  della  terramara  di  Castione). 


'224  LE    PIÙ    ANTICHE   CIVILTÀ    DEIX'lTALIA 

alle  stazioni  dei  terramaricoli  :  in  Roma  il  Ponte  Sublicio  è  mantenuto 
di  legno  senza  chiodi,  affidato  fin  tardi  alle  cure  dei  Pontifices,  ai 
quali  se  ne  attribuiva  la  prima  costruzione.  Nelle  terremare  le  case, 
quadiilatere,  sorgevano  entro  insulae  rettangolari,  divise  da  cardini 
e  da  decumani,  che  perfettamente  corrispondono  in  ogni  particolare 
alle  norme  seguite  dappoi  e  prescritte  dai  Gromatici  per  le  castra. 
Perfino  l'unità  di  misura  accertata  nelle  teriemare.  salvo  una  insignifì- 
caute  ditterenza,  ripete  nella  lunghezza  il  piede  romano.  .Ma  v'ha  di  più. 
Nel  bel  mezzo  del  lato  orientale  delle  terremare  s'incontra  un'aiea 
limitata,  enorme  costruzioiie  di  legno  e  di  terra,  un  femjjhini  nel 
significato  jirimitivo  della  parola,  l'arce,  il  germe  del  foro  e  del  pietorio, 
nel  centro  della  quale  si  apre  una  piccola  fossa  clie  ci  |)orta  coi  pen- 
siero al  mtmdìis  della  città  romulea.  E  nei  pozzetti  chiusi  da  tavole, 
che  stanno  nel  fondo  e  sono  incavati  nel  vergine,  abbiamo  forse  la 
origine  di  quei  misteriosi  pozzetti  ai  giorni  nostri  scoperti  nel  Comizio 
sul  Foro  Romano  (1). 

E  se  ci  muove  il  desiderio  di  sapere  quale  onore  si  rendesse  agli 
estinti  dal  popolo  delle  terremare.  ci  si  para  innanzi  il  quadro  delle  più 
povere  neciopoli  che  pieseiili  l'Italia  antichissima.  1  cadaveri  venivano 
cremati  fuori  dell'abitato,  e  ivi  le  poche  ossa  rimaste  fra  le  ceneri  si 
raccoglievano  in  rozzi  ossuari  tenuti  allo  scoperto,  privi  di  qualsiasi 
corredo  (2).  In  città  di  legno  edificate  sopra  pali  non  era  possibile  accen- 
dere roghi:  di  qui  la  necessità  di  compiere  all'esterno  i  riti  funebri, 
di  qui.  se  non  m'inganno,  l'origine  del  costume  che  più  tardi  la  legge 
sanziona  col  precetto:  Hominem  mortiinm  in  urbe  neve  sepelito,  neve 
urito.  Oh  !  non  è  certamente  casuale  il  meraviglioso  riscontro  che  le 
città  italiche  dei  tempi  storici  trovano  in  quelle  ond'era  sparsa  la  bassa 
Valle  del  Po  nel  secondo  millennio  av.  Cr. 

1  palafitticoli,  chiamiamoli  cosi,  nell'età  alla  quale  siamo  giunti, 
formavano  due  gruppi  nell'Italia  superiore,  l'occidentale  che  non  oltre- 
passava il  Po.  e  l'orientale  che  giungeva  alle  vette  dell' Appennino  (3). 
Le  terremare  spettano  esclusivamente  al  secondo.  L'uno  e  l'altro  non 
laminavano  il  bi-onzo,  lo  fondevano  soltanto  e  in  fogge  svariai issime, 
non  sempre  però  eguali  in  una  regione  e  nell'altra,  e  la  copia  più  varia 
dei  tipi  appartiene  al  gruppo  orientale.  Caratteristica  in  amendue  è  la 
mancanza  assoluta  di  segni  che  accennino  a  scrittura  e  di  ogni  indizio 


(1)  Per  le  particolarità  caratteristiche  delle  terremare,  così  del  monte  come 
■del  piano,  e  per  le  analogie  fra  di  esse  e  le  città  italiche  dei  tempi  storici,  vedi 
specialmente  :  Atti  d.  Accad.  d.  Lincei.  CI.  di  se.  mor..  ser.  3",  voi.  Vili,  pag.  265 
e  segg.  -  Read.  d.  Lincei,  Ci.  di  se.  raor..  voi.  II,  pag.  832  segg.  e  pag.  OOó  segg.  - 
Monnin.  antichi  d.  Lincei,  voi.  I.  pag.  121  e  segg.  -  N^ot.  d.  scavi  1902,  pag.  4ò0 
e  segg.;  1898.  pag.  232  :  1893,  pag.  9^e  segg.  :  189Ì5,  pag.  57  e  segg.  ;  1897,  pag.  132 
e  segg.  :  -  Bull,  di  Paletn.  Ital.,  a.  XII,  pag.  1  e  segg.  ;  a.  XIX,  pag.  103;  a.  XXI, 
pag.  73  e  segg.  ;  a.  XXIII,  pag.  56  e  segg.  ;  a.  XXIV.  pag.  296  e  segg.  :  a.  XXVI, 
pag.  1.51  e  segg.  -  Helbig,  Die  Italiker  in  der  Poehene.  1879. 

Il  primo  peraltro  ad  osservare  le  particolarità  di  costruzione  delle  terremare 
e  a  notarne  le  relazioni  con  lo  più  antiche  città  italiche  fu  Gaetano  Chierici 
con  l'opuscolo  Le  antichità  preromane  della  provincia  di  Reggio  nell'  Emilia,  pub- 
blicato nel  1871. 

(2)  Bull,  di  Paìetn.  It.,  a.  XVI,  pag.  21  e  segg. 

(3)  Le  prime  e  alquanto  estese  osservazioni  sui  due  gruppi  orientale  e  oc- 
cidentale delle  palafitte  subalpine  si  hanno  nei  Momim.  antichi  dei  Lincei,  voi.  I, 
pag.  145  e  segg. 


LE    PR-    ANTICHE    CIVILTÀ    DELI.  ITALIA  2^ii> 

di  arte  tìgurata  :  la  stessa  decorazione  geometrica  si  riduce  a  pochi  e 
semplici  elementi  non  di  rado  isolati.  Ma  negli  strati  superiori  delle 
terremare  compariscono  rozze  figurine  fìttili,  più  spesso  di  animali,  e 
fibule  di  bronzo,  arnese  affatto  nuovo,  le  une  e  le  altre  di  tipi  che  si 
incontrano  nelle  isole  dell'Egeo. 

Circa  in  quel  momento  rimane  disabitato  il  Lago  di  Garda,  e  via 
via  sono  abbandonate  la  Lombardia  orientale  e  1"  Emilia  occidentale. 
Fosse  raumentata  potenza  die  li  confortasse  a  tentare  nuove  con- 
quiste, fosse  il  proposito  di  partecipare  ai  benefizi  degli  attivi  com- 
merci che  le  popolazioni  dell"  Egeo  esercitavano  specialmente  con  la 
Sicilia,  fatto  sta  che  i  terramaricoli  uscirono  in  forte  numero  dalla 
Valle  del  Po.  si  stesero  a  sud  delfAppennino,  e  arrivarono  sino  alle 
sponde  del  Jonio.  Tuffai  più  si  chiudeva  allora  il  secondo  millennio. 

La  via  percorsa  dovette  essere  quella  fra  le  alture  del  versante 
orientale  delLAppennino.  Ne  sono  indizio  i  prodotti  industriali  propri 
dei  terramaricoli  che  si  sparsero  fra  le  genti  neolitiche  ed  eneolitiche 
delle  Marche  e  degli  Abruzzi  e  rimasero  sepolti  fra  gli  avanzi  delle 
loro  capanne.  Di  ciò  invece  non  si  ha  traccia  fin  qui  nell'Etiuria.  Jla 
a  parte  la  questione  della  via  tenuta,  l'accennata  antichissima  emi- 
grazione è  certa.  Inducevano  da  tempo  ad  ammetterla  le  palafitte 
scoperte  presso  Oftìda  nel  Piceno,  a  Castelvenere  nel  Beneventano,  a 
Pertosa  in  quel  di  Salerno,  e  oggi  se  ne  ha  la  prova  la  j)iù  evidente 
nella  terramara  di  Taranto  (1). 

Si  trova  questa  sopra  lo  Scoglio  del  Tonno,  dove  giunge  apjjena 
l'acqua  che  scende  dal  cielo,  tuttavia  non  si  lasciò  di  costruire  la 
palafitta  e  di  circondarla  con  Faggere  e  con  la  fossa.  Si  risentivano  i 
benefizi  della  civiltà  micenea  attestati  da  talune  reliquie  rinvenute, 
ma  i  bronzi  che  si  fusero  sul  luogo,  ma  le  ceramiche  che  ivi  si  pla- 
smarono sono  le  .stesse  della  bassa  Valle  del  Po.  Dinanzi  a  quel 
materiale  archeologico  pai'  di  studiare  l'età  del  bronzo  del  Lago  di 
Garda  o  delle  provincie  dell'  Emilia.  Nelle  contrade  prossime  gli  an- 
tichi abitatori  mantenevano  il  rito  funebre  della  inumazione  in  grot- 
ticelle  a  forno;  dove  invece  si  era  posata  la  nuova  gente,  come  a 
Timmari  nel  Mateiano,  i  sepolcii  erano  poverissimi  ed  esclusivamente 
di  cremati. 

E  quando,  fra  il  .\  e  l' viii  sec.  av.  Cr.,  per  gli  elementi  fecon- 
datori venuti  dall'Asia  Minore,  dall'Egeo  e  dalla  Grecia,  la  civiltà 
dei  terramaricoli  erasi  trasformata  in  quella  che  si  convenne  chiamare 
della  prima  età  del  ferro,  nelle  nostre  contrade  meridionali  almeno 
si  abitava  ancora  sulle  palafitte,  come  dimostra  quella  assai  estesa 
che  si  viene  ora  scavando  sul  Sarno  nella  Campania.  Del  resto  non 
vi  ha  in  ciò  nulla  che  debba  sorprendere.  Anzitutto  fino  ad  oggi  non 
si  avevano  notizie  delle  stazioni  italiche  della  prima  età  del  ferro, 
non  essendo  state  mai,  non  dico  esplorate,  ma  nemmeno  cercate.  Poi 
si  ripete  pur  qui  uno  dei  tanti  casi  di  persistenza  dell'antico,  che 
presenta  la  storia  di  ogni  civiltà,  di  ogni  famiglia,  di  ogni  razza:  e 
il  fatto  della  Valle  del  Sarno  non  rimane  isolato  in  Europa.  Megabizo. 
nel  VI  sec.  av.  Cr.,  non  riusci  a  sottomettere  i  Peonii  della  Tracia 
perchè  abitavano  sui  pali  nel  lago  di  Prasia.  le  legioni  di  Traiano 
incontrarono  i  villaggi  sulle  palafitte  tra  i  Daci,  i  Ganci  della  Frisia 

(1)  Nof.  ti.  scali  1900.  pag.  411  seg.  -  Bull,  di  Paletii.  Hai.,  a.  XXVI.  pag.  6 
e  seg.  ;  a.  XXVII,  pag.  12  e  seg. 

]  5  Voi.  evi,  Serie  TV  -  16  luglio  1903. 


:J'2l)  l.E    l'ir    ANTICHE   CIVILTÀ    MEI.l/lTAl.I.V 

li  mantenevano  al  cadere  dell'Impero,  e  sul  Laf>o  di  Paladrù  nel  di- 
jìartinienlo  dell' Isère  duravano  ancora  ai  }>iorni  dei  Carolingi  (I  ). 

Dalle  spiafige  tarantine  alla  Sicilia  il  tiagitto  è  breve,  eppure  i 
conquistatori  delle  contrade  nieiidionali  non  lo  tentarono  e  gli  abi- 
tanti dell"  Isola  continuarono  a  vivere  di  vita  propria  e  indipendente 
fin)  alla  colaniz/azione  greca.  E  come  gli  emigrati  dalla  Valle  Padana 
non  passarono  sulla  Sicilia,  così  non  occuparono  alcun'altra  delle 
isole.  Erano  giunti  per  la  via  di  terra,  e  mai,  nei  giorni  ai  ((uali  mi 
riferisco,  percorsero  qnella  del  mare.  Ecco,  in  breve,  ciò  cbe  oggi  il 
))aletnologo  può  diie  delle  civiltà  dell'Italia  anteiiori  al  primo  mil- 
lennio av.  Gr. 

So  di  non  avere  presentato  un  quadro  completo,  ma  per  ottenerlo 
occorrono  più  estese  esplorazioni.  Non  sono  certamente  pochi  i  pro- 
blemi di  archeologia  primitiva  italiana  ri.soluti  o  quasi  negli  ultimi 
quarant'anni,  ma  di  altri  si  può  dire  non  sia  nemmeno  cominciato 
lo  studio.  Ignoiiamo  ancora,  ad  esempio,  quali  fossero  le  condizioni 
deirEtruria  e  dell'Umbria,  allorché  i  terramaricoli  stavano  alle  sor- 
genti del  nostro  Reno  e  si  dirigevano  inoltre  alle  regioni  meridionali, 
il  materiale  delle  arcaiche  tombe  dei  Colli  .\lbani  e  deirEsqinlino. 
per  le  qnali  si  rendeva  facile  di  presagire  la  scoperta  di  t(uelle  coeve 
del  Foro  Romano  e  di  altri  punti  del  Settimonzio.  ha  mostrato  da 
tempo  che  la  civiltà  laziale  trae  origine  dalla  bassa  Valle  del  Po,  ma 
le  scoperte  frequenti  e  casuali  di  oggetti  caratteristici  dei  terramari- 
coli, che  avvengono  nella  Sabina  e  nella  Marsica,  rimangono  sterile 
invito  a  rintracciare  su  quelle  alture  gli  anelli  che  mancano  alla  ca- 
tena, la  quale  mette  capo  ad  Alba  Longa  e  alla  Roma  quadrata. 

Gli  è  principalmente  a  colmare  lacune  simili,  e  altre  potrei  ci- 
tarne, che  devono  essere  rivolti  gli  studi  e  i  mezzi,  se  vogliamo  che 
l'arclieologo  presti  il  più  alto  servizio  che  da  esso  si  possa  attendere, 
quello  cioè  di  concorrei-e  col  glottologo  e  con  Io  storico  a  scoprire 
come  sia  nata  e  cresciuta  la  nazione  italiana  e  a  mettere  bene  in 
chiaro  le  ragioni  di  quanto  ha  prodotto  attraverso  i  secoli,  affinchè 
dal  confronto  del  passato  col  presente  abbia  essa  gagliardo  conforto 
a  perseverare  nella  missione  che  le  venne  affidata'. 

LlKil  Pkìorixi. 


(1)  Oltre  al  fatto  notissimo  dei  Peonii  riferito  da  Ei-odoto,  veggasi  :  per  la 
Dacia,  CiCHORlL's.  Die  Traiaiissiiiile,  tav.  XX.  XL,  XLI;  per  la  Frisia,  Bull,  di 
Paleln.  Ital.,  a.  VII,  pag.  110  e  seg..  e  Dirks.  De  Terpen  viin  Friculand ;  pel  lago 
(li  Paladrù,  Chantre,  Les  palafittes  on  coiistnictions  lavniitres  dn  lac  de  Paladrn. 


JVIATERNITA 


DRAM.MA     I\     QUATTRO     ATTI 


ATTO  TERZO. 

In  campagna.  —  È  il  pomeriggio  di  una  bella  giornata  settembrina.  Una 
camera  .spaziosa,  nitida,  gaia,  piena  di  aria  e  di  luce.  L'ambiente  è  quasi  rusti- 
cano, ma  raggentilito  da  una  signorilità  semplice  e  modesta.  —  Una  porta  a 
destra,  una  porta  a  sinistra.  Un'altra  porta,  molto  ampia,  a  due  battenti,  si  apre 
nel  mezzo  della  parete  in  fondo  e  scopre  il  verde  scintillante  di  un  folto  pergo- 
lato. A  poca  distanza  dalla  porta,  tra  il  fogliame  della  vigna,  spicca  la  tinta 
biancastra  del  parapetto  d'un  pozzo  e  mettono  un  luccichio  più  vivo  la  secchia 
tersa  e  la  carrucola  che  pende  dal  ferro  arcuato.  —  Un  fìnestrone  è  accanto 
all'uscio  di  fondo  e  s'apre  anch'esso  sulla  vigna.  La  camera  è  mobiliata  per  le 
bisogne  domestiche.  Una  credenza  carica  di  stoviglie,  di  biancheria,  di  posate. 
Qualche  stipo.  Qualche  pianta  di  rosa  in  vaso  grezzo.  Una  piccola  tavola  per 
il  desco.  Una  tavola  grande  coperta  da  un  panno  bianco,  e  sopra  di  essa  alciuie 
scatole  in  cui  sono  ammonticchiati  bavaglioli.  camicine.  cuffiette.  Ticino  a  questa 
tavola  un  cestino  da  lavoro. 


SCENA  1. 
Claudia  e  Teresi.va. 

Claudia  —  {in  piedi  presso  la  tavola   coperta   dal  panno   bianco,  vi 

stende  sa  nastrini,  tulle,  mussola.  È  sola.  Chiama:)  Teresina  ! 
Teresixa  —  {di  dentro).  Signora  ! 

Claudia.  —  Che  non  sia  freddo  addirittura  questo  ferro. 
Teresi.\'.\  —  {entra  portando    un   ferro   da   stirare.    Lo    accosta    un 

po'  alla  faccia).  Per  stirare  robetta  leggera  basta  com'è. 
Claudia.  —  Dammi. 

Teresina.  —  Faccio  io.  So  fare.  Voi  vi  affaticate  troppo. 
Cl.audia.  —  Ma  di  clie  t'impicci  tu?  Non  sono  mica  ammalata,  per 

tua  norma.  {Prende  il  ferro,  lo  strofina  sopra   una  pietra  che  è 

sitila  tavola  e  stira  accuratamente). 
Teresina.  —  Un  poco  ammalata,  siete.  .Ieri,  per  esempio... 
Claudia.  —  Che  ne  sai  di  Jeri  ? 
Teresina.  —  Si  vedeva. 

Claudia  —  (stirando;.  Non  c'era  niente  da  vedere,  hai  capito  ? 
Teresina.  —  Avevate  la  faccia  come  la   carta   che   era   una   pietà  a 

guardarvi. 
Claudia.  —  Ma  che  me  ne  importa  di  Jeri  se  oggi  sto  benissimo?  Sta 

meglio  di  te,  sai. 


5^8  MATEK.VITÀ 

Tekesi.va.  —  Axete  un  l)el  direi  Tutte  le  donne  stanno  mi  pò"  malate, 

quando  fanno  i  figliuoli. 
Claidia.  —  \'oriei  sapere  chi  te  le  insegna  queste  sciocchezze  1 
Teresina.  —  Il  curato. 

Claudia.  —  511  nievaviolio  di  lui  che  parla  di  certe  cose  alle  ragazze. 
Teresixa.  —  Ce  ne  parla  a  fin  di  hene.  Egli  ci  dice  sempre  che  il  fare 
i  figliuoli  è  una  malattia.  [Imif anelo  la  voce  del  curato)  «  State 
attente,  ragazze.  State  attente  a  non  cadere  in  peccato.  Fatelo 
almeno  per  la  salute  ». 
Claudia  —  (sorrkleììclo).  Se  dice  così,  dice  giusto.  Ma  resta  a  capire 
quand'è  che  si  cade  in  peccato. 

Teresixa.  —  Da  noi.  .soltanto  quando  ci  si  marita  non  si  cade  in 
peccato.  Ho  da  liscaldarlo  un  altro  ferro? 

Claudia.  —  No.  grazie.  Non  mi  serve.  Apparecchia  itiuttosto.  e  pensa 
a  darmi  da  pranzo. 

Teresi.na.  —  Ho  già  messo  a  cuocere  i^ceci. 

Cl.\udia.  —  Mi  dai  la  huona  minestra  di  avantjeri  ? 

Teresix.a.  —  Quella  vi  do.  (Apparecrhia  leiitanieiife  indiifiiavclo  (>(ji>i 
IfAììlo  a  parhn-c).  Vi  piacque"? 

Claudia.  —  Molto.  E  mi  ti  raccomando  per  la  carne.  Teresina.  Ricor- 
dati che  devo  mangiarne  spesso:  e  tenera  ha  da  essere. 

Teresixa.  —  Don  Fahiuccio  Nasti,  che  nella  macelleria  del  padre  co- 
manda lui.  me  n"ha  portato  un  tocco  da  f;u-e  alla  cacciatora,  tenero 
come  il  hurro. 

Claudia.  —  Un  quarto  di  chilo  ? 

Teresixa.  —  Pago  sempre  per  tanto:  ma,  siccome  lui  amoreggia  con 
me,  io  ne  profitto  e  me  ne  prendo  di  più. 

Cl.\udia.  —  Ciò  non  va  bene. 

Teresixa.  —  lo  me  lo  sposo. 

Claudia.  —  E  che  vuol  dire  che  te  lo  sposi  .' 

Teresixa.  —  Vuol  dire  che  io  gli  do  più  di  quello  che  ho  preso. 

Claudia.  —  E  della  malattia,  non  ne  hai  paiu'a  ? 

Teresina.  —  Eh!  Presto  o  tardi  ci  si  ha  da  ])assare,  penso  io.  Siamo 
donne  per  questo. 

Claudia.  —  Hai  ragione.  [Ha  finito  di  stirare.  Raccoglie  e  piega  i 
nastriiìi,  il  tulle,  la  mussola).  Si  dice  che  la  Madonna  di  Roccaro- 
mita  ])rotegga  le  mamme... 

Teresixa.  —  Sì  che  le  protegge.  Avete  fatto  hene  a  venirvene  a  Roc- 
ca romita. 

Cl.\udia.  —  Ma  io...  idissittiulaudo)  non  ne  sapevo  nulla.  Ci  sono  venuta 
perchè  qui  ho  trovato  ad  acquistare  questa  casetta  per  pochi  soldi. 

Teresixa.  —  La  Provvidenza  vi  ajuta. 

Cl.\udia  —  {animandosi).  Certo  che  mi  aiuta!  (Il  suo  viso  si  contrae 
ìin  poco.  Iinpaìlidisce.  Ella  si  sorregge  a  una  sedia). 

Teresixa.  —  Lo  vedete?!... 

Cl.vudia.  —  No,  no,  f  inganni. 

Teresixa  —  (corre  a  lei  per  soccorrerla). 

Claudi.\.  —  Ma  no...  Inezie!  (Un  silenzio.  Siede.  Le  passa  sulla  fronte, 
come  un'ombra.  Indi  scuote  la  testa.  Si  rianima).  Ecco.  Più  niente. 
(Si  dispone  a  lavorare  di  cucito). 

Teresixa  —  (terminando  di  apparecchiare).  Frutta  ne  ho  da  comperare? 

CL.A.UDIA.  — E  guarda!  Abbiamo  lì  quel  pò"  pò"  di  uva  mosc^della. 

Teresixa.  —  Se  la  nuova  massaia  non  se  ne  dispiace... 


MATERNITÀ  ^2:29 

Claudia.  —  Non  può  dispiaceri^ene.  L'uso  di  questa  piccola  vigna  me 

lo  sono  riserbato  per  me. 
Teresi.na.  —  Allora,  ve  li  colgo  due  grappoletti  maturi  ? 
Claudia  —  {feslosameute).  Io!  io!  (Si  alza  e  corre  al  pergolato). 
Teresina  —  (citrios((ii(lo,  tocca  e  (juarda  i  nastri,  i  merletti,  le  cuffiette, 

le  carnicine,  i  harafilioli  già  cuciti).  Gli  fate  un  corredo  coi  flocchi 

al  piccino  ! 
Claudia  —  {dal  pergolato,  mentre  accglie  i  grappoli  da  cogliere).  Xon 

guastare.  Teresa. 
Teresixa.  —  Non  guasto,  no.   [Continuando  a   guardare)   Ma  peicliè. 

poi,  tanto  tempo  prima  ".' 
Claudia. — Com'è  bionda!  Seml»ra  tutta  sparsa  di  polvere  d'oro  (Tor- 
nando con   i  grappoli  in  mano  e  assaggiando-qualche  chicco  d'uva} 

E  com'è  dolce!  Prendi.  Teresa. 
Teresixa  —  (stacca  anche  lei  (fitalche  chicco  e  gusta).  Dolce  assai. 
Claudia  —  (mette  l'ara  sulla  tavola  da  pranzo  e  si  asciuga   le  dita, 

alla  tovaglia). 
Teresixa.  —  A  voi  che  ve  ne  paie"/    Saia    un    maschio   o    sarà    una 

femmina  '? 
Claudia    —  (stringendosi  nelle   .'spalle,  tutta   sorrisi    in    volto).    Mah  ! 

(Siede  presso  il  cestino). 
Teresixa.  —  Non  ce  l'avete  messa  1"  intenzione  .' 
Claudia  —  (infilando  l'ago).  No. 
Teresixa.  —  Quando  sarà  il  momento,  io  ce  la  metterò,  percliè  il  piimo 

figlio  lo  voglio  maschio. 
Claudia  —  (cominciando  a  ornare  una  cuffìeitu).  E  se  lo  sposo  ce  ne 

metterà  un'altra  .' 
Teresixa.  —  L'intenzione  dell'uomo  non  conta. 

Cl.audia.  —  Ah  no"?  (Si  volta  e  la  guarda).  E  questo  clii  te  l'ha  in- 
segnato ! 
Teresixa.  —  Nessuno.  Lo  so  da  me. 

(Si  odono,  di  dentro,  tre  colpi  alla  porta). 
Claudia.  —  Picchiano.  Teresa.  Sono  tie  col|ii.  Saia  il  signor  .Maurizio. 

Va  ad  aprire. 
Tereslva.   —  Vado.  (Esrr  a.  sinistra). 

[Un  silenzio). 
Teresixa  —  (senza  comparire,  dalla  .ifanza  attigua),   fi  lui:  il  signor 

Maurizio. 
Claudia  —  (celiando).   La  marchesa  non  riceve. 


SCENA  11. 
Claudl^  e  Maurizio. 

Mairizio  —  'porta  gli  occhiali  verdi.  Inilossa  un  costume  dalle  tinte 
gaiette  e  un  paltoncino  col  bavero  alzato.  Entrando)  Riceviate  o 
no,  io  sono  qua. 

Claudia.  —  Ancora  ? 

Maurizio.  —  Come  ancora'!  È  un  pezzo  ciie  non  mi  vedete. 

Claudia.  —  Da  jeri  l'altro. 

Maurizio.  —  Ma  non  da  Jeri.  Ce  n'era  alibastanza  per  credere  che  voi 
aveste  il  ]iiii  vivo  desidei'io  di  vedermi. 


^30  MATEUNITÀ 

Claudia.  —  \'enite  (}ua.  iSedete.  {(IH  porue  la  mano,  die  MaHvh'm 
strhnjc  con  tiiU'o  due  le  sue). 

Maurizio  —  {phiìia  mia  seiìia  e  sta  per  sedere  accanto  al  cestivo). 

Claudia.  — Toglietevi,  per  favore,  quel  imlef ot,  que^M  occhiali...  Siete 
opprimente  cosi  imbacuccato  ! 

Maurizio.  —  Gli  occhiali  me  li  tolgo  ;sui)ito.  pei  che  qui  dcatro,  se  iJio 
vuole,  polvere  non  ce  n"è.  Ma  quella  strada  maestra!...  L'altro 
jeri  mi  sono  rovinato  gli  occhi.  Guardate  (|ui  {alìanjaìido  le  pal- 
pebre con  Ir  dita).  Ho  mia  minaccia  di  congiuntivite!  Lasciare  le 
strade  maestre  in  quello  stato  è  iin"infamia!  .Ma  che  cosa  tanno  i 
consiglieri  della  Provincia':"  (Ilic  cosa  fanno  i  depulafi/  Clie  cosa 
fanno  i  ministri?  (Siede). 

Claudia.  —  E  il  paletot 'ì 

-Maurizio.  —  No.  vi  domando  perdono,  ma  il  paletot  per  ora  mi  ab- 
bisogna. Ho  fatto  di  eorsa  quesfultimo  tratto  di  via,  che  mi  sembra 
il  Calvaiio,  e.  se  non  mi  sbaglio,  sono  un  tantino  sudato.  Aggiun- 
gete poi  che  questa  non  è  mica  una  camei-a  :  è  un  ventilatojo. 

'Claudia.   —  Potevate  fare  a  meno  di  correre. 

Maurizio.  —  Eh  !  di  tante  cose  si  potrebbe  fare  a  meno  ! 

■Claudia.  —  Per  esempio^? 

Maurizio.  —  Per  esempio,  di  venire  fin  cpiassii  Ire  volte  la  settimana. 

Claudia.  —  Perchè  ci  venite  .' 

Maurizio.  —  Io  non  lo  so. 

Claudia.  —  {ridendo  un  po').  Ali.  ali.  ali  ! 

Maurizio.  —  Che  c'è  da  ridere.' 

■Claudia.  —  Ricordavo...  le  tre  volte  la  settimana  di  Olghina  :  lunedi, 
mercoledì  e  venerdì. 

Maurizio.  —  Ma  che  confusione  late  ! 

Claudia  —  {graziosamente,  dopo  nna  pausa).  Come  sta  .' 

Maurizio.  —  Sta  bene.  Credo  che  stia  bene. 

Claudia.  —  Sempre...  tre  volte  la  settimana  ' 

Maurizio.  —  No,  no. 

Claudia.  —  Due  volte? 

Maurizio.  —  Nemmeno. 

Claudia.  —  Una  sola"'!...  Povero  .Maurizio! 

Maurizio  —  {con  comico  risentimento).  Vi  prego  di  credere.  Donna 
t;iaudia... 

Claudia.  —  Andiamo,  non  vi  arrabbiate,  che  anzi  io  mi  congratulo 
che  siate  divenuto  più  saggio. 

Maurizio.  —  Piìi  saggio!  ..  Chi  può  dirlo  poi  se  è  proprio  saggezza".' 
La  verità  è  che  tutta  questa  storia  mi  ha  scombussolato.  Ci  pen- 
sate voi  che  quando  verrà  pronunziata  la  sentenza  di  separazione 
tra  voi  e  vostro  marito  non  ci  sarà  un  cane  il  qu.Ue  non  avrà  la 
convinzione  che  io  sono  il  vostro  amante  e  anche  il...  Mi  ca- 
pite, eh".' 

Claudia.  —  La  vedt^te  (|iiesla  cuftiettiiia  com'è  caiuccia.' 

Maurizio.  —  La  vedo  si.  la  vedo. 

Claudia.  —  E  un  amore! 

.Maurizio.  —  I']  tanto  caruccia.  sì.  ma  datemi  retta.  .\ou  si  tratta  duna 
bazzecola.  È  un  fatto  d'una  gravità  singolare,  singolarissima.  Io 
sarò  in  una  falsa  posizione  vita  naturai  durante. 

Claudia  —  {con  la  massima  calma,  lavorando  a  un'altra  ciiffiefta).  Il 
vostro  nome  non  verrà  fuori.  Voi  sareste  forse  indiziato  se  ci  fosse 


MATERNITÀ  231 

un  sincero  dibattito  in  tribunale.  Invece,  no,  sarà  tutta  una   mi- 
rabile tìnzione,  perchè  mio  marito  ed  io  ci  siamo  messi  d'accordo. 

ilAURizio.  —  Ma  visto  che  d'accordo  avete  stabilito  di  dimostrare  che 
vostro  figlio  non  è  suo,  il  naturale  candidato  alla  paternità  ho  il 
piacere  di  essere  io.  È  chiaro. 

Claudia  —  (sensa  dorsi  ìiessima  pena).  Ma  no! 

Mal'rizio.  —  Sentite,  Donna  Claudia,  questo  figlio  deve  pur  averlo  fatto 
qualcuno. 

Claldi.a.  —  {con  un  sorrisetto  honario).  Ecco  quello  che  vi  nego. 

Maurizio  —  {scattando  in  piedi).  Quando  si  arrivano  a  dire  di  queste 
enormezze,  non  e'  è  più  nulla  a  sperare  dalla  logica  umana  ! 

Claudia  —  {graziosissimamente).  Non  urlate.  Nunù.  perchè  gii  urli  mi 
guastano  l'appetito. 

Maurizio.  —  Chi  è  Nunù? 

Claudia  —  {rifacendo  le  voci  e  i  gesti  del  primo  atto).  «  Addio.  Nini  !  » 
-  «  Addio,  Nunù!  ».  {Ride). 

Maurizio  —  (rammentandosi).  Ah  !...  Ve  ne  ricordate"?  (Facendosi  serio) 
E  da  allora,  purtroppo,  sono  cominciati  i  guai! 

Claudia  —  {ride  più  forte). 

Maurizio.  —  Ma  voi  ridete  sempre.  Donna  Claudia  I 

Claudia,  —  Oh  Dio  !  Non  dovrei  ridere  neppure  ])ensando  a  quel  servo 
imbecille,  che.  secondo  voi.  riconoscendomi  per  la  marchesa  di  Mon- 
tefranco,  mi  avrebbe  terribilmente  compromessa  ?  Vedete  come  sono 
mutate  le  cose.  Adesso,  voi  medesimo  venite  quassù,  da  me...  tre 
volte  la  settimana,  affrontando  la  polvere,  il  caldo,  il  vento,  il  freddo, 
e  mi  compromettete  con  la  i)iù  spensierata  disinvoltura. 

Maurizio  —  {sedendo  di  nuovo).  Voi  scherzate,  e  intanto  vi  assicuro 
che  più  o  meno  queste  stesse  parole  io  me  le  dico  senza  punto 
scherzare  quando  ci  penso.  Non  è  precisamente  della  compromis- 
sione ufficiale  che  io  mi  preoccupo.  Oramai  quella  lì  è  un  incidente 
esaurito.  Ma  c'è  una  compromissione  di  altro  genere... 

Claudia.  —  Che  riguarda  me"? 

Maurizio  —  {facendosi  sempre  piii  serio).  No,  non  riguarda  voi.  Per- 
chè, sappiatelo,  non  tutti  gli  uomini  sono  come  sembrano!-... 

Cl.\udia.  —  Bella  novità! 

Maurizio.  —  Io  sembro  uu  vecchio  fannullone,  un  vile  cultore  del 
proiuio  lienessere,  di  quel  benessere  mediocre  e  jiedestre,  che  non 
corre  nessun  rischio  in  mezzo  agli  urti,  alle  grida,  alle  attlizioni, 
alle  lagrime  dell'umanità  sofferente,  e  che,  da  altra  parte,  non 
aspira  alle  grandi  gioie,  ai  godimenti  supremi,  e  non  li  rasenta 
mai.  Io  sembro  un  uomo  fatto  con  la  ricetta  :  tanto  di  prudenza, 
tanto  d'indifferenza,  tanto  di  bontà,  tanto  di  debolezza,  tanto  di. 
virtù  e  tanto  di  vizio,  e  il  tutto  mescolato  bene  e  riscaldato  a 
liagnomaria.  Io  sembro,  insomma,  e  sono  forse  stato,  ne  convengo. 
la  negazione  di  ciò  che  rende  la  vita  molto  bella  o  molto  brutta, 
(li  ciò  che  la  rende  movimentata  e  profonda,  di  ciò  che  la  distrugge 
o  la  ravviva,  che  l'abbassa  fino  al  fango  o  la  eleva  sino  al  Cielo: 
(con  slancio)  ma  io.  Donna  Claudia... 

Claudia  —  {interrompendo    apposta   e  mostrandogli  la   seconda  ciif- 
fietta).  Vi  piace  quest'altra  col  nastrinuccio  celeste"? 
{Una  breve  pausa). 

Maurizio  —  {con   un  po'  di  tristezza  interiore).  Si.  mi  piace. 


::>3:2  MATERNITÀ 

Claidia  —  coM  molta-  animazione).  Ce  n'  è  di  tutti  i  e;usti.  Guai- 
date  !  guardate!  (Prende  la  scatola  riborrmilr  lìi  riiffirtfp\. 

Maikizio.  —  Ditatti,  ce  n"  è  moltissime. 

Ci.ALDiA.  —  E  ce  ne  saranno  anche  di  i<iù. 

.Maurizio.  —  Ma,  tanto  per  sapere,  quanti  tJKliuoli  conlate  di  mettere 
al  mondo  in  una  volta  sola? 

Olai'dia  —  (con  tenerezza  soave).  Uno.  mio  buon  Maurizio,  che  sarà 
tutto  il  mio  mondo  ! 

Malrizu).  —  Ecco...  Quando  dite  queste  cose,  con  quella  voce,  con 
quel  certo^non  so  che  di  dolce  e  di  commovente...  è  un  affai'e  serio  ! 
Io  ne  piglio... 

Claldia.   —    Una  malattia! 

y.lw'RiziO  —  [la  commozione  ([itasi  io  rinrp  sud  mahiraiìo).  No!  Doiuia 
Claudia,  devo  convenire...  che  ne  piglio  un  jioco  di  buona  salute. 


SCENA  III. 
Claidia.  .\ÌArRizi()  r  Terksi.va. 

Teresixa  —  (di  dentro).  Signora!  (E  tossisce  come  per  meglio  aveer- 
tire  della  sua  presenza). 

Ci-vroiA.  —  Cosa  e" è? 

Teresixa  —  (di  dentro).  Posso  entrale' 

Cl.AUDI.\  —  (a  Maurizio,  sorridendo  della  reticenza  di  Teresina).  Che 
ne  dite?  Può  entrare? 

Maurizio.  —  Come  vi  divertite  a  mie  spese!  (Levando  la  voce  e  ten- 
tennando la  testa  in  segno  di  pazienza)  Entra  pure,  ragazza,  che 
non  ci  disturbi. 

Teresixa  —   (entra  con  la  zuppiera  famanie). 

Clal'di.\  —  {continaando  la  celia  -  a  Teresina).  Perchè  hai  doman- 
dato se  potevi  entrare'? 

Teresixa  —  (indicando  Maurizio).  Eh!...  Quando  c'è  lui... 

.Maurizio.  —  No,  sai,  ti  sbagli  ! 

Teresixa  —  (mettendo  la  zuppiera  in  tavola).  Mi  ]iien(lete  per  allocca"? 
Ma  io  lo  capisco  quello  che  siete. 

.Maurizio    —  E  inutile:  ne  è  convinta  anche  lei! 

Claudia.  —  .\lmeno  per  galanteria,  non  dovreste  lamentarvene. 

Maurizio  —  (alzandosi).  Si.  sì.  Buon  jiranzo!  lo  vi  lascio. 

Claudia  —  (preparando  in  fretta  un  altro  coperto).  No,  no.  Qui.  ac- 
canto a  me.  \'i  offro  una  minestrina  paesana,  che  è  un  piccolo 
capolavoro. 

.Maurizio.  —  Non  è  ora  mia.  Donna  Claudia.  \"i  ringrazio. 

Claudia.  —  In  campagna  si  può  mangiare  a  tutte  le  ore. 

.Maurizio.  —   Mijfarà  molto  male,  lo  so.  Ho  anche  l'emicrania   oggi. 

Claudia.  —  Sedete  e  mangiate.  Senza  discussio:ie,  e  sopratutto  senza 
paletot. 

Teresixa.  —  Evvia.  non  \i  fate  ])regare,  che  dovreste  essere  voi  a 
pregar  lei. 

.Maurizio.  —  Santa  pazienza!  (.S7  toglie  il  paltoncino  e  siede  a  tavola). 

(ii.AUDiA.  -  Svelta,  Teresa.  Taglia  il  pane  e  cerca  nella  credenza  una 
bottiglia  di  Gragnaiio  rosso. 

Teresixa  —  (esegue). 


MATEUXITÀ  i233 

Ilaudia  —  {seriiendo  la  ìninesti-a).  Sentite  che  odore?  Roba  sana!  E 
bisogna  mangiarla  calda  calda,  {rnsistemlo}  Non  fate  laflreddare. 

ilArRizro.  —  Ho  capito  !  (Assaggiando)  Non  avete  torto,  sapete.  Sarà 
forse  la  suggestione,  ma  giurerei  di  non  aver  mai  provato  una  mi- 
nestra squisita  come  questa. 

Claudia.  —  E  se  aveste  la  fame  die  lio  io! 

iIaurizio.  —  È  un  piacere  vedervi  a  tavola  con  tanto  ardore  ! 

jLAUDia  —  Teresa!  Tei-esa!  Bada  alla  carne.  Non  troppo  cotta,  mi  lac- 
comando. 

Peresina  —  {via). 

iIaurizio.  —  Non  vi  si  riconosce  più.  Non  so...  Siete  tutfaltra  donna! 

vLAi'DiA.  —  E  dite,  dite  la  verità:  d'aspetto  come  mi  trovate.' 

Iaurizio.  —  Attraentissima! 

If^audia.  —  Che  c'entra! 

Iaurizio.  —  Vi  trovo  colorita,  fresca,  luminosa,  inagnitìca.  E  mi  pare 
che  tutto  que.sto  sia  attraente. 

Claudia.  —  E  Jeri,  invece,  quel  vecchio  gufo  del  dottor  Berner.  di- 
cendomi delle  parole  sibilline,  mi  guardava  con  certi  occhi,  che 
per  un  momento  mi  fecero  sospettare  d'essere  diventata  un  cencio. 

Iaurizio.  —  Come  vi  saltò  il  ticcliio  d'andare  dal  dottor  Berner? 

Claudia.  —  Volli  consultarlo. 

Iaurizio.  —  Eravate  molto  sofferente? 

Claudia  —  {con  urgenza,  eccitandosi).  No!  Poco,  jiochissuno...  Quasi 
niente!  Ve  lo  accerto,  Maurizio:  quasi  niente... 

Taurizio.  —  Ne  sono  persuaso,  che  diamine!  E  aiipunto,  dicevo,  non 
era  il  caso  di  recarsi  apposta  in  città  per  consultare  un  pezzo 
grosso. 

;laudia.  —  D'altronde,  io  non  ho  nessuna  esperienza.  Il  dottor  Ber- 
ner mi  ha  vista  nascere...  È  uno  specialista  di  gran  fama...  Mi 
parve  abbastanza  naturale  ])rofittare  dei  suoi  consigli. 

Iaurizio.  —  13  questi  consigli? 

Ilaudia.  —  Non  me  ne  dette. 

Iaurizio.  — .  Meglio. 

Ilaudia.  —  Soltanto,  con  la  sua  consueta  aria  d"  importanza,  mi  pro- 
mise che  sarebbe  venuto  domani  a  vedermi  qui.  Ma  mi  annoia  la 
sua  visita,  lo  non  lo  riceverò. 

[aurizio.  —  Scrivetegli  piuttosto  di  non  venire. 

!laudia.  —  E  se  poi...  {Si  rattrista  ad  un  tratto)  Se  poi...  avesse  a 
dirmi  qualche  cosa  di  molto  serio? 

Iaurizio.  —  Non  cominciate  a  farneticare  adesso,  peicliè  su  cfuesto 
terreno  oggi  non  me  la  sento  di  seguirvi.  Io  non  sono  uno  spe- 
cialista... Ciò  è  incontestabile.  Ma  se  io  vi  dico  che  non  siete  mai 
stata  così  florida  e  forte,  potete  contarci. 

Ilaudia.  —  Giuratemi  che  non  m'ingannate. 

Iaurizio.  —  Ve  lo  giuro. 

Ilaudia —  {esaltandosi).  Sì,  si.  vi  credo...  vi  credo!...  \'oi  siete  un 
amico  incomparabile,  voi  siete  un  angelo,  e  io  vi  credo.  Ma  tutti 
i  farfalloni  neri!  Mangiamo,  beviamo...  Beviamo  tanto  da  ubbria- 
carci.  {Versando  il  vino)  Non  vi  volete  ubbriacare  voi"? 

I.AURizio  —  (esaltandosi  uncìie  lui).  Ma  si  che  voglio  ublìriacarmi. 
perbacco  ! 

Ilaudia.  —  Vi  abbraccerei. 

'eresina  —  (di  dentro,  tossisce  per  prudenza  e  doiitanda:)  Posso  entrare'? 


^34  MATERNITÀ 

Claudia  —  (prorompe  in  una  riscifa).  Ali.  ah,  ali! 

Mal'rizio.  —  È  esasperante! 

Claudia  —  (ride  clamorosutuente). 

Maurizio.  —  Entra  !  entra  !  entra  !  AHlizione  ! 

Claudia.  —  Ma  questa  volta,  sensate,  poteva  anche  aver  ragione.  Stavo 

per  abbracciarvi... 
Maurizio.  —  Magari! 

Teresina  —  (entrando).  Carne  poco  cotta.  (Mette  la  carne  in  tavola). 
Claudia.  —  Bravissima  !  (Beve  cì'iin  fiato.  Poi  a  Maurizio)  K  voi'.' 
Maurizio.  —  Eccomi.  {Inaolla  un  liicchier  di  vino). 
Teuesina  —  (camhia-i  piatti). 

SCKXA  1\  . 
Claudia.  Maurizio.  Teresina.  Rosalia. 

Rosalia  —  (compari. "ice  sotto  il  peryolato  e  si  ferma  di  là  dalla  soglia, 
timidamente.  Ha  in  tn-accio  il  himho  lattante  e  porta  con  una  mano 
una  canestra  piatta,  verdegfjiante).  Signora  bella! 

Claudia  —  (voltandosi i.  Oh!  Rosalia".'  lA  Maurizio i  È  la  nuova  mas- 
saia che  è  venuta  jeri.  Tanto  eara  !  .1  Rosalia/  Favorisca  la  nostia 
vicina,  favorisca  ! 

Rosalia.  —  Non  voglio  darvi  fastidio,  signora  bella.  Ho  qui.  jter  voi. 
un  po'  di  giuncata  fatta  or  ora.  Se  non  vi  offendete... 

Claudia  —  (battendo  le  mani).  La  giuncata f  Che  delizia  !  Accetto  con 
entusiasmo!  Voi  avete  avuta  un'idea  sublime! 

Rosalia  —  (restando  iìi  fondo).  Era  dovere.  Ieri,  signora  bella,  diceste 
che  avevate  desiderio  di  giuncata.  E  due  e  tre  volte  lo  diceste.  E 
dagli  occhi  si  vedeva  che  era  vero.  Non  volevo  avere  scrupoli  di 
coscienza.  Ne  ho  fatti  cinque  dei  figli,  e  dispiaceri  non  ne  ho  avuti, 
perchè  la  gente  che  mi  stava  attorno  ci  badava  a  queste  cose.  Ma 
mia  sorella,  la  più  grande,  poveretta,  per  un  desiderio  di  len- 
ticchie -  che  nessuno  se  n'accorse  -  non  ebbe  neanche  il  tempo 
di  raccomandansi  alla  Madonna,  e  all'impensata  fece  il  tìglio  morto. 
Uno  strazio  che  non  vi  so  dire! 

Claudia  —  (si  ra>niiicola  e  fissando  gli  occhi  nel  vuoto  resta  per  un 
istante  assorta). 

Maurizio  —  (se  ne  avvede  e  vorrebbe  distrarla).  Avanti  la  giuncata, 
Teresina  ! 

Claudia  —  {scuotendosi  e  cercando  di  dominarsi i.' A.\aniil  avanti! 

Maurizio.  —  Ne  ho  desiderio  anch'io  e  me  ne  voglio  fare  una  scor- 
pacciata. Non  si  sa  mai  ! 

Claudia.  —  Prendetene,  prendetene  tanta  ! 

TeresiNìV  —  (mette  in  tavola  la  giuncata). 

Maurizio  —  (ne  riempie  il  sao  piatto/. 

Claudia  —  {contemjioraneamente  ne  cava  dalla  canestra  a  grosse  cuc- 
chiajate  e  se  le  caccia  in  bocca  come  per  avidità).  Buona. 

Ros.\LiA  —  (accommiatandosi/.  Con  permesso... 

Claudia.  —  Restate  ancora  un  poco.  Rosalia.  Posso  offrirvi  un  bic- 
chiere di  vino/ 

Rosalia.  —  No,  a  stomaco  digiuno  non  ne  bevo.  (Accennando  al  bimbo) 
Questo  qui  me  lo  proibisce. 

Claudia.  —  È  lui  il  tiranno? 


MATERNITÀ  -130 

iSALiA.  —  Comanda  lui.  :>"inteiKle. 

AUDiA.  —  E  avvicinatevi.  Mi  fate  venire  il  torcicollo. 

iS.\iJA.  —  Ho  dietio  di   me  un   mezzo   reggimento,  signora    bella... 

Me  ne  devo  andare. 
ACDiA.  —  Gli  altri  bimbi,  forse.' 
1S.A.LIA.  —  Uno  è  a  casa  con  la  febbre... 
ALDiA.  —  Con  la  febbre"?  Verrò  subito  a  fargli  una  visita. 
iSALiA.  —  Non  è  niente.  È  febbre  di  crescenza.  E  ce  n'è  voluto  per 

farlo  stare  a  letto.  Ma  ci  sono  gli  altri  tre.  che  non  mi  lasciano 

un  momento. 
AroiA.  —  Io  non  li  vedo. 
iSALiA.  —  Si  nascondono,  perchè  hanno  vergogna.  E  poi  son  sudici 

che  paiono  usciti  da  un  fumaiuolo. 
AuniA.  —  Non  imporla.  Fatemeli  vedere. 
isALiA  —  (voltandosi  e  cliiamaiido  con  la  voce   e  -col  gesfo).   Venite 

qua...  La  signora  vi  perdona  che  siete  in  quello  stato.  La  signora 

bella  non  vi  sgrida.  Venite  qua! 
{Tre  himhi  paffuti,  (/rasiosi.  scahi.  con   indosso  dei  brandelli  di 

panni  contadi iiesclii.  sgusciano  d((l  pergolato  e  si  aggrappaìio  con 

ambo   le    manine   alla  goìina   di   Rosalia    e    sogguardano  Donna 

Claudia  in  un  misto  di  curiosità  e  di  timor  panico  infantile). 
.AUDiA  —  {alzandosi  ancora  con  la  bocca  piena  di  giuncata).  Eccoli 

li,  finalmente  ! 
iSALiA  —  {ai  bimbi I.  Ohe.  che  stracciate  la  veste  a  mamma? 
.\uniA.  —  Come  li  avete  fatti  bene.  Rosalia! 
iSALiA.  —  Andate  a  baciare  la  mano  alla  signora. 
AL'DiA.  —  Niente  affatto!  Ci  penso  io.  invece,  a  tempestarli  di  baci. 

{Corre  a  loro  ricaccinenfe  come  per  afferrarli). 

(I  baìnbiui  fuggono,  riempiendo  l'aria  di  piccole  grida). 
-AUDiA.  —  Voi  fuggite,  ma  io  vi  raggiungo,  e  faremo  la  guerra  !(  i^/ 

rincorre  e  sparisce  tra  il  fogliame  i. 
.  VOCE  d'un  bimbo.  —  Non  mi  pigli  !  non  mi  pigli  ! 
>SALiA.  —  Cattivacci! 
.  VOCE  DI  Claudia  —  {allontanandosi}.  Che  guerra  che  faremo! 

{Si  ode  lo  strepito  gaio  dei  bimbi  che  scappano). 
a'Rizio  —  {ar.dando  rerso  il  fondo).  Donna   Claudia!  Non    vi   scal- 
manate cosL  benedetto  Dio.  È  aria  di  raftreddori! 
)SALiA  —  («  Maurizio).  È  buona  come  la  Madonna  la  vostra  signora. 

Ve  la  possiate  godeie  per  cento  anni! 
LIRIZIO.  —  Auff! 

)SAi.iA  —  {va  via  ripetendo:)  Cattivacci!  cattivacci! 
vuRizio.  —  Per  quest'altra  io  sono  a  dirittura  il  marito! 
RESINA.  —  Che  aspettate  per  sposarla? 
kURizio.  —  Sta  zitta  tu.  non  m'irritare. 
iRESiNA.  —  Quando  non  avevate  \oglia  di   sposarla,   non   dovevate 

essere  così  imprudente  ! 
URizio.  —  Fammi  la  grazia,  Teiesa.  vattene  in  cucina. 
;resixa.  —  Ho  da  s]iarecc.hiare. 

tURizio.  —  Non  vedi  che  la  signora  ha  da  mangiare  ancora  la  carne"? 
;resina.  —  Non  la  mangerà  più.  Siete  voi  che  le  fate  perdere  l'appetito. 
LURizio.  —  Non  irritarmi.  Teresa,  e  non  mi  ballare  dinanzi  agli  occhi 

che  mi  si  aggrava  il  mal  di  capo.  Ho  due  chiodi  qui!...  (Si tocca 

le  tempie). 


~2'.MÌ  .MATKMMTÀ 

Teresixa  —  (portando  ria  il  piatto  con  la-  var>ie).  He  tossi  stata  io... 
Maurizio.  —  Vaitene  in  (ucina! 

Teheslxa.  —  Neanclie  un'un^liia  mi  sarei  fatta  toccare!  lEscc  a  xiitisfra). 
La  voce  di  Claudia  —  {cliiamninio).  .Maurizio! 
.M.MRizio  —  (rispondendo).  Donna  Claudia! 

La  voce  di  Claidia.  —  lo  vado  a  casa  di  Rosalia  i>er  vcdeie   il  pic- 
cino infermo.  X'olete  venire"? 
.Maikizio.  —  Crazie,  no. 

La  voce  di  Claudia.  —  \\  la  passefr^iatiiia  del  di)|M>  |iiaii/.ii  .' 
-Mviiuzio.  —  La  faccio  al  coperto. 

La  voce  di  Claudia.  —  Torno  fra  dieci  minuti.  .Mi  aspettale.' 
.Maurizio.  —  Vi  aspetto. 

(Aììcora.  piìi  tontano,  il  gridio  dei  hiinhi). 
La  voce  di  Claudia.  --  Clie  giieiia  che  faremo  se  vi  piylio  ! 


SCENA   V. 
Teursina.  Maurizio.  .Vlkredo. 

Teresi.xa  —  {rntr(i}ido  in  fretta).  Sijrnore  !  signore!  C'è  un  signore 
elle  vuol  parlare  alla  signora. 

Maurizio  —  {perplesso).  Dio  mio!  Sarà  il  dottor  Berner.  Digli  chela 
marchesa  non  è  in  casa,  ma  che  torna  suliito.  K  intanto  può  fa- 
vorire, se  vuole. 

Alfredo  —  {dalla  sinistra).  Ti  ringrazio  del  permesso... 

Maurizio  —  {vivamente  sorpreso).  Sei  tu! 

Teresixa  —  (esce). 

Maurizio.  —  Io  non  pote\o  immaginare  che  fossi  proprio  tu. 

Alfredo.  —  lo,  al  contraiio,  avevo  immaginato  di  trovaiti  qui.  {Os- 
serva i  due  coverti).  .Non  ti  confondere.  )>erchè,  anzi,  io  ci  con- 
tavo sulla  tua  presenza.  E  il  caso  è  stato  provvidenziale.  Sono 
giunto  a  pranzo  finito,  e  mia  moglie  è  fuori.  Ciò  mi  dà  agio  di 
|)a ilare  con  te  invece  che  con  lei.  E  sarà  bene. 

.Maurizio.  —  Tua  moglie  è  andata  a  far  visita  alla  ma.ssaia  di  questo 
podere.  Oi'a  te  la  chiamo,  te  la  faccio  venire,  e  io  me  ne  vado  in 
santa  pace.  {Piglia  il  cappello  e  .^i' avvia  verso  il  fonilo). 

Alfredo  —  {feriuaniente).  Tu  non  la  chiamerai,  e  avrai  la  compiacenza 
di  ascoltarmi.  (Poi,  con  mitezza)  Vedrai  che  ho  avuto  ragione  di 
contare  su  te. 

.Maurizio  —  {resta  titubante,  interdetto). 

Alfredo.  —  Sieili  e  sfammi  attento. 
(  Siedono  amhedne i. 

.\lfredo.  —  Suppongo  che  tu  sajipia...  che  le  pratiche  per  la  separa- 
zione legale  saranno  fra  hreve  iniziate. 

Maurizio.  —  Lo  so. 

Alfredo.  —  Xè  puoi  ignorare  che  lo  scopo  essenziale  a  cui  tende  mia 
moglie  con  la  separazione  non  è  davvero  «piello  di  sottraisi  alle 
formalità  duna  unione,  la  quale  sarebbe  diventata  sempre  più 
etimera  ed  innocua.  Ella  vuole  sopprimermi  utticialmente  come 
marito  soltanto  per  sopiìrimernii  come  padre.  Ciò  sarebbe  evidente 
anche  se  ella  non  lo  avesse  più  volte  aftermato.  E  giacche  suo 
tiglio,  a  quanto  ella  asserì  con  tanta  insistenza,  non  è  mio  figlio, 
io,  a  sangue  freddo,  non  ho  potuto  che  accondiscendere  al  riscattc 


MATERNITÀ  237 

■da  lei  sognato.  In  queste  condizioni,  il  .separarsi  legalmente  non 
è  un  fine  :  è  im  mezzo.  1  termini  sono  invertiti.  .Von  è  già  clie 
bisogna  provare  l'adulterio  pei'  separarsi,  ma  bisogna  separarsi  per 
provare  l'adulterio.  Bisogna  cioè  procedere  allo  scandalo  d' ima 
separazione  per  adulterio  affinchè  venga  proclamato  dinanzi  a  lei, 
dinanzi  a  me,  dinanzi  alla  società,  dinanzi  alla  legge,  che  io  non 
sono  il  padre  della  sua  creatura. 

;rizio  —  (vivissimamente).  Xon  avresti  dovuto  accondiscendere. 
KEDO.  —  Io  ho  avuto  anzitutto  l'intenzione  di  riconoscere  tutta  la 
nobiltà  che  è  nella  sua  monomania  di  madre. 
•Rizio.  —  Tu  hai  accondisceso  quando  hai  pei'duto  ogni   speranza 
di  riconquistare  tuo  zio  e  quando,  data  la  tua  diffidenza,  non  ve- 
devi nel  figlio  di  tua  moglie  che  un  cumulo  di  grattacapi. 
REDO.  —  Ma  sono  state  ajipnnlo  la  sua  follia  e  la  sua  ostinazione 
che  hanno  soffiato  in  quella  diffidenza  per  mutarla   in   convinci- 
mento. 

jRizio  —  {(IH ima» dosi)  Se  tu  fossi  stato  un  uomo  degno  di  lei... 
REno  —  (iììfprromjirndo  co»  severità).  Bada  che  non  permetto  a  te 
di  farmi  delle  |)rediche  ! 

■Rizio.  —  Sei  tu  che  hai  desiderato  di  parlare  con  me,  e  adesso, 
perdinci,  non  m'impedirai  di  dirti  tutto  quello  che  mi  passa  pel 
capo.  Ah  no  i  Non  mi  trovi  più  disposto  a  farti  da  pertichino. 
Le  vicende,  a  cui  ho  assistito  e  nelle  quali  mi  son  trovato  com- 
plicato per  un  capriccio  del  caso,  mi  hanno  scosso  dal  mio  tor- 
pore e  mi  hanno  costretto  a  pensai'e  e  a  sentire,  rivelando  alla 
mia  coscienza  un'  anima  non  completamente  frigida  e  un  cer- 
vello non  completamente  fossilizzato.  Se  tu  fossi  stato  un  uomo 
degno  di  lei,  ella  non  avrebbe  mai  concepita  l'idea  di  emanci- 
pare la  sua  maternità  e  di  staccare  radicalmente  da  te  la  siui 
creatura.  Visto  che  la  maternità  è  stata  l'ideale  e  la  meta  della 
sua  esistenza,  ella  non  ])oteva  tollerare,  nel  fatto  compiuto,  l'in- 
tervento di  un  uomo  che  non  aveva  avuta  nessuna  qualità  per 
essere  marito  e  che  aveva  dubitato  di  lei  come  di  una  sgual- 
drina e  aveva  aspettata  la  nascita  di  un  figlio,  magari  adulterino, 
per  farne  lo  strumento  della  sua  venalità.  L'orrore  suscitato  in  lei 
dalle  miserie,  di  cui  tu  minacciavi  il  suo  altare,  ha  spinto  il  suo 
culto  sino  al  fanatismo,  ha  spinto  il  suo  attaccamento  sino  all'eb- 
brezza di  credere  e  mostrare  che  la  paternità  è  un  incidente  del 
tutto  trascurabile  e  che  su  questo  mondo,  al  conspetto  dei  figli, 
non  ci  sono  che  delle  madri  !  Ella  non  è  più  la  donna  che  procrea 
ed  è  felice  di  procreare  come  tante  altre.  No.  < Eccitandosi  e  com- 
movendosi) Ella  è  la  personificazione  imponente  e  raggiante  della 
maternità;  e,  nel  fenomeno  singolare  della  sua  meravigliosa 'mo- 
nomania, si  concentrano,  allo  stato  acuto,  gl'istinti,  i  diiitti,  le 
aspirazioni,  le  passioni,  le  gelosie  e  le  cupidità  divine  di  cento 
madri  unite  in  una  madre  sola  !  (Un  silenzio.  Poi  cambiando  tono. 
ma  ((rendo  ancora  nella  voce  le  vibrazioni  dell'animò)  Lina  volta, 
forse,  avresti  riso  sentendomi  parlare  cosi  ;  e  ne  avrei  riso  certamente 
io  stesso.  Ora,  non  ne  ridiamo  più  ne  tu,  né  io.  Ma...  siccome 
mi  accorgo  di...  di  avere  un  po'  scantonato,  me  ne  dolgo  assai 
con  me  stesso...  e  ti  prego  di  continuare  il  tuo  discorso,  libe- 
ramente. Continua,  continua. 
[Pausa] . 


i2:$S  .MATCHN/TÀ 

Ai.KKKi«()  irlii'  lo  urrà  ancoltato  acutamente  e  ne  avrà  osservato  il 
contetino.  ani  fendo  anche  lai  una  vacja  coiiiiuozionc  insolita,  ha  ora 
un  acceìito  meno  freddo  e  piìi  piano  e  lievemente  angoscioso).  Le 
tue  parole  ini  ranno  a|)|)roton(lire  anclie  di  più  la  gravità  di  ciò 
che  sto  [)er  dii'ti.  Io  ne  ho.  in  questo  momento,  vnia  sensazione 
nuova,  una  sensazione  complicata,  die  mi  paralizza,  che  mi  turba. 
Vorrei  ignorare.  Vorrei  tacere.  Ma  il  tacere  oggi  con  te  non  farebbe 
che  privar  lei  della  tua  assistenza. 

M.^L'Rizio.  —  Della  mia  assistenza  1  ! 

Alfredo.  —  Sì.  dell'assistenza  con  cui  tu.  dandole  un  triste  annunziti, 
potrai  cercare  d'attenuarno.  in  certo  modo.  1"  impressione. 

iM.vuKizio  —  {imjHillidisre).  Tu   mi  spaventi  ! 

.Vi.KHKuo.  —  Una  circostanza  inaspettata  elimina  la  necessità  dello 
scandalo  a  cui  già  mi  disponevo.  .Mia  moglie  ed  io  avevamo  .sta- 
lìilito  di  provare  in  tribunale  non  solo  l'adulterio  n)a  anche  le  sue 
conseguenze,  per  ottenere,  comunciue,  legalmente  la  sua  completa 
indipendenza  di  madre.  Oibene,  non  e'  è  più  scopo  alcuno  per  cui 
io  debba  .sobbarcarmi  alla  umiliazione  pubblica  del  marito  ingan- 
nato. Contesso  die  soltanto  la  speranza  egoistica  di  arre.stare  le 
pratiche  legali  iirima  che  si  levasse  del  rumore  intorno  al  mio 
nome  mi  aveva  istigato  a  correre  qui  per  aver  subito  un  colloquio 
con  mia  moglie... 

M.MKizio  —  [ansioso,  febbrile).  Ma  parla 'finalmente  !  Non  divagare! 
Qual"  è  questa  circostanza  inaspettata  ' 

.Vlfkkdo.  —  II  dottor  Berner  ha  creduto  suo  dovere  di  rivelare  a  me. 
marito  di  Claudia,  ciò  che  egli  ha  constatato  dopo  una  indagine 
scrupolosamente  eseguita. 

.M.vuRizio.  —  Parla  ! 

AiiiREDo.  —  Questo  tiglio...   non  potrà  nascere  ! 

.Maurizio.  -     Che  dici  ".' 

.\i.FREDO.  —  O  pensare  alla  vita  della  madre  o  giocare  tutt'e  due  le 
vite. 

Maurizio  —  [incalzando).  Ma  che  dici?! 

•Vi.FHEDO.  —  Dico  che,  per  una  fatale  contraddizione  della  natura,  il 
concepimento  medesimo  che  Claudia  invocò  ha  denunziato,  nel 
suo  organismo,  il  mal  di  cuore,  a  cui  deve  cedere  talvolta  ogni 
ambizione  materna,  e  che  nel  caso  attuale  la  scienza  esige  che  si 
affretti  il  sacrifizio  del  figlio  per  salvare  la  madre  ! 

.Mai^kizio  —  (con  uno  scatto  violentissimo).  Tu  menti  !... 

Alfredo  —  [levandosi).  Maurizio!  {Breve  pausa.  Indi  con  dolorosa  ma- 
linconia) Io  non  so  con  esattezza....  quale  sentimento  faccia  velo 
al  tuo  senno  e  ti  spinga  ad  abusare  della  mia  posizione...  sino  ad 
oTtraggiaimi.  Non  mi  riescirebbe  diflicile  trovare  ne'  tuoi  eccessi 
la  conferma...  di  molte  cose.  A  che  servirebbe?  Io  non  spero  di 
rifarmi  una  forza  moiale.  Discendo  per  la  mia  china  senza  neppur 
tentare  di  retrocedere,  e  non  mi  lesta  che  ad  aggrapparmi  a  qualche 
cespuglio  per  rendere  la  discesa  meno  rapida  e  meno  rovinosa.  Ma 
ii<m  ho  mentito.  Potrei  dartene  subilo  le  prove,  perchè  posseggo, 
sigillata,  la  dichiarazione  precisa  e  solenne  del  dottor  ISerner,  che 
soltanto  a  tUaudia  spetta  di  leggere.  Non  avrei  che  a  violarne  il 
sigillo.  Non  voglio  tarlo.  Dandomi  del  mentitore,  mi  hai  attribuito, 
in  sostanza,  il  tentativo  d'un  delitto  enorme,  lo  f  impongo...  io 
ti  supplico  di  non  credermene  capace. 


MATEKXITÀ  :3o'.> 

lURIZIo  —  {attefrito.   attonito,  ha   appena   la   forza   di  pronnnsiare 
qualche  parola).  Ho  avuto  torto...  Te  ne  ehietlo  perdono. 
{Pausa). 

KREDO.  —  Concludiamo.  Un" ora  assai  triste  :~uonerà  tra  breve  per 
Claudia.  Sarà  necessario  daj^prima  disporne  raniiuo  nel  moilo  più 
prudente,  e  poi  assisterla,  confortarla,  arrecare  qualche  sollievo  al 
suo  dolore  immenso... 

.L'Rizio  —  {assalito  dal  terrore).  No,  non  posso,  non  posso!... 

FKEDO  —  (so  fra  eccitato  dalla  tragedia  imminente).  E  vorresti  che  la 
notizia  le  giungesse  all'  improvviso  come  una  coltellata  all'oscuro? 

.URizio.  —  No  ! 

FREDo.  —  Vorresti  ch'ella  fosse  abbandonata  alla  sua  dis])prazione 
e  alla  ludezza  scientifica  del  dottor  Berner.' 

X'Rizio.  —  No  !... 

FREDO.  —  0  ch'ella  continuasse  ad  alimentare  la  sua  illusione  af- 
finchè nel  momento  dell'urgenza  il  martirio  le  fosse  intlitto  più 
terribile  e  più  raccapricciante  ? 

iRizio.  —  No  !  no  ! 

PREDO.  —  E  allora  perchè  rifiuti? 

.iRizio.  —  Perchè  non  avrei  il  coraggio  di  veder  soffrire  quella  donna 
come  nessuna  donna  ha  mai  sofferto. 

PREDO.  —  E  avresti  la  fredda  crudeltà  di  la.<ciar  ci'escere  di  ora  in 
ora  le  proporzioni  del  supplizio  sicuro  ? 

.URizio.  —  Tu  mi  soffochi. 

FREDO  —  {vivacemente).  Io  esigo  che  tu  faccia  quello  che  oramai 
cercherei  di  fare  anch'  io  se  sapessi  di  essere  la  causa  prima  di 
questa  catastrofe. 

.URizio.  —  Ma  dunque  veramente  m'accusi  ?  Ancora  m'accusi  ? 

PREDO  —  icoììcitafissimo.  sconvolto).  Io  non  ti  accuso,  lo  non  ti  giu- 
dico. Io  non  distinguo  e  non  comprendo  nulla,  io  mi  accorgo  so- 
lamente che  per  la  prima  volta  in  vita  mia  il  mio  cinismo  m'ab- 
bandona. (1) 

{Giungono   la  voce  di  Claudia  che  grida   scherzosamente  e  gli 
urletti  dei  bambini  di  Rosalia  che  le  fanno  il  chiasso  intornio). 


SCENA  VI. 
Cealdia.  Rosalia.  Maurizio.  .Alfredo. 

VOCE  DI  Claudia.  —  Corriamo,  corriamo  I...  Clii  mi  vuol  bene,  ap- 
presso mi  viene  ! 

Risponde  lo  schiamazzo  del  bimbi. 
{Alfredo  e  Maurizio  si  guardano  Vun  l'altro  negli  occhi,  quasi 
interrogandosi  a  vicenda,  e  hanno  lo  stesso  brivido). 
\UDi.A.  —  {attraversa  il  pergolato  facendo  le  viste  di  correre,  seguita 
a  poca  distanza  dai  bambini  vocianti,  iuebbriati  dal  giuoco).  Cor- 
riamo !  corriamo  ! 

VOCE  DI  Ros.^LiA  —  {in  gran  lontananza).  Attenti  per  il  pozzo,  ra- 
gazzi, attenti  per  il  pozzo  ! 

(1)  KoTA  PER  GLI  ATTORI.  —  Dallci  battuta  :  «  No  !  non  posso  »  fino  a  questo 
Ito  il  dialogo  deve  essere  affrettatissimo,  febbrile. 


:240  MATERNITÀ 

La  voce  di  Ci..\ri)iA.  —  Di  che  avete  paura,  Rosalia"?  il  paraitetto  è 
alto... 

L.\  VOCE  ni  Rosalia.  —  Ma  saltano  come  i  i>r\U\  (juesti  diavoloni. 

La  voce  di  Claudia.  —  Hopplà,  hopplà... 

La  voce  di  Rosalia.  —  Non  ve  li  totilieiete  più  d"  attorno,  sijrnoia 
bella  ! 

Alfredo  —  {paurosamente  a  Maiirisio).  Mi  ha  visto? 

Maurizio.  —  No...  non  credo. 

Alfredo  —  (hi  fretta  prende  il  cappello,  avviandosi  verso  la  porta  a 
sinistra) . 

Maurizio.  —  Non  fuggire  così  !  Se  ella  ti  scorgesse... 

Alfredo.  —  Non  mi  scorgerà. 

Maurizio.  —  La  serva  glielo  dirà  che  qualcuno  è  stato  qui. 

Alfredo.  —  Dovrai  dirglielo  anche  tu  che  ci  sono  stato. 

Maurizio.  —  Appunto  per  questo  la  tua  fuga  è  inutile. 

Alfredo.  —  Lasciami  andare... 

Claudia.  —  Hopplà.  hopplà!...  Siamo  arrivati.  {Entra  tutta  affilata 
tenendo  in  mano  un  ramo  fronzuto,  rossa  in  viso,  ansimante,  i  ca- 
pelli in  disordine,  le  pupille  risplendenti  ;  e  nel  vedere  il  marito 
lo  apostrofa  con  festosa  ironia).  Oh.  oh!  Quale  ajiparizione  !... 
{Senza  fermarsi,  tutta  affaccendata,  apre  la  credenza). 

Alfredo  —  {si  ferma). 

La  voce  di  Ros.\lia.  —  Luigino!  Tolò  !  Nanuccia  !  Subito  t|ua  ! 

Claudia.  —  No,  no,  un  momento. 

(J  himhi  sono  comparsi  sotto  il  pergolato  e  son  rimasti  aggrup- 
pati, mezzo  nascosti  nel  verde). 

Claudia.  —  La  signora   bella   vuol   dare  le  cose  buone  ai  diavoloni. 
{Prende  dalla  credenza  una  ìwnhonnii're.  A  Maurizio)  Sono  ancora 
i  vostri  bonbon s :  quelli  deiraltro  Jeri.  Devono  essere  igienici! 
{Maurizio  e  Alfredo  la  contemplano  con  profondo  strazio). 

Claudia  —  {torna  all'aperto,  si  accosta  ai  bambini  e  distribuisce  i  bon- 
hons).  Due  a  te.  due  a  te,  due  a  te,  e  uno  -  uno  solo  -  per  il  fra- 
tellino malato.  {Li  bacia  e  li  sospinge  dolcemente).  A  rivederci,  a 
rivederci,  diavoloni  cari. 

I  bambini  spariscono. 

\j.\  VOCE  DI  Rosalia  —  {lontanissima).  Qua  Nanuccia!  Qua  Luigino! 

Claudia  —  {rientrando,  a  Maurizio).  Voi  direte  che  mi  agito  troppo... 
Ma  siete  un  ignorante.  Il  moto  è  indicatissiino.  {Ad  Alfredo)  E 
così,  caro  marchese,  a  quale  evento  devo  l'onore  di  questa  visita'^ 
{Porgendogli  la  scatola  scoverchiata)  Volete? 

Alfredo  —  {fa  appena  un  gesto  di  diniego). 

Claudia.  —  Io,  si.  {Mette  in  bocca  un  bonbon).  A  voi,  Maurizio:  ser- 
vitevi, se  è  la  vostra  ora  per  gli  zuccherini  :  e  riponete. 

Maurizio  —  {studiandosi  di  parer  disinvolto).  \i  servo.  {Esegue). 

Claudia  —  (ad  Alfredo,  sempre  con  gaiezza  di  sovreccitazione).  Del  resto, 
proprio  in  questi  giorni  io  pensavo  di  offrirvi...  un  abboccamento. 
C'è  più  d'un  dettaglio  importante  su  cui  sarebbe  tempo  d'inten- 
derci meglio.  E  se  voi  mi  avete  prevenuta,  io  ve  ne  sono  vera- 
mente grata.  Intanto  seggo...  perchè  non  ne  posso  più.  {Il  suo  volto 
ha  i  segni  d'uno  sjiasimo  passeggero.  Si  abbandona  sopirà  una 
sedia.  Breve  pansa).  Sedete  anche  voi,  vi  prego.  {Ripigliando  il 
tono  allegro)  Parleremo  come  due  vecchi  amici.  A  condizione  però 


MATERNITÀ  ^241 

che  smettiate  qiiell'aiia  truce,  che  non  vi  sta  bene.  Capisco  che 
dobbiate  adottarla  per  Tocchio  del  mondo  ;  ma  qui  non  è  il  caso. 
Cominciate  voi"?  o  comincio  io'? 

Alfredo  —  {seiisa  serìere  -  mendicando  le  parole).  No,  Claudia...  io. 
che  sono  per  voi  un  estraneo,  e  che  tale  mi  sento  di  essere,  non 
ho  nulla  a  dirvi. 

CLAfDi.\.  —  E  la  vostra  visita  '? 

Alfredo.  —  Convengo  d'aver  commesso  un  errore  venendo  qui. 

Cl.ìudia.  —  Eppure,  una  ragione  Tavrete  avuta  per  venire. 

Alfredo.  —  Sì... 

Claudia   —  Quale? 

Alfredo  —  {smarrendosi).  Cercavo  di  lui...  di  Maurizio... 

Claudia.  —  Non  potevate  vederlo  in  città"?  Maurizio  non  abita  mica 
in  questa  casa. 

Alfredo.  —  Ed  è  perciò  che  ho  confessato  d'aver  commesso  un  errore. 

Claudia.  —  Per  altro,  se  venivate  precisamente  qui  per  trovar  Mau- 
rizio, sapevate  bene  di  non  trovailo  solo. 

Alfredo.  —  È  vero. 

Claudia.  —  Sicché  avevate  stabilito  di  pailargli  dinanzi  a  me. 

Alfredo.  —  Forse. 

Claudia.  —  11  vostro  forse  non  ha  senso  comune.  Non  avete  che  a 
rispondei'e  o  francamente  s'i  o  francamente  no. 

Alfredo.  —  Ebbene,  sì.  dinanzi  a  voi  volevo  parlargli... 

Claudia.  —  Dunque,  si  trattava  di  me. 

Alfredo  —  (sempre  piìt  imharazzato).  Si  trattava  anche  di  voi.., 

Claudia.  —  Ed  avete  già  esaurito  Targomento"?... 

Maurizio  —  [intervenendo,  con  uno  sforzo).  Si,  signora  Claudia,  ab- 
biamo temuinato. 

Cl.audia.  —  Spero  che  mi  farete  sapere  di  che  cosa  vi  siete  occupati. 

Maurizio.  —  Lo  saprete,  lo  saprete. 

Claudia.  —  Io  voglio  saperlo  subito. 

Maurizio.  —  Subito,  non  è  possibile. 

Claudia.  —  .Ma  che  aspettate  "? 

Maurizio.  —  Prima  di  piendere  una  decisione,  dobbiamo  riflettere.. 
dobbiamo  ponderare... 

Claudia.  —  Voi  due  state  per  prendere  una  decisione  che  mi  riguarda, 
una  decisione  della  cui  importanza  non  dubito  visto  che  essa  ha 
fatto  già  tacere  i  vostri  rancori  e  vi  ha  già  riuniti  in  una  solida- 
rietà cosi  bizzarra,  e  io  dovrei  ancora  ignorare  quel  che  mi  pre- 
parate? (<S'/  leva.  Guarda  l'uno  e  l'altro,  cercando  d'intuire,  di  ca- 
pire, cV  indovinare). 

(Alfredo  e  Maurizio  pallidissimi,  immobili,  vorrehìtero  sottrarsi- 
air intuito  di  lei,  e  non  sanno). 

Un  silenzio. 

Claudia  —  (con  profonda  trepidazione).  Voi  mi  nascondete...  una  .-«ven- 
tura"? (Pausa).  (Si  trasforma  in  viso  e  con  una  mano  nei  capelli 
pare  che  voglia  premere  il  cervello  per  fermarne  il  pensiero  ver- 
tiginoso). Ma  di  quale  sventura  vi  affaticate  tanto  a  ritardare  fan- 
nunzio?  Di  quale  sventura  io  vi  sembro  la  vittima  se  fuori  della 
mia  persona,  fuori  della  vita  che  è  tutta  chiusa  nella  mia  vita, 
nessuna  sventura  può  essere  veramente  mia?  (Un  altro  silenzio).. 

16  VoL  evi,  Serie  IV  -  IH  luglio  190.3.. 


'ii'^l  MATERNITÀ 

\'oi    tacete  come  due   colpevoli...  come  due  responsabili...  E  al- 
lora... è  una  infamia  quella  che  mi  riserbate! 
Alfredo.  —  No,  Claudia  ! 

Claudia.  —  È  un'infamia,  sì,  sì,  è  un'infamia,  di  cui  l'autoie  princi- 
pale sei  certamente  tu,  giacché  tu  sei  il  mio  nemico  I 
Alfredo.  —  Non  lo  sono  jtiù,  non  saprei  esserlo  più  ! 
Claudia  —  {con  <jli  occìn  fiammanti  di  odio).  Tu,  tu,  la  causa  d'ofrni 

male,  la  minaccia  d'ogni  bassezza  ! 
Alfredo.  —  Ah  Claudia  !  Con  la  ferocia   del    vostro   sdegno   voi   mi 
strappate  dal  cuore  (juel  jioco  di  bontà  che  mi  pareva  ci  fosse  en- 
trala, non  so  come,  non  so  perchè,  in  un  quarto  d'ora  vissuto  in 
questa  casa.  Sarebbe  stato  molto  meglio  che  me  ne  fossi  allontanato 
prima  che  voi  arrivaste...  E  non  ci  resterò  più  oltre  per  non  esaspe- 
larvi    maggiormente   e    per  conservare,  se    non    altio,   intatto  il 
ricordo  di  qualche  cosa  che  m'è  passata  stranamente  per  l'anima, 
facendomi  soffrile  e  facendomi  del  bene!  {Prende  il  cappello  per 
uscire). 
Claudia.  —  No,  tu  non  mi  lascerai  sotto  l'incubo  di  mille  dubbi  atroci!... 
(Gli  si  aifiirappa  addosso  trattenendolo).  Dimmi  tutto,  dimmi  tutto, 
te  lo  chiedo  in  grazia,  dininii  tutto! 
Alfredo  —  {si  ferma). 
Claudia  —  (se  ne  distacca). 
Maurizio  —  {fa  (jiialclie  passo  verso  di  lui). 

Alfredo  —  {a  Claudia,  con  dolcezza  e  gravità).  C'è  una  sventura  che 
vi  asjìetta:  non  un'infamia.  Anche  questa  sventura,  è  vero,  ha  un 
responsabile...  in  colui  che  vi  ha  resa  madre.  E  la  misteriosa  indi- 
pendenza della  maternità  nasconde  nella  vostra  coscienza  il  suo 
nome.  Se  il  responsabile  sono  io,  maleditemi!  (Commosso)  Ma  se 
realmente  non  cade  su    me   la   funesta    responsabilità,  Claudia... 
odiatemi  un  poco  meno!  11  documento  che  affido  a   Maurizio   vi 
dirà  a  suo  tempo  che  avete  avuto  torto  di  aggrediiini  cosi.  (Cara 
di  tasca  una  busta  e  la  porge  siihito  a   'Maurizio). 
M.U'Rlzio  —  {va  per  impadronirsene  gridando.)  Alfredo! 
Claudia  —  {afferra  il  documento  con  un  rapido  atto  felino),  ilio! 
Alfredo  —  {esce  rapidamente). 

(jLAUdia  —  {impiedi,  tremrmdo,  tremando  come  se  il  suo  corpo  fosse 
squassato  dal  vento,  lacera  la  busta,  apre  la  carta,  legge.  A  ogni 
parola  il  suo  volto  diventa  piii  terreo,  piii  contratto,  piii  stecchito, 
e  le  sue  pupille  si  dilatano). 
Maurizio  — •  {nel  terrore  e  nella  paura  d'una  crisi  ferale,  ne  vigila  le 
alterazioni  spa ventose). 

{Quando  ella  ha  letto  rnltima  parola,  le  sue  pupille  restano 
spalancate  in  una  fissità  vitrea.  La  sua  persona,  ritta,  irrigidita, 
barcolla.  -  Maurizio  corre  a  sostenerla,  la  trascina  a  una  sedia, 
dove  ella,  inerte,  si  lascia  adagiare). 


SIPARIO. 


MATERNITÀ  M'Ò 


ATTO  (QUARTO. 


La  stessa  scena.  --  È  notte.  —  Sulla  credenza  un  lume  acceso.  —  La  porta 
che  dà  sul  pergolato  è  aperta. 


SCENA  I. 
Rosalia,  Suor  Filomena  e  Clauiha. 

Rosalia  —  (è  sola.  S'inginocchia  in  messo  alla  camera  e  prega).  Ma- 
donna di  Roccaromita,  Madonna  nostra,  Madonna  santa  e  pietosa. 
Regina  di  pietà  per  tutte  le  mamme  sante  clie  soffrono,  per  tutte 
le  mamme  che  portano  nel  cuore  la  bontà  e  nelle  viscere  il  frutto 
die  Dio  ha  destinato  e  il  dolore  che  Dio  ha  comandato;  Madonna 
nostra  Ijenedetta  dal  Sionore.  benedetta  in  cielo  e  in  terra,  bene- 
detta dalle  mamme  poverelle  che  hanno  partorito  sopra  letti  di 
paglia  e  dalle  ricche  d'ogni  bene  che  hanno  partorito  sopra  letti 
di  penne  e  di  seta,  benedetta  da  quelle  che  hanno  vista  la  morte 
con  gli  occhi,  benedetta  da  quelle  che  hanno  visto  nascere  il  tiglio 
in  mezzo  alle  rose;  Madonna  santa  e  pietosa.  Regina  di  pietà  e 
di  soccorso,  soccorretela  voi  questa  signora  bella,  proteggetela  voi 
questa  signora  buona,  benignatevi  di  darle  la  salute  per  lei  e  per 
l'angelo  suo,  e,  se  Dio  non  vuole  così,  benignatevi...  di  darle  la 
forza  di  soffrire!  {Resta  inginocchiata,  in  silensio). 

Slor  Filomena  —  {salta  soglia  della  porta  a  destra,  sommessamente). 
Rosalia... 

Rosalia  —  (levandosi).  Eh? 

Suor  Filomena.  —  È  rinvenuta.  Ha  chiesto  da  bere. 

Rosalia.  —  Come  Gesù  sulla  croce,  Suor  Filomena  ! 

Suor  Filomena.  —  Presto  dell'acqua,  per  favoie. 

Rosalia.  —  Vi  servo. 

Suor  Filomena  —  {sparisce). 

RosALi.A  —  {prende  nn  bicchiere  e  il  lume,  si  accosta  al  posso,  e  dalla 
secchia  che  e  sul  parapetto  versa  Vacqua  nel  bicchiere.  Ritorna. 
Rimette  il  lume  sulla  credensa.  Va  alla  porta  a  destra  e  sottovoce 
chiama:)  Suor  Filomena  ! 

Suor  B^ilomena.  —  {rientra). 

Rosalia  —  {dandole  il  bicchiere  colmo).  Se  poteste  metterla  a  letto... 

Suor  Filomena.  —  Lo  so.  Ma  non  vuole.  {Via). 

Rosalia  —  {resta  presso  la  porta  in  ascolto). 

La  voce  di  Claudia  —  {piena  di  paura).  Non  ancora!  non  ancora! 
Aspettate  ! 

La  voce  di  Suor  Filomexa.  —  Tranquillatevi.  Sono  io,  sono  io.  Suor 
Filomena. 

La  voce  di  Claudia.  —  1  miei  carnefici  ! 

La  voce  di  Suor  Filomena.  : —  No,  no  ! 


':244  MATERNITÀ 

La  voce  ni  Ci.aldia.  —  Sono  di  là!... 

La  vocf.  di  Srou  Fii.o.mena.  —  No,  signora  (llaudia... 

Yn  silenzio. 

Rosalia  —  (cecini 'io  rciiire  Claudia,  si  scosta  e  si  rincaìif, uccia  in  un 
angolo  oscuro  come  per  nasconrìersi,  (juardando  attenta  e  ansiosa). 

(li.AiDiA  —  (/)/  una  vestaglia  bianca  coi  capelli  sparsi  sulle  spalle,  si 
acansu  rapidainente.  Poi,  non  vedendo  nessuno,  si  ferma  rassi- 
curata. E  disfatta.  Gli  occhi,  dentro  le  orbite  infossate,  lianno  una 
fredda  lucentezza  bianca). 

Suor  Filomena  —  [la  segue  a  distanza,  vigile  e  serena). 

Cl.\1'DI.\  —  (a  Suor  Filomena,  con  una  specie  di  dolce  rancore).  \"oi 
mi  seguite  sempre,  Suor  Filomena  !  Sempre  ! 

Suor  Filomena  —  {con  un  gesto  di  umiltà  devota  si  scusa). 

Claldia.  —  È  questa  la  consegna  "? 

Sl'OR  Filomen'.\  —  (ha  un  altro  gesto  uhiilniente  affermativo). 

Clai'dia  —  {dopo  una  pausa).  Non  c"è  il  signor  Maurizio"? 

Suor  Filomena.  —  No,  è  andato  via. 

Claudia.  —  Da  quanto  tempo  "? 

Suor  Filomena.  —  Da  circa  cinque  ore. 

Claudia.  —  Cosi  lungamente  sono  stata  priva  di  sensi"? 

Suor  Filomena  —  (attenuando).  Eravate  come  assopita. 

Claudia.  —  E  dove  è  andato  il  signor  Maurizio"? 

Suor  Filomena.  —  In  città. 

Claudia.  —  Nel  cuore  della  notte  "? 

Suor  Filomena.  —  La  Teresina  gli  ha  potuto  far  liovare  giù.  in  paese, 
una  carrozza  con  due  buoni  cavalli.  E  con  la  stessa  carrozza  egli 
sarà  di  ritorno,  non  più  tardi  dell'alila. 

Claudia.  —  Ve  l'ha  detto"? 

Suor  Filomena.  —  Ne  era  sicuro. 

Claudia.  —  Perchè  cosi  presto  se  tutto  era  stato  fissato  per  mezzo- 
giorno ? 

Suor  Filomena.  —  In  verità,  il  signor  Maurizio  s'è  un  fio'  impensie- 
rito della  crisi:  e  allora  ha  deciso  di... 

Claudia.  —  Di  anticipare  il  martirio. 

Suor  Filomena.  —  No...  Di  condurre  subilo  qualche  dottore... 

Claudia.  —  Ho  inteso  :  il  dottor  Berner  coi  suoi  assistenti  !  (  Un  silen- 
zio). Che  ora  è"? 

Suor  Filomena.  —  Sarà  poco  più  delle  quattro. 

Claudia.  —  Quanto  ci  vuole  per  l'alba  ? 

Suor  Filo.mena  —  (reticente).  Una  mezz'ora,  credo. 

Cl.u'dia.  —  Mezz'ora.  (Riflette.  Poi  di  scatto)  Non  entreranno  all'im- 
provviso, Suor  Filomena"? 

Suor  Filome.va.  —  Certamente  no.  La  poita  di  strada  è  ben  chiusa. 
11  signor  Maurizio  dovià  picchiare. 

Rosalia  —  (timida).  Picchierà  tre  volte,  come  al  solito.  .Mi  ha  avver- 
tito apposta  di  non  aprire  se  non  sento  i  Ire  colpi  alla  porta. 

Claudia  —  (che  non  s'era  accorta  di  lei).  Perchè  sei  qui  anche  tu"? 

Rosalia.  —  È  il  signor  Maurizio  che  m'  ha  fatto  chiamare.  Ha  voluto 
che  la  Teresina  se  ne  andasse  a  casa.  La  poveretta  cascava  dal 
sonno. 

Claudia.  —  Non  voglio  tanti  guardiani  !  \'a  via.  (Quasi  con  asprezza) 
Tu  hai  i  tuoi  tigli  che  ti  aspettano. 


MATERNITÀ  245 

Rosalia.  —  Dormono  tutti,  signora  bella. 

Claudia  —  (piìi  dolcemente).  Non  dai  più  latte  al  piccino"? 

Rosalia    —  Sì,  ma  lui  dorme  come  gli  altri,  adesso.  È  cosi  tranquillo  ! 

Claidia  —  Uli  nuovo  con  asprei:3a).  Va   via  ! 

Ros.ALiA  —  {rassegnata,  otjtjediente.  si  avi-ia  verso  il  fondo.  Indi  si 
volta  con  gli  occhi  imploranti). 

Claudia.  —  Vieni  qua... 

Ros.ALiA  —  (le  si  avvicina  con  le  lagrime  agli  occhi).  Signora  bella  ! 

Claudia  —  {prendendole  le  mani).  Grazie,  mia  Rosalia.  Lo  so  che  vor- 
resti aiutarmi.  Ma  che  puoi  fare  tu  per  me"?  Che  puoi  fare"? 

Rosalia  —  Voi  non  volete  eh'  io  resti  qui,  e  non  ci  resterò.  Passo  un 
momento  per  casa  mia  e  poi  andrò  a  pregare  in  chiesa.  E  sarà 
meglio.  La  chiesa  dev'essere  già  aperta,  perchè  si  apre  ogni  giorno 
un'ora  prima  dell'alba,  lo  ci  entrerò  ginocchioni,  signora  bella,  e 
bacerò  la  polvere  della  terra,  e  la  bagnerò  di  lacrime  finché  avrò 
occhi  per  piangere,  e  alla  nostra  Madonna  dirò  ancora  con  le  pa- 
role e  con  l'anima  tutto  quello  che  sai)rò  dire,  come  se  fosse  per 
me  stessa  e  per  i  figli  miei  ! 

Claudia  —  {impressionota.  coìifìdenziale).  E  che  speri  tu"? 

Rosalia.  —  È  lei  che  ha  salvata  la  vita  di  tante  mamme  ! 

Claudia.  —  La  mia,  pur  troppo,  non  corre  più  nessun  pericolo,  Ro- 
salia I 

Rosalia.  —  È  lei  che  ha  salvata  la  vita  di  tanti  figli. 

Claudia.  —  Quando  erano  già  nati  I 

Ri)S.\LiA.  —  È  lei  che  faià  per  voi  il  più  grande  miracolo  suo  ! 

Claudia  —  [esaltandosi  a  un  tratto. pazzamente).  Ah  sì...  Il  più  grande! 
Il  più  grande  !  Lo  spero  anch'  io  !  Lo  spero  perchè  lo  voglio.  È 
vero,  è  vero,  Rosalia!  È  vero!...  Tu  puoi  aiutarmi.  Tu  sola,  tu 
sola  puoi!  Va,  va  a  pregare  per  me...  Va  a  pregare  per  me!  (La 
sospinge  verso  il  fondo.  L'abbraccia  e  bacia). 

Ros.Ai.iA  —  (esce). 


SCENA  11. 
Suor  Filo.mena  e  Claudia. 

Suor  Filomena  —  (quasi  immobile  nella  sua  serenità  semplice,  osserva 
tutto  e  contempla  Claudia  con  intensità  indagatrice). 

Claudia  —  (dritta,  con  le  braccia  penzoloni,  abliandonafe  nelle  lunghe 
maniche  che  le  nascondono  le  mani,  si  aggira  lenta  per  la  camera, 
guardando  intorno  come  se  cercasse  qualche  cosa.  A  un  punto,  si 
ferma,  e,  torcendo  il  collo,  fìssa  gli  sguardi  sul  pozzo,  die.  nella 
oscurità,  biancheggia  appena,  come  una  tomba.  Indi,  con  dissimu- 
lazione, distoglie  dal  pozzo  gli  sguardi  e  si  rirolgc  alla  monaca 
con  la  voce  tremante  di  palpiti).  Suor  Filomena... 

Suor  Filomena.  —  Signora. 

Claudia.  —  Vorrei  riposare. 

Suor  Filomena.  —  Vi  gioverebbe. 

Claudia.  —  Compiacetevi  di  prepararmi  il  letto. 

Suor  Filomena.  —  È  già  preparato. 

Claudlv.  —  Allora...  vi  prego...  precedetemi...  Aprite  le  finestre... 
Fate  entrare  dell'aria...  Lì  dentro  non  si  poteva  respirare... 

>i  OR  Filomena  —  (impallidisce.  Ma  non  un  passo,  non  un  gesto). 


i24tì  .MATERNITÀ 

Ci-AfniA.  —  Suor  Filomena  !  Non  mi  avete  udito  ? 

Suor  Filomena.  —  Sì. 

Ci.AiDiA.  —  Ebbene? 

Suor  Filomena  —  {con  accento  mite,  ma  fermo),  lo  non  vi  lascio  sola, 
pignora. 

CLAiniA.  —  Per  un  istante... 

Suor  Filomena.  —  lo  non  vi  lascio  sola  !  {Si  accosta  a  lei  amorosa- 
mente) Mettetevi  a  letto,  signora  Claudia. 

Clal'Oia  —  ^cupamente).  No!  (Poi  con  dolcezza,  conte  per  impietosirla) 
Non  volete  concedermi  un  poco  di  libertà? 

Suor  Filomena.  —  .Von  de%'o. 

Claudia.  —  Siete  il  mio  carceriere  ? 

Suor  Filomena.  —  Sono  la  vostra  infermiera. 

Claudia   —  Se  foste  la  mia  amica!... 

Suor  Filomena.  —  Sono  la  vostra  amica,  anche. 

Claudia.  —  Non  è  vero. 

Suor  Filomena.  —  Perchè? 

Claudia.  —  Perchè  non  sapete...  non  potete  sapere  ! 

Suor  Filomena.  —  lo  so  quanto  mi  basta  per  esservi  amica. 

Claudia.  —  Non  potete  sapere  !... 

Suor  Filomena.  —  Io  so  che  lì,  nell'ombra,  quel  pozzo  vi  attira  come 
un  rifugio,  come  un  asilo  di  salvezza.  So  che  in  questo  momento 
un  solo  pensiero  vi  possiede  e  v'invade  tutta,  ed  è  il  pensiero  di 
sottrarvi  al  martirio!... 

Claudia.  —  Ma  non  è  concesso  a  voi  di  misurare  1" immensità  di  questo 
martirio  ! 

Suor  Filomena.  —  Nei  panni  dell'umile  suora  che  vi  sta  davanti  c'è 
una  donna,  signora;  e  sono  i  suoi  dolori  di  donna,  i  suoi  dolori 
più  profondi  e  più  umani  ciie  hanno  dato  alla  povera  suora  il 
privilegio  di  comprendere  e  soccorrere  i  dolori  altrui. 

Claudia.  —  Voi  dunque  mi  comprendete? 

Suor  Filomena.  —  Sì. 

Cl.\udia.  —  Mi  comprendete  e  m'impedite  di  morire? 

Suor  Filomena.  —  Sì. 

Claudia.  —  E  quale  soccorso  mi  offrite  ? 

Suor  Filomena.  —  Nessun  soccorso.  Vi  offro  soltanto  l'esempio  di  ehi 
probabilmente  ha  sognato  come  voi,  di  chi,  come  voi,  avrà  visto 
svanire  fra  le  miserie  del  mondo  i  suoi  sogni  più  belli  ! 

Claudia  —  (prorompendo).  Lo  vedete  che  siete  tanto  lontana  da  me... 
.Non  è  un  sogno  il  mio,  non  è  un  sogno  oramai.  È  una  realtà. 
Voi  non  immaginate  neppure  quale  differenza  ci  sia  fra  il  sogno 
che  svanisce  e  la  realtà,  la  realtà  concreta,  materiale,  palpitante, 
che  si  frantuma  nel  più  vivo  della  vita  ! 

Suor  Filomena.  —  .Ma  se  è  la  morte  che  invocate  !... 

Claudia.  —  La  morte,  la  morte  appunto,  prima  che  mi  si  strappi  dalle 
viscere  la  mia  creatura  !... 

Suor  Filomena.  —  E  non  sarebbe  identica  la  rinunzia  ? 

Claudia.  —  No,  perchè  la  mia  creatura  verrebbe  con  me.  perchè  con 
me  morirebbe,  della  medesima  morte,  intendete  ?,  nel  medesimo 
attimo.  Neanche  Dio  me  la  potrebbe  togliere  ])iù,  e  nessun  po.s- 
sesso  di  madre  sarebbe  stato  mai  più  vero  ed  intero  di  questo  ! 
{La  stanchezza  e  le  sofferenze  incalzano  ;  ma  ella,  con  lo  sforzo 
della  sua  rolontà  indomahile,  continua  a  parlare,  eccitandosi  sino 


MATERNITÀ  247 

alla  freuesia).  La  sentenza  pronunziata  ieri  dai  tre  dottori  che 
vennero  qui  a  torturarmi  di  nuovo  non  era  che  la  conferma  di 
quella  ben  ciiiara,  ben  precisa,  che,  per  ordine  del  vecchio  Berner, 
era  stata  da  nie  letta  tino  da  un  mese  fa.  In  questo  mese  non  mi 
si  è  sorvegliata  tanto  severamente  come  da  ieii  vi  ostinate  a  sor- 
vegliarmi voi.  Mi  sarebbe  riuscito  forse  facile  di  sfuggire  alla  sor- 
veglianza e  di  finirla...  E.  disgraziatamente,  non  V  ho  fatto.  Non 
r  ho  fatto  perchè,  in  fondo,  m'illudevo.  Mi  sentivo  ancora  abba- 
stanza resistente...  Non  volevo,  non  volevo  convincermi  che  si  na- 
scondesse in  me  una  così  territ)ile  rovina  !  Ma  da  qualche  giorno 
mi  sento  molto  male.  Suor  Filomena,  molto  male,  molto  male  !... 
Sono  persuasa  oramai  che  ì  dottori  hanno  i-agione.  {Come  osses- 
sionata) Fra  pochi  minuti  udremo  bussare  alla  porta...  Fra  pochi 
minuti  verranno!...  Verranno  per  dilaniarmi  il  corpo  e  l'anima, 
per  impossessarsi  di  mio  figlio,  per  ucciderlo,  per  mettere  in  salvo 
la  mia  vita  !...  lo  sono  perduta  !  lo  sono  perduta.  Suor  Filomena, 
io  sono  perduta  se  voi  non  mi  lasciate  morire  ! 

Suor  Filome.\a.  —  Dio  mio,  fate  che  io  abbia  il  coraggio  e  il  potere 
di  combattere  contro  questa  sventurata  ! 

Claudia  —  (gettandosi  ai  suoi  piedi  e  a  poco  a  poco  lagrimando  in  mia 
fiduciosa  effusione  di  dolore).  Chiedetegli,  chiedetegli  piuttosto 
r  ispirazione,  il  consiglio  della  carità  che  io  chiedo  a  voi.  Vi  giuro 
di  non  esserne  indegna.  Non  sono  stata  una  perversa,  non  ho  ve- 
ramente sentito  odio  per  chi  mi  ha  tradita,  non  ho  invidiato,  non 
ho  peccato  nemmeno  nei  sensi,  perchè  l'amore  per  l'amore  non 
1"  ho  conosciuto...  Pensate  che  il  condannarmi  a  vivere  sarebbe 
una  crudeltà  senza  confronti  !  lo  non  vi  dico  di  resfare  qui  a  ve- 
dermi morire...  No,  no  !...  Lo  so  che  questo  non  è  possibile...  Al- 
lontanatevi, dunque...  Io  dichiarerò  in  iscritto  d'avervi  ingannata... 
Dichiarerò  di  esservi  sfuggita...  Implorerò  il  vostro  perdono...  E  lo 
imploro  anche  adesso,  anche  adesso  per  le  torture  clie  infliggo  alla 
vostra  coscienza...  Ma  rispondetemi...  rispondetemi...  Conunovetevi 
per  me...  Non  siate  così  spietata!...  Non  siate  così  inesorabile! 

ScoR  FiLO.MEXA  —  (con  desolazione),  lo  sono  custode  d'una  legge  che 
impone  a  noi  mortali  di  non  disporre  della  nostra  vita. 

Claudia.  —  È  della  vita  di  mio  figlio  che  io  voglio  dispoi-re  per  im- 
pedire che  ne  dispongano  gli  altri  ! 

Suor  Filo.mena.  —  È  la  stessa  legge  divina,  mia  povera  martire,  che 
non  ve  lo  consente. 

CL.iuniA  —  {drizzandosi  impetuosa  in  un  repentino  risveglio  di  ener- 
gia). Ma  chi  siete  voi  clie  credete  d'intendere  la  legge  divina f 
Essa  è  tutta  qui,  qui,  nel  mio  sangue,  nella  mia  carne...  Io  la 
sento!  io  la  sento!...  Essa  mi  sostiene...  Essa  mi  protegge...  Essa 
mi  rende  così  forte  che  nessuno  in  questo  momento  è  più  forte 
di  me  !  (Si  slancia  verso  il  fondo). 

Suor  Filomena  —  (sulla  soglia,  le  sbarra  il  camìiiino  con  le  braccia 
spalancate,  disegnando  nella  penombra  la  sagoma  della  croce).  Dio 
mio,  fate  che  io  abbia  il  coraggio  e  il  potere  di  combattere  contro 
questa  sventurata  ! 

Claudia.  —  Suor  Filomena,  io  vi  abbatterò  se  voi  non  mi  lasciate 
passare  ! 

Suor  Filomena.  —  Sono  forte  e  protetta  anch'  io,  mia  povera  martire. 

Claudia.  —  (va  fino  a  lei  con  le  mani  protese  e  minacciose.  Non  osa 


:>48  .MATEUxrrÀ 

toccarla.  Retrocede.  Si  ac/ita  qualche  istante  per  lei  camera,  fremendo 
e  dibattendosi  come  in  un  delirio  di  ferocia.  Si  arresta  col  capo 
arrovesciato  in  un  atto  di  estrema  invocazione.  Grida:)  No!  sono 
io  che  posso  ancora  tutto.  {Si  getta  a  terra  disperatamente). 

jSroR  Fn.OMENA  —  {dando  un  urlo  di  terrore,  accorre.  Si  china  su  lei. 
La  cjuurda,  le  solleva  la  fronte,  la  chiama).  Sijjnora  Claudia  !  Si- 
gnora Claudia!...  Signora  Claudia!... 

CL.A.UDIA.  —  Silenzio  !..  E  la  morte. 

Sl'or  Fn.oMEXA.  -    Vedo. 


«Claudia  —  (sostenuta  da  Suor  Filomena,  erge  un  poco  il  torace.  Boc- 
cheggia. Le  linee  del  volto  si  contorcono  dolorosamente,  ma  i  suoi 
sguardi  pajono  limpidi  in  una  espressione  di  gioia).  Ho  vinto  !... 
Il  grande  miracolo  è  compiuto!...  {Incrocia  strettamente  le  braccia 
sul  petto).  Con  me...  con  me...  (Abbandona  il  capo.  Muore). 

SroR  FiLOMEN.\  —  (volgendo  gli  ocelli  al  cielo,  serenamente).  Accogliete, 
Signore,  fineste  due  anime... 

Tre  colpi  alla   |)orta  ili  strada. 
SIPARI»). 


;  Fine). 


Roberto  Bracco. 


LA  TEORIA  DELL'EROE 

IX  T.  CARLYLE  e  F.  NIETZSCHE 


Nel  secolo  xix  le  Arti,  rotte  le  linee  tradizionali  in  cui  lo  spirito 
antiquato  del  classicismo  le  aveva  rinserrate,  e  conquistata  la  libertà 
della  forma,  vennero  via  via  adattandosi  alla  vita  d'ooni  giorno,  chie- 
dendo a  questa  ispirazioni  nuove  e  portandole  il  contributo  di  nuove 
idee;  vennero  quindi  al  pari  di  qualunque  altro  istituto  o  funzione  so- 
ciale lentamente  democratizzandosi. 

Strappate  alla  contemplazione  dei  vecchi  ideali  di  bellezza  che, 
se  iuron  negli  antichi  tempi  parte  integrante  e  necessaria  della  vita, 
ne"  moderni  servivano  soltanto  a  sviare  gii  ingegni  negli  oziosi  labi- 
rinti delle  dilettazioni  formali,  si  rivolsero  con  giovenile  impeto  a  stu- 
diare la  società  sboc-iata  fuori  dai  grandi  rivolgimenti  economici  e  po- 
litici tutta  rinnovata  negli  spiriti  e  nelle  forme. 

Di  qui  la  letteratura  popolare;  -  popolare  purtroppo  anche  nella 
lingua  e  nello  stile,  che  assai  spesso  si  accontentarono  e  si  compia- 
cquero di  apparenze  volgari  e  dimesse,  tanto  da  suscitare  poi  la  rea- 
zione in  parte  benefica  dei  gelidi  Parnassiani  e  di  tutti  i  cenacoli  che 
fanno  pili  o  meno  direttamente  capo  al  decadentismo  :  ma  popolare 
sopratutto  neiranima,  in  quanto  non  vi  fu  più  speranza  o  lotta  o  sven- 
tura pubblica  che  non  trovasse  nelle  arti  la  sua  voce  e  il  suo  atteg- 
giamento. E  se  non  mancarono  le  sterili  esagerazioni  di  aspetti  e  di 
nomi  diversi  -  rami  secchi  dell'albero  del  romanticismo  -  in  complesso 
la  letteratura  del  secolo  passato  ci  appare  intesa  con  ininterrotta  serie 
di  tentativi  e  di  sforzi  ad  accostarsi  alla  vita  pratica,  per  diventare 
una  forza  viva  nel  seno  della  società. 

Vi  fu  quindi  un  apparente  trionfo  dell' individualismo,  in  quanto 
ognuno  conquistò  la  sua  forma,  foggiò  il  suo  pensiero,  manifestò  la 
sua  anima  non  da  stilista,  ma  da  filosofo  e  da  cittadino  ;  ma  in  realtà 
chi  trionfò  fu  Taggregato  democratico,  appunto  percliè  dalla  nuova 
smania  investigatrice  e  dal  confuso  cozzo  d'opinioni,  di  tendenze  odi 
sètte  sorse  non  solo  una  più  vasta  e  profonda  conoscenza  della  società, 
ma  quasi  \\n  tipo  medio  di  pensiero  letterario,  che  fu  l'espressione 
genuina  della  coscienza  collettiva.  Sorse  un  elemento  nuovo  d'arte: 
la  folla:  che  se  pur  tenuta  nell'ombra,  fece  sentire  il  misterioso  pulsare 
della  sua  anima  attraverso  alle  pagine  dello  scrittore. 

Si  cominciò  a  comprendere  come  bisognasse  scrivere  per  qualche 
cosa  e  non  già  pel  solo  gusto  di  contemplare  il  proprio  lavoro,  o  di 
presentarlo,  ridicolo  feticcio,  all'adorazione  di  pochi  iniziati:  come 
l'arte  non  fosse,  né  potesse  essere,  una  categoria  astratta  fuori  del  pen- 


ÌÌÓ(>  LA    TEORIA    DELI/EROE   IN    T.    CARLYLE    E    E.    NIETZSCHE 

siero  e  della  vita  :  e  questo  fu  essenziale.  Arte  quindi  di  analisi  che 
forse  nessun  ingegno  pei-  quanto  vasto  potè  in  se  slesso  riassumere, 
tanto  incalcolabili  ne  furono  gii  effetti  e  disparate  le  manifestazioni  : 
arte  analitica,  che  dell'  uomo  e  dei  ]wpoli  descrisse  tutte  le  conVin- 
genze,  rivelò  tutti  i  pensieri  e  i  dolori,  parlò  la  voce  di  tutti  i  giorni 
e  di  tutti  i  fatti. 

L'«  uomo  medio  »  di  Quetelet.  che  fu  il  prodotto  delle  scienze 
rivolte  allo  studio  dell'aggregato  umano,  fu  innalzato  in  letteratura 
alla  dignilJi  consueta  di  Eroe.  Che  se  non  radi  manipoli  d'artisti  stac- 
catisi dall'esercito  dei  «  naturalisti  »  presero  diletto  nell'  indagare  e 
nel  ritiarre  quanto  di  strano  o  di  morboso  ])resenta  il  mondo  della 
materia  e,  meglio  ancora,  della  psiche,  bisogna  considerare  tal  feno- 
meno come  eccezionale  deviazione  dalla  profonda  coirente  del  secolo. 

La  mente  moderna  riceve  dal  mondo  esterno,  di  giorno  in  giorno 
più  caotico  e  complesso,  impressioni  troppo  varie  e  incalzantisi,  è  essa 
stessa  troppo  frammentaria  per  poter  indugiarsi  a  foggiar  uomini 
grandi,  che  abbiano  in  così  alto  modo  tutte  le  buone  e  cattive  qualità 
dei  nostri  tempi  da  esserne  i  rappresentanti  ideali.  L'individuo  si  perde 
nel  brulichio  dei  suoi  simili,  e,  né  può  abbracciare  colla  mente  la 
molteplicità  varia  e  spaventosa  de'  fenomeni  sociali,  né  può  dell'opera 
sua  riempiere  il  mondo. 

1  tempi  non  volgon  propizi  per  gli  Uomini  //^/ alla  Emerson,  per 
gli  Eroi  alla  Carlyle,  per  i  Siipenwmini  alla  Nietzsche.  Questi  uomini 
ideali  anno  cervelli  eminentemente  semplici  e  sintetici,  sono  essi 
stessi  sintesi  viventi,  mentre  la  coscienza  nostra  è  più  che  mai  ana- 
litica, e  più  die  mai  iito  e  intralciato  è  il  campo  delle  nostre  cono- 
scenze. 

La  democrazia  à  detronizzato  gli  idoli,  idtimo  fra  questi  il  Gran- 
d'uomo,  ed  à  collocato  sé  .stessa  al  loro  posto.  Avvenne  un  duplice 
moto  :  della  demociazia  verso  la  scienza,  e  di  questa  verso  quella.  La 
democrazia  più  non  appagandosi  dell'  infantile  spiegazione  religiosa 
circa  i  misteri  della  natura  e  dell'uomo,  ne  richiese  la  scienza:  e 
questa  rispose  negando  Dio,  i  disegni  della  Provvidenza,  la  vita  ul- 
traterrena, la  libertà  e  la  sovrannatiuale  missione  dell'uomo.  Che  anzi 
tentò  di  colmare  l'abisso  separante  da  tutti  gli  altri  l'essere  umano 
collocando  questo  molto  in  basso  vicino  agli  altri  animali,  dai  quali 
lo  fece  differire  soltanto  per  gradi  e  per  forme,  non  per  qualità  ed 
essenza. 

Disse  che  una  molecola  di  ferro  resta  pur  sempre  una  ed  identica 
sia  che  traversi  gli  spazi  in  un  aerolito.  o  scorra  nelle  vene  di  una 
giumenta,  o  batta  in  globoli  sanguigni  alle  tempia  di  un  poeta.  Ed 
aggiiuise  non  esservi  di  ijrande  e  di  duraturo  altro  che  la  specie,  alle 
cui  leggi,  volente  o  nolente,  l'individuo  caduco  e  trascurabile  obbedisce. 
.Alla  radice  della  natura  umana  à  posto  l'istinto  della  conservazione 
della  specie,  facendo  di  questa  non  un  composto  casuale  e  caotico  di 
esseri,  ma  un  tutto  organico,  solido  e  sensibile:  e  come  subordinò 
l'individuo  alla  specie,  così  sottopo.se  questa  alle  eterne  leggi  della 
materia.  11  dualismo  tra  spirito  e  materia  disparve,  e  tutto  si  ridusse 
a  materia  fornita  di  forze. 

Allora  le  tradiziojiali  teorie  antropomorfiche  e  antropocentriehe 
parvero  crollare  fatalmente  per  semjire  in  cumuli  di  macerie:  e  parve 
che  dopo  il  grande  cataclisma  morale  lumanilà  si  fermasse  attonita 
e  dubbiosa,  forse  lieta  e  forse  in  fondo  triste  dell'opera  compiuta.    E 


LA   TEORIA    DELL  EROE   IN    T.    CARLYLE   E    E.    NIETZSCHE  ;25t 

venne  il  periodo  dello  scetticismo  intellettuale  e  morale  solito  a  se- 
guire le  profonde  rivoluzioni.  L'uomo  non  fu  ])iiì  Fanima  della  terra, 
né  questa  fu  più  il  centro  dell'universo. 

Contro  tale  stato  del  pensiero  filosofico  e  letterario  si  levarono  due 
voci  sonore  or  di  maledizione,  or  di  sarcasmo:  voci  di  due  anime  che 
si  piacquero  in  fantasie  e  pensieri  divinizzanti  1"  uomo  e  le  sue  fa- 
coltà, che  l'uomo  vollero  di  nuovo  riposto  sui  vecchi  altari,  celebrandolo 
l'una  come  immagine  divina  sulla  teira.  l'altra  come  il  sereno  Re  al 
cui  piacere,  al  cui  dominio,  alla  cui  gioia  tutto  deve  servire. 

Una  di  queste  due  grandi  voci  fu  eminentemente  cristiana,  o  me- 
glio, religiosa,  ed  ebbe  parole  non  ignote  a  Platone,  ed  impeti  e  gridi 
che  ricordano  gli  antichi  profeti;  l'altra  fu  voce  jiagana,  dolce  e  calda 
spesso  come  quella  dei  poeti  Greci  celebranti  la  bellezza  della  vita, 
talvolta  rudemente  temprata  come  quella  degli  antichi  latini. 

Tommaso  Carlyle  e  Federigo  Nietzsche,  filosofi  e  poeti,  risveglia- 
rono con  miracolo  improvviso  il  senso  dell'individualità  umana  che 
si  andava  smarrendo:  ambedue  furono  accolti  da  acclamazioni  e  da 
grida  di  scherno:  ambedue  chiamarono  a  i accolta  tutti  coloro  che  in 
letteratura  e  in  filosofìa  rifuggono  dalle  masse  umane,  e  adorano  l'in- 
dividuo bello  nella  sua  forte  solitudine;  ambedue  eressero  una  teoria 
che  sopra  il  mareggiamento  delle  folle  schiave  dei  bisogni  e  della  in- 
nata mi.seria,  collocò  l'uomo  affrancato  dalle  umili  leggi  del  branco, 
l'uomo  re  di  se  stesso  e  degli  altri,  la  creatura  che  è  guida  al  bene 
e  a  Dio.  o  die  è  l'incarnazione  della  libera  volontà  e  della  gioia 
fiduciosa. 


Per  Tommaso  Carlyle  la  storia  dell'umanità  si  riduce  ad  una  serie 
di  biografìe  di  Eroi,  o  almeno  la  vita  degli  Eroi  ne  è  l'anima,  il  fuoco 
centrale. 

Qualunque  sia  il  nome  con  cui  furon  chiamati  -  Dio.  profeta,  l'e. 
poeta,  sacerdote  -  qualunque  sia  la  missione  che  quaggiù  compirono, 
l'umanità  deve  ad  essi  ogni  sua  luce  ed  ogni  suo  bene. 

Un  ebete  branco  sospinto  dall'aculeo  de'  bisogni  bestiali,  ecco 
l'umana  famiglia,  se  araldi  di  Dio  sulla  terra -non  apparissero  gli 
Eroi;  coloro  che  debbono  accendere  segrete  fiamme  nei  cuori,  e  driz- 
zare gl'intelletti  oltre  l'angusto  cerchio  delle  futili  apparenze  alla 
divina  Realtà,  e  mostrare  ai  poveri  occhi  ciechi  «  l'aperto  secreto  del 
mondo  »  perchè  vi  sappian  discernere  le  leggi  della  vita,  e  le  genuine 
espressioni  di  una  volontà  sovrannaturale. 

L'uomo  ])rimitivo  è  tro])po  debole  e  schiavo  del  fardello  della  ma- 
teria per  poter  camminare  diritto  ad  una  meta,  per  poter  anche  sol- 
tanto discernerla.  Una  gran  \ìln  oscura  gli  batte  nel  petto  con  rombo 
assiduo;  egli  è  un  caos  di  idee  e  di  desideri. 

Egli  sente  amore  e  sgomento  per  la  natura  piena  di  tremende  bel- 
lezze e  di  forze  ignote  ond'  è  cinto  e  minacciato;  sgomento  sopratutto 
pel  fondo  silenzio  umano  che  gli  sta  attorno,  pel  silenzio  torbido  del 
proprio  cuore. 

Ed  ecco,  al  suono  di  una  voce  provvidenziale  il  cuore  inarticolato 
trova  ciò  che  da  tanto  tempo  cercava,  la  parola,  l'essenza  cioè  delle 
cose.  Suona  l'eroica  voce,  e  il  terrore  si  dissipa,  e  gli  attoniti  occhi 
cominciano  di  tra  i  veli  che  si  squarciano  a  discernere  nell'  «  aperto 
segreto  ».  L'adorazione  dei    rudi    cuori    non  più    ferini  e  non  ancora 


25^  LV    TEORTA    OEI.L'EROE    IX    T.    C.VIU.VI.E    E    K.    NIETZSCHE 

umani  ])er  TEioe  che  à  compiuto  il  miracolo,  e  quindi  genuina  e 
legittima. 

Quando  poi  la  fede  primitiva  degenera  in  idolatrie  grossolane,  e 
di  nuovo  gii  uomini  sono  intenti  alle  forme  bugiarde  e  non  alla  di- 
vina essenza  delle  cose,  e  la  coscienza  del  popolo  naviga  fra  gii  abissi, 
incerta  come  nave  senza  bussola  o  nocchiero,  ceco  di  nuovo  rinviato 
della  Provvidenza,  che  abbattendo  i  bugiardi  fantocci  e  svelando  la 
verità,  riaccende  la  fede  nella  serietà  della  vita,  e  mostra  come  questa 
debba  esser  vissuta.  Attorno  a  lui,  come  a  nucleo  centrale,  si  andrà 
il  poco  a  poco  raggruppando  e  costituendo  una  nuova  società  rigenerata. 

Così  allorché  popoli  sventurati,  malsicuri  di  lor  forze  e  di  loro 
destini,  giacciono  in  balìa  di  popoli  violenti,  ecco  di  nuovo  1'  Eroe  a 
trasfondere  in  tutti  la  genuina  sincerità  del  suo  gran  cuore,  la  ga- 
gliardia  del  suo  braccio,  a  integrare  in  solido  fascio  le  sparse  inutili 
forze  per  condurle  alla  vittoiia.  E  così,  allorché  un  popolo  giunto  alla 
pienezza  del  suo  sviluppo  si  ripieghei'à  quasi  stanco  su  se  stesso  col- 
i'orecchio  teso  alle  glorie  trascorse,  o  si  darà  alla  affannosa  ricerca 
di  nuove  strade,  ecco  nuovamente  il  mandato  da  Dio  in  veste  di  le- 
.gislatore  o  di  poeta  :  il  primo  inteso  a  santificare  le  conquiste  nuove 
della  morale  e  dell'utilità  sociale,  il  secondo  natuiai  voce  di  un'epoca 
•che  voleva  esprimersi,  e  che  del  passato  dirà  le  glorie  e  le  vittorie. 
■e  dell'avvenire  le  sante  speranze.  Sempre,  sotto  qualunque  cielo,  in 
qualunque  età  gii  umani  àn  combattuto  e  vinto  e  progredito  per  viiiù 
degli  Eroi.  Sempre  chiusero  questi  nelle  forti  mani  il  destino  dei  po- 
poli, e  ne'  magnanimi  cuori  le  gioie,  le  ire  e  le  parole  degne  di  non 
andar  perdute. 

Certo  questo  modo  di  comprendere  la  storia  è,  e  fu  detto,  meta- 
fisico; ma  però  non  si  è  dinanzi  ad  una  metafisica  faticosamente  in- 
tessuta di  sofismi  e  di  sottigliezze  verbali,  ma  ad  una  metafisica  spon- 
tanea, direi  quasi  po])olare. 

Che  cosa  infatti  di  sostanzialmente  diverso  à  semjtre  creduto  il 
popolo,  ed  anche  l'uomo  dotto,  sino  al  sorgere  della  moderna  so- 
ciologia? 

La  storia  umana  per  il  popolo  come  ]ier  i  dotti  è  un  tpiadro  dove 
campeggiano  sovra  uno  sfondo  grigio  e  confuso  poche  luminose  figure: 
in  esse  è  tutta  l'espressione  del  quadro,  anzi  tutto  il  quadro.  È  quasi 
una  necessità  dello  spirito  il  personificare  un"età  od  un  popolo  in  un 
grand' uomo.  Nella  vita  quotidiana,  man  mano  che  si  procede  negli 
anni,  noi  gettiamo  dalla  nostra  memoria  l'inutile  zavorra  delle  nozion- 
celle analitiche,  dei  lievi  ricordi,  degli  innumerevoli  piccoli  fatti;  e  per 
CQntrapposto  osserviamo  crescere  e  giganteggiare  in  noi  pochi  ricordi  di 
pochi  fatti  ;  ma  in  essi  è  il  succo  di  tutti  gli  altri,  in  essi  è  l'anima  di 
quanto  abbiamo  appreso  o  vissuto.  .\llo  stesso  modo  i  popoli  dimen- 
ticano presto  le  i)iccole  vicende  (quelle  che  il  Carlyle  chiameiebbe  fu- 
filifi)  e  apixirciisc)  e  le  turbe  che  la  morte  ha  inghiottito,  e  che  per 
un'ora  liempirono  farla  del  loro  ronzìo,  simili  a  sciami  di  moscerini  : 
ma  non  dimenticano  i  grandi  fatti  e  i  grandi  uomini,  che  sono  sempre 
tia  loro  in  relazione  di  causa  ad  effetto. 

Succede  ai  popoli  come  a  chi  si  allontani  su  nave,  che  vede  dap- 
prima sparire  gli  oggetti  più  umili,  poi  confondersi  in  una  unica  mac- 
chia grigiastra  gli  alberi  e  le  case  della  riva,  e  questa  macchia  farsi 
tenue  e  quasi  diafana.  Alfine  anch'essa  sparisce,  e  contro  f  azzurro 
del  cielo  si  accampa  ancora,  sola,  la  bruna  massa  del  monte. 


I.A    TEORIA    DEI.l"£ROE    IX    T.    CARLYLE   E    F.    NIETZSCHE  'Ìb3 

Che  avvenne  degli  antichissimi  popol?  delle  loro  lotte,  dei  loro 
piati,  delle  loro  canzoni"?  L'oblio  li  a.  travolti  in  sua  queta  fiumana, 
sulla  quale  galleggiano  ancora  pochi  nomi  :  tutto  quanto  è  rimasto 
d"un  mondo.  Poi  tra  secoli,  fra  decine  di  secoli,  anche  quei  nomi, 
quei  punti  luminosi  spariranno,  si  spegneranno:  e  dattorno  non  saran 
più  che  eguali  tenebre  ed  eguale  oblio. 

La  Grecia  antica  vive  per  i  poemi  d"Omero:  e  TEroe  che  la  salvò 
attraverso  le  vicende  di  tre  millenni,  per  molti  secoli  ancora  non  la 
lascierà  cadere  dalla  memoria  degli  uomini,  che  già  d'altri  popoli  ben 
più  iirossimi  d'età  anno  scordato  i  latti  e  presto  scorderanno  i  nomi, 
appunto  perchè  nessuna  eroica  voce  li  fece  risuonare  nell'universo. 

In  che  cosa  dunque  può  parere  strana  la  teoria  di  Carlyle? 

In  etfetto  noi  stessi,  con  tutto  il  nostro  materiali-«mo  storico  e  il 
nostro  spirito  critico  e  la  nostra  multiforme  sociologia,  guardiamo  istin- 
tivamente la  storia  umana  cogli  ocelli  di  Carlyle.  Per  noi  stessi  Sparta 
all'inizio  di  sua  forza  è  sintetizzata  in  Licurgo;  gli  Israeliti  vendi- 
cantisi  a  libertà  e  cosliluentisi  a  Stato  in  Mosè;  Atene  vittoriosa  e 
alacre  e  ricca  e  gaudiosa  e  armonio.sa  in  Pericle:  Roma  dibattentesi 
fra  cristianesimo  e  paganesimo,  fra  credenze  vecchie  e  nuove  speranze, 
mentre  già  i  barbari  premono  alle  frontiere,  in  Costantino.  Chi  di  noi 
pensa  o  può  pensare  ai  patimenti  degli  ebrei,  alla  semplice  vita  degli 
Spartani,  agli  arconti,  ai  sofisti,  ai  mercanti,  ai  senatori,  agli  schiavi, 
ai  preti  di  Atene  o  di  Roma?  Basta  un  nome,  un  gran  nome,  a  illu- 
minarci con  sùbita  luce  le  oscure  regioni  dei  ricordi  e  della  storia; 
un  nome,  un  gran  nome  di  uomo  che  abbia  sofferto,  lavorato,  com- 
battuto per  tutti;  in  lui  si  assomma  tuttociò  che  gli  altri  anno  fatto. 

Giusta  dunque  come  pratica  costante  e  necessaria  del  pensiero,  il 
quale  par  abbracciai-e  amplissimi  periorli  di  storia  à  bisogno  di  dense 
sintesi,  la  teoria  di  Cailyle  appare  mistica  per  il  significato  attribuito 
agli  Eroi,  che  sono  gì"  iiiriafi  di  Dio.  Cj.sì  parlavano  i  profeti,  così 
doveva  pensare  Omero  quando  chiamava  i  suoi  re  «  pastori  di  popoli 
prediletti  da  Giove  ». 

Tommaso  Carlyle  fu  anima  profondamente  religiosa,  che  non  com- 
prese la  religione  come  qualcosa  di  ristretto  a  formule  di  dogmi  e 
parvenze  rituali,  ma  come  una  fede  ampia  ed  ardente  che  deve  avvol- 
gere tutta  la  vita  dell'uomo  e  determinarne  la  pratica.  È  quindi  natu- 
rale che  egli  vedesse  nella  religione  il  fatto  principale  così  riguardo 
all'uomo  che  alle  nazioni. 

«  Io  non  chiamo  religione  la  professione  e  l'affermazione  di  articoli 
di  fede,  le  quali  sono  spesso  soltanto  professione  e  affermazione  delle 
azioni  esteriori  dell'uomo,  della  mera  sua  ragione  argomentante,  se 
|)ure  sono  tanto  profonde.  Ma  la  cosa  che  l'uomo  crede  ijraticamente 
(e  ciò  bene  spesso  senza  affermarla  neppure  a  se  stesso  e  tanto  meno 
agli  altri),  la  cosa  che  l'uomo  à  praticamente  a  cuore,  e  ritiene  certa 
riguardo  alle  sue  vitali  relazioni  con  questo  misterioso  universo,  ri- 
guardo al  suo  dovere  ed  al  suo  destino  quaggiù,  ecco  in  ogni  caso  per 
lui  la  cosa  più  importante  che  creativamente  determina  tutto  il  resto  *. 

Non  fa  meraviglia  quindi  ciie  per  Carlyle  diventasse  perno  cen- 
trale della  teoria  sugli  Eroi  il  concetto  metafisico  di  Fichte:  non  essere 
le  cose  di  questo  mondo  se  non  un  involucro  di  sensibile  apparenza 
celante  l'essenziale  Realtà,  cioè  la  «  divina  Idea  del  mondo  ». 

L'uomo  è  una  divina  apparizione,  venuta  da  un  mondo  invisibile 
dove  dovrà  ritornare,  dopo    una    breve  vita  quaggiù  sospeso  fra  due 


454  I.A    TEOHIA   deli/eroe    l.V    T.    CARLYI.E   E    K.    NIETZSCHE 

solenni  silenzi:  quello  degli  astri  e  quello  delle  tombe.  L"  Eroe  è  Tarma 
di  cui  la  Provvidenza  si  seive  per  attuare  i  suoi  disegni  in  mezzo  al- 
l'umana famiglia.  Tutta  la  sua  vita  è  una  battaglia,  è  il  compimento 
di  una  missione. 

Mentre  per  altri  fllosotì  (ad  esempio,  pel  Mazzini  che  ebbe  con 
r  Inglese  famigliarità  e  molti  e  profondi  tratti  di  somiglianza  spiri- 
tuale) il  Grand'uomo  non  è  che  il  frutto  maturo  di  un'età  e  di  una 
società,  per  Carlyle  invece  è  il  germe  da  cui  età  e  società  usciranno 
e  si  svilupperanno.  Mentre  quelli  fanno  del  Grand'uomo  una  forza 
subordinata  o  almeno  coordinata  all'età  e  all'ambiente.  Carlyle  ne  fa 
una  forza  indipendente  e  provvidenziale  che  suU'  ambiente  e  sull'età 
deve  intluire.  Di  qui  una  delle  affermazioni  più  insistenti  di  lui:  che 
r  Eroe  sotto  qualunque  cielo  in  qualunque  tempo  è  identico,  è  sempre 
«  intimamente  della  stessa  stoffa  »  per  quanto  possa  venir  chiamato 
con  nomi  diversi.  Egli  è  l'uomo  provvidenziale,  è  sempre  una  genuina 
realtà  :  tutto  il  resto  non  è  che  «  ombra  che  par  persona  ».  Odino, 
Maometto.  Dante,  Shakespeare.  Cromwell,  Lutero,  Johnson,  Goethe, 
sono  egualmente  messaggeri  iteli'  infinito  ignoto  e  ce  ne  recano  novella: 
escono  direttamente  dall'  intimo  fatto  delle  cose,  vivono  ed  hanno  da 
\  ivere  in  quotidiana  comunanza  con  esso.  Sono  della  stessa  stoffa  adun- 
que, soltanto  differiscono  dall'accoglienza  che  anno  incontrato  quaggiù. 

«  Il  culto  degli  Eroi  varia  di  continuo  :  differente  in  ogni  età,  è  in 
ogni  età  diffìcile  a  ben  praticarsi.  In  fatto  si  può  dire  che  il  vero  com- 
pito di  un'età  si  riduca  al  ben  professarlo.  Il  culto  di  un  Eioe  è  la 
trascendente  ammirazione  per  un  grande,  lo  dico  che  i  grandi  uomini 
sono  ancora  ammirabili,  dico  che  in  fondo  non  c'è  altro  di  ammi- 
rabile... Anche  la  religione  si  forma  su  questo  culto...  Culto  degli  Eroi, 
cordiale  ammirazione,  sommessione  ardente  sconfinata  per  una  nobi- 
lissima, i)er  una  divina  forma  d'uomo,  non  è  questo  il  germe  dello 
stesso  cristianesimo?  » 

Se  infatti  persino  l'adorazione  di  una  pianta,  di  un  animale,  di 
una  stella  fu  per  interi  popoli  e  intere  età  un  santo  dovere,  ed  ebbe 
in  sé  alcun  significato,  quanto  più  non  poteva  averne  quella  d'un 
Eroe?  Anche  nelle  nostre  età  attossicate  da  scettico  criticismo  sgreto- 
latore,  noi  siamo  ancora,  secondo  Carlyle,  indotti  dal  naturale  istinto 
a  cercai-e  1"  Eroe,  e  ad  ammirarlo  quando  ci  è  dato  di  rintracciarlo. 
Suffragio  politico,  jtartiti.  parlamentarismo,  tutto  si  liduce  infine  a 
scegliere  i  migliori,  quelli  a  cui  tutti  gli  altri  obbediranno  con  gioia. 

Certo,  i  romorosi  metodi  moderni  di  scelta  non  valgono  gran  che: 
devesi  anzi  ad  essi  precipuamente  se  nella  Eroiarcìiia,  che  è  la  spina 
dorsale  della  nostra  come  di  ogni  umana  società,  alcuni  sono  falsi  eroi, 
non  sono  cioè  d'oro  puro,  pur  rappresentando  oro.  Ma  come  in  com- 
mercio, se  si  può  andar  innanzi  con  molte  monete  false,  non  lo  si  può 
con  tutte,  che  si  finirebbe  al  fallimento,  cosi  nella  vita  politica  quando 
tutti  coloro  cui  è  commesso  il  comando  sono  d'oro  falso,  si  precipita 
nelle  rivoluzioni.  Il  difficile  sta  dunque  nel  trovar  l'Eroe,  ma  trovatolo 
è  giusto  che  tutti  gli  prestino  adorazione. 

Ogni  popolo  in  ogni  età  cerca  l'Eroe;  qualclie  volta  lo  cerca  e  lo 
chiama  invano  :  la  Provvidenza  non  1"  à  mandato  e  i  tempi  volgono 
a  rovina.  Cuore  magnanimo,  indomita  fermezza,  genuina  inconscia  sin- 
cerità, tutte  le  caratteristiche  del  Grand'uomo  mancano  agli  imbelli 
tempi  se  egli  manchi:  e  allora,  nell'assenza  di  ogni  cosa  buona,  fio- 
risce il  cultu  delle  parvenze,  delle  futilità,    delle  caducità.  1  secoli  di 


LA   TEORIA   DEM.  EROE    IN    T.    CARl.YLE    E    F.    NIETZSCHE  ÌW 

decadenza  s' ingegnano  assai  bene  nelle  cliiaccliiere  criticlie  e  così 
dette  scientifìclie  ;  ma  le  «  età  eroiche  »  in  un  «  eroico  silenzio  »  par- 
lano con  la  voce  di  magnitìci  fatti. 

Le  chiacchiere  scientifiche!  Ecco  veramente  ciò  che  Carlyle  odia, 
ciò  che  sferza  spesso  col  suo  feroce  sarcasmo  ;  poiché  è  opera  pazza 
il  volere  spiegare  con  quattro  nomenclature  l'universo,  il  divino  e  mi- 
sterioso universo,  «  come  se  fosse  una  povera  cosa  morta  da  rinchiu- 
dersi in  bottiglie  di  Leyda  e  da  vendersi  nelle  botteghe  ». 


Anche  Federigo  Nietzsche  à  spesso  amare  parole  contro  la  scienza: 
ma  mentre  il  filosofo  inglese  la  odia  come  la  gran  nemica  del  senti- 
mento religioso,  il  tedesco  sente  in  essa  «  odor  di  palude  con  graci- 
damenti  di  rane  »,  e  la  dispiezza  perchè  da  una  parte  mette  capo  ad 
un  mostruoso  idolo,  lo  Stato,  dall'altra  finisce  col  sottomettere  1" uomo 
alle  leggi  della  reciprocansa,  col  rinserrarlo  nel  cerchio  sempre  più 
angusto  di  una  morale  da  branco,  sminuendogli  ogni  giorno  di  più  la 
forza  dell'arbitrio. 

Lo  scrittore  inglese  considerava  la  scienza  da  mistico,  il  tedesco 
da  anarchico  morale  quale  fu  in  realtà.  «  Il  mondo  ora  non  è  divino 
se  non  per  gli  eletti;  pure,  esso  è  una  cosa  ineffabile,  verso  la  quale 
la  migliore  attitudine  per  noi  dopo  tutta  la  no.stra  scienza  è  il  rispetto, 
la  devota  prosternazione,  e  l'umiltà  dell'anima  »  -  grida  Carlyle. 

Dice  il  Nietzsche:  «  Sopra  tutte  le  cose  si  stende  il  cielo  del  caso, 
il  cielo  dell'  impreveduto,  il  cielo  del  capriccio.  E  questa  libertà  e  sere- 
nità celeste  io  posi  al  pari  di  un'azzurra  cupola  sopra  tutte  le  cose, 
allorquando  insegnai  che  né  oltre  loro  né  in  esse  alcuna  volontà  eterna 
si  manifesta  ». 

Necessariamente  dalla  diversa  concezione  dell'universo  -  religiosa 
e  mistica  in  Carlyle,  atea  e  materialista  in  Nietzsche  -  derivano  delle 
l)ròfonde  differenze  nel  rispettivo  modo  di  considerare  e  di  spiegare  il 
Grand' uomo. 

L'opera  di  costui  non  può  per  Carlyle  restringersi  alla  vita  di 
quaggiù,  dove  quella  cosa  silenziosa  e  indefessa  che  si  chiama  tempo 
finisce  per  avvolgerci  nella  sua  onda,  sulla  quale  noi  e  l'opera  nostra 
galleggiamo  per  un  istante,  come  parvenze  che  sono  e  poi  noti  sono 
piiA,.  No:  v'è  una  divina  realtà  oltre  l'involucro  di  sensibile  apparenza: 
v'è  un  «  al  di  là  ».  Quelli  che  non  sanno  spingervi  lo  sguardo  per- 
dono il  tempo  in  futilità  :  pos.sono  levar  molto  rumore,  molta  polvere, 
ma  poi  il  rumore  si  attutisce,  la  polvere  dilegua,  ed  è  di  loro  come 
se  non  fosser  vissuti.  Ma  l'Eroe  porta  in  se  stesso  il  fuoco  che  sa  incen- 
dere et  accendere,  e  legge  nel  cielo  un  grande  principio,  un  grande 
insegnamento  che  possa  essere  come  un  vessillo  attorno  al  quale  tutti 
gli  uomini  si  stringano.  E  per  questo  vessillo  l'Eroe  deve  combattere 
e  sperare  e  soffrire  ogni  ora  della  sua  vita,  tutta  la  vita. 

Così  si  spiega  il  disinteresse,  l'altruismo,  lo  spirito  di  sacrificio 
di  tutti  gli  Eroi  carlyniani,  i  quali  non  operano  per  sé,  non  operano 
neanche  secondo  un  piano  prefisso  :  un'ascosa  forza  li  muove,  inconsci 
spesso  e  sempre  schietti  come  la  natura,  di  cui  non  sono  che  una 
mirabile  forza.  Non  cercano  la  ricchezza,  non  la  potenza,  non  la  gloria: 
tali  futilità  verranno  non  desiderate  ad  essi,  che  potrebbero  far  loro 
le  parole  di  Cristo:  «  11  nostro  regno  non  è  di  questa  terra  ». 


t>.ó(j  LA  TEORIA  r)i:i,i."i;R()i-:  in  t.  cAUi.Yi.t;  e  k.  mut/.sche 

E  Gian  Giacomo  Rousseau,  cl)e  tante  doti  eroiche  ;i  pure  come  let- 
terato, non  si  salverà  dai  riniprovei'i  di  Carlyle,  appunto  perdiè  sof- 
ferse di  una  miserabile  fame:  quella  della  gloria;  appunto  percliè  il 
contingente  e  il  caduco  distolsero  spesso  i  suoi  occhi  dall'e/er/fo  e 
dal  reale. 

(vosì  si  spiega  anche  perchè  il  Carlyle  [irediliga  gli  Eroi  die  altro' 
non  ebbero  ali"  infuori  della  loro  grande  anima,  e  lasci  nelTombra  quelli 
che  sulla  scena  del  mondo  jìarvero  rappresentare  le  parti  più  importanti 
di  re  e  di  imperatori.  Egli  più  che  al  successo  guarda  al  nieiito.  più 
che  all'esteriore  ali"  interno;  quindi  se  per  Dante  e  Shakespeare  à 
parole  di  affetto  e  di  adorazione  di  cui  non  conosco  le  più  eloquenti, 
venera  pure  letterati  che  passarono  quasi  sconosciuti  fra  gli  uomini, 
che  certo  non  varcarono  i  confini  della  lor  terra,  come  Roberto  Burns 
«  balzato  fuori  di  tra  mezzo  alle  artificiali  figure  di  cartapesta  del  secolo 
decimosettiino  quasi  sorgente  nei  deserti  rocciosi  ». 

Per  tutto  Cfuesto  è  naturale  che  il  mistico  inglese  ammiri  assai 
scarsamente  Napoleone,  adorato  invece  dal  Nietzsche  quale  perfetta 
immagine  dell'uomo  che  riesce  ad  affermare  la  sua  vittoriosa  e  onni- 
potente volontà.  Oliviero  (aomwell  appaie  agli  occhi  dell'  Inglese  assai 
più  glande  del  Bonaparte.  «Le  enormi  vitloiie  di  costui  che  si  este- 
sero a  tutta  r  Europa,  mentre  il  campo  d'azione  di  Cromwel  si  limitò 
alla  piccola  Inghilterra,  non  sono,  per  dir  così,  che  gli  alti  trampoli 
sui  quali  l'uomo  si  vede  salito  :  la  statura  dell'uomo  per  essi  non  muta. 
Non  trovo  in  lui  sincerità  pari  a  quella  del  Cromwell...  »  E  più  oltre 
conclude:  «  Il  napoleonismo  era  ingiusto,  era  menzogna  e  non  poteva 
durare...  L'opera  di  Napoleone  si  ridurrà  a  lungo  andare  a  quanto  egli 
compì  giustamente,  a  quanto  la  Natura  sancirà  con  le  sue  leggi,  a 
((uanto  di  realtà  era  in  lui:  a  tanto  e  nulla  più». 

Qui  si  manifesta  veramente  tutto  il  modo  di  pensare  e  di  compren- 
dere del  tiarlyle:  il  mondo  ])er  lui  non  solo  è  come  realtà  materiale, 
ma  sopratutto  come  realtà  spirituale,  e  il  mondo  dell'uomo  e  della 
società  è  sopratutto  come  realtà  inorate. 


Invece,  secondo  il  Nietzsche,  trovandosi  l'uomo  a  vivere  in  un 
mondo  in  balia  del  caso,  deve  vivervi  con  gioia,  ed  esser  lieto, 
libero,  crudele,  malizioso:  deve  principalmente  ciicoscrivere  quaggiù 
ogni  scopo  ed  ogni  desiderio.  Non  teorie  di  rassegnazione,  di  morfi- 
tìcazione,  di  impicciolenti  virtù:  tutte  cose  che  vaiuio  bene  pel  vulgo 
foggiato  sulle  prediche  dei  celebratori  della  morte.  Tuttociò  che  tende 
a  diminuiie  la  libera  gioia  dell'uomo,  fatto  o  teoria,  materia  o  spirito, 
ecco  il  male:  tuttociò  che  contribuisce  all'autodominio,  al  potere,  alla 
bellezza,  ecco  il  bene  ;  bello  e  buono,  utile  e  lecito  son  nuovamente 
termini  che  s' identificano,  come  già  presso  taluni  dei  Greci.  Gran- 
d'uomo  sarà  colui  che  meglio  saprà  vivere:  che  meglio  saprà  gioire 
ed  elevarsi  e  comandare  :  colui  che  saprà  dire  a  se  stesso  e  a  lutti  e 
a  tutto  :  io  voc/lio.  Non  io  qui  ni'  indugierò  a  fare  una  esposizione  siste- 
matica del  Superuomo  nietzschiano,  di  cui  tanto  si  parlò  in  questi 
ultimi  anni,  qualche  volta  assennatamente,  più  spesso  a  sproposito.  E 
neanche  voglio  parlare  delle  opere  letterarie  che  trovarono  in  questo 
teoria  la  sorgente  di  lor  vita,  poiché  i  Superuomini  dei  romanzi  e  dei 
poemi  sono  ftmtocci  assai  male  cuciti,  e  soltanto  capaci  di  parlare  cor 
la  voce  altrui,  e  di  far  i  soliti  quattro  gesti  ad  angolo  retto. 


I.A    TEOllIA    nELL  EROE    IN    T.    CARI. VI. E    E    K.    NIETZSCHE  T-)l 

Ma  ciò  che  da  noi  non  fu  se  non  ostentazione  e  scimmiottamento, 
per  Nietzsclie  fu  parte  integra  della  coscienza  ed  espressione  veia  di 
temperamento.  Egli  fu  un  greco  col  culto  innato  per  la  bellezza,  la 
forza,  la  pienezza  della  vita  tisica,  vissuto  per  anacronismo  in  un  secolo 
ricco  di  una  sua  speciale  bellezza  che  egli  non  seppe  compi endere.  11 
mondo  e  la  vita  apparvero  alla  sua  anima,  come  a  quella  degli  Elleni 
o  dei  Romani  dell"  impero,  sotto  una  luce  esclusivamente  estetica  e 
sensuale.  I  problemi  più  ardui  del  cristianesimo  che  tanto  agitarono 
le  coscienze  del  secolo  xi.x,  per  Nietzsche  non  esistettero,  contento  come 
fu  di  proclamare  spesso  che  «  Dio  è  morto  ».  e  che  con  Lui  è  morto 
il  regno  deirumiliazione  e  del  dolore. 

Chi  comprende  la  vita  come  una  cosa  caduca  in  cui  sia  saggezza 
il  cariirre  flirm.  chi  la  comprende  come  espressione  di  gioia,  o  soddi- 
sfazione di  sensi  o  esercizio  di  potere,  non  à  anima  religiosa.  Tanto 
gl'individui  che  i  jiopoli  profondamente  religiosi  anno  un  culto  spe- 
ciale pel  dolore  :  su  questo  si  basa  anzi  in  gran  parte  la  costruzione 
teorica  delle  religioni.  Si  pensa  in  un  «  al  di  là  »  solo  quando  tal  pen- 
siero può  essere  una  speranza  od  una  consolazione.  Ma  coloro  che  sanno 
e  possono  dalla  vita  terrena  esprimere  larga  e  ininterrotta  onda  di  gioia, 
vedono  nelle  speculazioni  ultraterrene  un  attentato  alla  felicità.  Zaia- 
thustra  di  Nietzsche  porta  anch'esso  agli  uomini  la  buona  novella, 
come  i  profeti  e  come  il  Rabbi  di  Nazareth  :  ma  il  regno  che  egli 
annuncia  non  è  quello  dei  cieli,  quello  dell'eternità,  bipartito  in  luogo 
di  delizie  e  in  luogo  di  tormenti  secondochè  si  sarà  operato  confor- 
memente o  contro  alla  legge  di  Dio  :  ma  è  su  questa  terra,  esclusi- 
vamente su  questa  terra,  dove  l'anima  spesso  muore  anche  prima 
del  corpo. 

«  Il  Superuomo  è  il  senso  della  terra...  Ve  ne  scongiuro,  fiatelli 
miei,  rimanete  fedeli  alla  terra  e  non  prestate  fede  a  coloro  che  vi  par- 
lano di  speranze  sovrannaturali!  Sono  degli  avvelenatori  coscienti  ed 
inco.scienti  ».  11  Superuomo  non  può  essere  creatura  dei  nostri  tempi 
ancor  troppo  legati  al  passato,  e  schiavi  del  ])regiudizio  dell'  «  oltre 
tomba  »  e  di  quello  «  del  bene  e  del  male  ».  Tutto  c[uello  che  noi  pos- 
siamo sperare  è  di  preparare  l'avvento  di  colui  che  balzerà  un  giorno 
dall'anima  nostra,  purificata  via  via  nel  crogiuolo  della  bellezza  e  del 
dominio,  a  distruggere  il  dolore,  e  a  superare  così  lo  stadio  animale. 
«  Io  non  posso  amare  che  il  paese  dei  miei  figli,  il  paese  inesplorato 
laggiù  nel  più  lontano  dei  mari  :  verso  di  esso  drizzo  le  mie  vele  ansio- 
samente cercando.  Ne'  miei  tìgli  voglio  redimere  la  colpa  d'essere  stato 
tìglio  de'  miei  padri,  e  coU'avvenire  questo  presente  !  ». 

Il  concetto  del  progredire  degli  esseri  da  forme  inferiori  a  forme 
sempre  più  perfette  -  legge  di  cui  la  scienza  involve  tutto  il  mondo 
tìsico  -  è,  come  si  vede,  trasportato  dal  Nietzsche  nel  campo  morale. 
Già  gli  Elleni,  secondo  lui.  eran  giunti  alla  soglia  del  tempio  del  Super- 
uomo, e  vi  sarebbero  forse  entrati,  se  gli  uomini  dietro  le  vestigia  del 
Galileo  non  avessero  distrutto  gli  strumenti  della  grandezza  e  della 
gioia,  per  foggiare  con  cecità  ridicola  i  ferri  dei  propri  supplizi. 

Però  è  da  osservarsi,  che  mentre  il  fondo  sociale  dell'estetismo 
greco  fu  democraUco,  tantoché  se  Superuomini  vi  furono,  lo  furon  tutti 
dall'arconte  al  soldato,  per  Nietzsche  solo  un  piccolo  numero  d'uomini 
potrà  affrancarsi  dalla  schiavitù  della  liassezza  e  del  dolore. 

L'arte,  l'esercizio  della  volontà  individuale,  la  pratica  della  libertà 
avevano  finito  per  sospingere  veramente  tutto  il  mondo  greco  ad  una 

17  Voi.  evi.  Selle  TV  -  16  luglio  1903. 


'2ÓH  LA  TEoiuA  dki.i/kroi-:  in  t.  cari. vi. i:  e  r.  Nietzsche 

serena  altezza,  dove  le  slesse  scarse  fantasie  siili'  «/  ili  là  eiaiio  iinpK'- 
gnate  eli  un  piot'unio  di  g-ioia,  erano  miti  ombre  e  non  tenebre  l'osche; 
mentre  per  Nietzsche  il  branco,  il  vile  branco,  si  avvoltolerà  sempre 
nella  sna  innnondizia.  sarà  sempre,  per  dirla  con  Carlyle,  una  povera 
cosa  amorfa  e  inarticolata.  Così  V  Eioe  di  quello,  in  quanto  trae  la 
sua  rag:ion  d'essere  dalla  massa  umana  per  la  quale  opera  e  vive,  forma 
l'esatto  contrapposto  del  Superuomo,  il  quale  vive  quasi  in  odio  alla 
massa,  in  un'atmosfera  nota  a  lui  solo,  cni'ioso  tipo  di  gigante  e  di 
anacoreta. 

Il  Superuomo  è  quindi  line  a  se  stesso  :  la  viitfi.  la  verità,  l'ideale 
non  esistono  all'infuori  di  lui  :  non  sono  come  nel  mondo  di  Carlyle 
(lei  fari  nascosti  nelle  tenebre,  che  solo  la  prodigiosa  mano  dell'Eroe 
può  svelare  agli  attoniti  sguardi  delle  moltitudini.  11  Superuomo  è  il 
senso  della  terra;  è  sopralutto  il  circolo  chiuso  che  à  coininciamento 
e  fine  in  sé.  stesso,  supremo  fiore  dell'albero  della  vita,  destinato  ad 
accogliere  in  sé  ogni  raggio,  ogni  colore,  ogni  lìiofumo. 

Da  taluni  si  volle  riallacciare  il  pensiero  nietzschiano  alla  legge 
della  lotta  per  la  vita  con  il  conseguente  trionfo  del  più  forte  e  del  più 
atto,  lo  si  volle  anzi  con  quella  spiegare  e  giustificare:  altri,  trasportan- 
dolo nella  politica,  vi  scorsero  la  teoria  delle  forme  oligarchichedi  governo- 
«  Zarathustra  non  deve  parlare  al  popolo  bensì  ai  compagni  :  Zarathustra 
non  deve  essere  il  pastore  ed  il  cane  d'una  mandria!  »  Certo  la  figura 
creata  dal  Nietzsche  è  essenzialmente  e  crudamente  aristocratica;  si 
direbbe  anzi  chea  meglio  sublimare  la  sua  creatura,  il  tilo.sofo  abbia  vo- 
luto accentuarne  il  distacco  dal  volgo,  ostentando  un  esagerato  disprezzo 
per  questo,  e  un  soverchio  entusiasmo  per  i  pochissimi  eletti.  Ala  il  tra- 
sportare il  pensiero  di  Nietzsche  dal  campo  puramente  etico,  dove  sorse 
e  si  sviluppò,  in  altri  campi  è  opera  arbitraria  ;  tanto  più  che  se  già  nel 
campo  morale  esso  è  sovente  tanto  ardito  da  sembi'ar  pazzesco,  ti'as- 
portato  nella  i)olitica  darebbe  luogo  a  dei  mostruosi  anacronismi. 

Di  i)iù  il  Nietzsche,  così  facile  a  lanciar  apoftegini  in  materia  di 
arte,  di  letteratura  e  di  morale,  sorvola  sempre  sulla  politica,  potendo 
per  lui  essere  volgo  non  solo  coloro  che  servono  materialmente,  ma 
anche  coloro  che  pur  avendo  tutte  le  apparenze  del  comando  àn  la  ser- 
vitù nell'animo,  potendo  essere  volgo  anche  i  re  di  corona.  Zarathustra 
si  ride  dei  governi  e  non  li  cura,  vivendo  essi  assieme  ai  greggi  umani 
di  cui  sono  i  cani  da  guardia,  in  una  zona  d'ombra,  lungi  dal  beato 
colle  del  Superuomo  irraggiato  dal  sole.  «  Ed  ai  governanti  volsi  il 
dorso  quando  vidi  che  cosa  essi  chiamavano  governare:  il  mercanteg- 
giare e  patteggiar  colla  plebe  !  » 

L'opera  di  Federigo  Nietzsche  bisogna  quindi  consideiai'la  soltanto 
dal  lato  etico,  quale  integrazione  in  un'idéal  forma  d'uomo  di  un  nuovo 
e  più  ampio  sistema  di  morale,  che  non  fissa  arbitrari  confini  chia- 
mandoli coi  nomi  di  «  bene  »  e  di  «  male  »:  al  di  là  di  questi  fittizi 
confini  deve  allargarsi  la  libera  e  conscia  volontà,  deve  stendersi  l'illi- 
mitato regno  del  capriccio. 

La  passione,  reietta  in  tutti  i  sistemi  morali  e  religiosi  come  radice 
di  ogni  male,  è  dal  tìlosofo-esteta  posta  al  vertice  della  sua  etica.  «  Una 
volta  tu  possedevi  delle  passioni  e  le  chiamavi  cattive:  ma  adesso  non 
possiedi  che  le  tue  virtìi,  le  quali  ebbero  origine  dalle  tue  passioni. 
Tu  collocasti  il  tuo  scopo  più  sublime  in  quelle  passioni  ed  allora 
divennei'o  le^tue  virtù  e  le  tue  gioie  ».  Il  branco  invece  seguiterà  il  suo 
ebete  andare  lungo  gì'  insorpassabili  confini  del   bene  e  del  male,  e 

I 


LA    TEORIA    deli/ EROE    IN    T.    CARLYLE   E    F.    .NIETZSCHE  :25U 

vedrà  iiell' nonio  che  per  t'orza  di  volontà  li  à  varcati  non  un  essere 
ammirevole,  ma  un  nemico.  Tutta  la  sua  gretta  morale  basata  sulla 
legge  della  reciprocauza  che  innalza  a  sistema  la  transazione,  che  im- 
pone l'obbligo  di  innumerevoli  schiavitù  e  riduce  l'uomo  ad  una  com- 
pleta evirazione,  è  turbata  quasi  da  temerario  attentato  dalia  vita  di  un 
Superuomo.  11  quale,  perciò,  sarà  odiato,  e  sarà  invece  levato  alle  stelle 
chi  al  popolo  darà  il  più  bello  e  chiassoso  esempio  di  seintù,  di  auto- 
ini  picciolimento. 

Mentre  per  Cailyle  il  culto  degli  uomini  superiori  è  eterno  e  ine- 
stJTiguibile,  sebl)ene  più  o  meno  fervido  secondo  le  età  e  le  circostanze, 
mentre  dunque  è  il  popolo  colla  sua  ammirazione  devota  che  misura 
in  certo  qual  modo  l'Eroe,  pei-  Nietzsche  il  popolo  è  incajìace  di  giu- 
dizio, e  non  bisogna  mai  credergli  quando  parla  di  uomini  grandi  per- 
chè non  comprende  la  giandezza  dei  pochi  (i  quali  sono  poi  gli  eitfì 
dir  creano),  ma  à  occhi  ed  orecchi  per  i  commedianti  (cpielli  che  rap- 
jiresentano  le  cose  grandi!  e  ruota  attorno  ad  essi  e  li  cinge  di  gloria. 
«  Guardate  i  buoni  ed  i  iiiiisfi.  guardate  i  credenti  di  tutte  le  religioni  : 
chi  odiano  essi  ]iiù  d'ogni  altro?  Colui  clie  spezza  le  loro  tavole  dei 
\alori,  i'infran^itore.  il  corruttore:  ma  questi  è  colid  che  crea.  Io 
non  voglio  più  parlare  al  popolo:  per  l'ultima  volta  ò  |)arlato  ad  un 
radavere  ». 


Tommaso  Carlyle  e  Federigo  Nietzsche  furon  quindi  due  fieri  e  rudi 
e  intransigenti  individualisti  in  un'età  in  cui  la  .scienza  pareva  decre- 
tare, in  ogni  ordine  di  S|)eculazioni  e  più  di  tutto  nella  pratica  quo- 
tidiana, il  trionfo  della  specie  e  della  folla.. 

Religioso  e  mistico.  Carlyle  ridusse  l'uomo  di  genio  ad  un  semplice 
strumento  della  Provvidenza,  atto  a  lavorare  la  grigia  massa  umana, 
onde  farne  sprizzare  scintille  di  luce  e  fiamme  d'amore.  Fu  più  che  altro 
un  ricordo  di  antiche  cosmogonie,  un'eco  di  mitologie  morte,  un  grido 
(li  fede  religiosa  tanto  più  commovente  in  cjuanto  si  sente  che  risuona 
nel  silenzio  del  cuore  sociale:  non  fu  certo,  né  lo  poteva  essere,  opera 
di  scienza.  Il  suo  Eroe,  metafisico  nell'origine  e  nello  sviluppo,  è  pur- 
tuttavia  profondamente  simjiatico.  perchè  non  si  rinchiude  in  sé  stesso,, 
ma  si  dona  tutto  agli  altri,  etl  è  il  salvatore,  il  ]>adre.  l'amico  del  popolo. 
Ed  è  simpatico  perchè  questo,  malgrado  le  sue  vanterie  e  ostentazioni 
egualitarie,  adora  un  bel  gesto,  ima  bella  parola,  un  gran  fatto  :  e  an- 
cora subisce  il  fascino  di  chi  è  tanto  diverso  da  lui,  ma  anche  tanto  su- 
periore. Tutta  una  nuova  fioritura  di  eroi  e  di  uomini  tipici  -  nel  teatro, 
nel  romanzo,  nel  poema  -  dopo  il  trionfo  indiscutibile  degli  ambientisti, 
dimostra  la  verità  di  questa  asserzione. 

Materialista  e  pagano.  Nietzsche  innalzò  l'uomo  ai  limiti  ultimi  del 
mondo  sensibile,  oltre  i  quali  comincia  il  nidla.  e  lo  abbandonò  alla 
sola  legge  tlel  capriccio,  al  solo  istinto  della  gioia.  Ma  il  suo  Supei'uomo 
riesce  antipatico  non  solo  jierchè  jioggia  sulla  precisa  inversione  dei 
principi  di  morale  universalmente  accettati,  ma  perchè  coll'esaltare  la 
solitudine  egoistica  del  Superuomo  il  filosofo  spezza  ogni  vincolo  di 
simpatia  tra  il  mondo  umano  che  attorno  vive  e  la  creatura  della  sua 
mente,  che  diviene  così  un  ridicolo  feticcio  dinanzi  al  (piale  si  sdi- 
linquiscono in  adorazione  pochi  esteti. 


2(M)  LA   TEOIilA    dell'eroe    IX    T.    f.ARLVLE    E    E.    XIETZSritE 

Che  se  il  concetto  filosofico  di  Nietzsche  applicato  alla  produzione 
artistica  diede  lìutti  copiosi  forse,  ma  senza  dul)bio  risibili,  anche 
come  sistema  morale  non  aggiunse  al  pensiero  greco,  cosi  sereno  e  allo 
e  sobrio  nelle  sjieculazioni  metafisiche,  altro  che  la  parte  ]>iii  antipa- 
tica: cioè  l'opposizione  dell'uomo  agli  nomini,  la  popolofohia.  Cosa 
questa  che  ])iìi  forse  è  dettata  al  Nietzsclie  dal  temperamento  suo  di 
antico  che  non  dal  lavorio  del  raziocinio;  poiché  la  popolofohia  non 
discende  necessariamente  di  illazione  in  illazione  dalle  premesse  atee 
e  materialistiche:  tutt'aUro.  È  tjuindi  prodotto  del  suo  temperamento 
squilibrato  di  antico,  reagente  collo  sprezzo  impotente  e  cogli  sfoghi 
sentimentali  al  quotidiano  elevarsi  ed  agitarsi  della  democrazia,  verso 
la  quale  vedeva  fatalmente  orientarsi  l'arte,  la  scienza,  la  |Kj]itica,  tutta 
insomma  la  vita  sociale. 

GusEPPE  Ravenna. 


LA  STORIA  DELLA  FINANZA  ITALIANA 


Achille  Plebako.  Storia  della  Fiitanza  italiana  dalla  costilusione  del  Retino 
alla  fine  del  secolo  XIX.  Volumi  3  di  pag.  1600.  —  Casa  Editrice  !Xazionale 
Roux  e  Viarengo,  Torino-Eoma. 

Con  la  pubblicazione,  testé  avvenuta,  del  terzo  volume,  lia  avuto 
compimento  la  Storia  delia  Finanza^  italiana  di  Achille  Plebaìio. 
La  riconosciuta  competenza  delfautore,  favore vohn ente  noto  agli  stu- 
diosi per  pregevoli  lavori  in  materia  economica  e  finanziaria,  e  la 
speciale  importanza  del  poderoso  lavoro  ora  venuto  compiutamente 
alla  luce,  basterebbero  ad  esigere  che  di  questo  fosse  trattato  con  am- 
piezza maggiore  di  quella  che  le  riviste  bibliografiche  sogliono  consen- 
tire, per  ragione  di  spazio,  anche  a  pubblicazioni  di  gran  conto.  Né 
solo  il  valore  dell'Autore  e  il  pregio  dell'opera  sua  esigono  un  più 
ampio  esame  di  questa:  lo  esige  ancora  la  prcscMile  situazione  della 
finanza  italiana,  la  quale  cela  gravi  pericoli,  in  ragione  del  migliora- 
mento suo,  che  de.sta  troppi,  per  quanto  non  tutti  ingiustificati,  desi- 
deri. Perchè  se  la  situazione  della  finanza  pubblica  è,  da  qualche 
tempo,  notevolmente  migliorata,  come  attestano  il  pareggio  realmente 
«uramente  conseguito,  e  il  progressivo  incremento  di  impoitanti 
;ùti  di  entrata;  se  anche  la  situazione  economica  e  monetaria  è 
migliorata,  come  appare  dall'aumento  della  produzione  e  del  traffico, 
e  dalla  scomparsa  dell'aggio  della  moneta;  è  pur  vero,  d"altra  pai1e, 
che  a  questo  miglioramento  finanziario,  economico  e  monetario  non 
corrisiìoude  esattamente  la  situazione  del  paese  in  generale,  e  special- 
mente quella  di  alcune  regioni,  a  sollievo  delle  (juali  sono  insistente- 
mente invocati  speciali  provvedimenti.  Come  è  pur  vero  che  l'assetto 
della  finanza  è  sfato  conseguito  e  si  mantiene  a  costo  di  sacrifizi 
yiavi  per  i  cittadini,  sui  quali  pesa  sempre  un  onere  tributario  assai 
gravoso,  che  è  più  difficilmente  sopportato  in  quelle  regioni  appunto 
nelle  quali  il  miglioramento  si  è  meno  accentuato;  onere  cfie  non  è 
equamente  ripartito  tra  le  varie  classi  sociali  e  che,  per  quanto  si  sia 
altrimenti  affermato,  ma  non  dimostrato,  colpisce  più  duramente  le 
popolazioni  più  bisognose. 

Tuffo  ciò,  se  giustifica  i  desideri  di  alleggerimenti  fiscali  che  da 
ogni  ])arfe.  ad  alta  voce,  si  reclamano,  e  di  speciali  provvedimenti  a 
favore  di  regioni  meno  prospere,  giustifica  altresì  le  inquietudiui  di 
Kiloro  che  dal  soddisfacimento  di  quei  desideri  vedono  comi)romessa 
la  saldezza  della  compagine  finanziaria.  Inquietudine  tanto  piii  giu- 
stificata, in  quanto  che  i  provvedimenti  che  si  invocano  da  varie  parti 
non  apjiariscono  inspirati  ad  un  largo  concetto  organico  di  riforme 
tributarie,  la  cui  attuazione  potrebbe  essere  tentala,  sia  pure  a  sem- 
plice titolo  di  esperimento,  nella  non  ingiustificata  fiducia  che  potesse 


diri  LA    STOKIA    DELLA    KLVANZA    ITALIANA 

derivarne  una  più  giusta  ed  equa  liiiartizioiie  tributaria,  avente  per 
effetto  un  sollievo  delle  |iopolazioni  più  lìisognose.  e  capace  di  con- 
sentire, per  dirette  ed  indirette  vie,  adeguati  coinpensi  e  risarcimenti 
in  un  elexainenfo  del  tenore  di  vita  economica  delle  popolazioni  stesse, 
determinante  un  considerevole  aumento  dei  consumi. 

Non  soltanto  nulla  di  tutto  ciò  è  stalo  fin  qui  proposto  neiram- 
bito  politico,  ma  in  esso  e  fuori  di  esso.  s"è  quasi  generalmente  dif- 
fuso il  concetto  o.  a  meglio  dire,  il  pregiudizio,  che  nulla  sia  da 
tentare  in  argomento  di  largiie,  radicali,  organiche  riforme  tributarie. 
Cotesta  avversione,  che  deriva  dalla  troppo  scarsa  coltura  economica 
del  paese,  può  tuttavia  sembrale,  fino  ad  un  certo  segno,  giustificata, 
perchè  tutto  ciò  che  appare  troppo  complicato  e  tropjio  ardito  è  sempre 
-accolto  con  avversione  e  con  sospettosa  diffidenza,  e  perchè  si  crede 
che  manchi  in  Italia  l'uomo  atto  a  concepire  coraggiosameide,  a  difen- 
dere strenuamente  e  a  far  prevalere  un  vasto  e  radicale  disegno  di 
riforma  tiibutaria,  per  il  quale  si  ritiene  che  il  paese  non  sia  ancora 
preparato. 

Di  guisa  che,  per  timore  deiravveisa  corrente  della  publilica 
opinione,  anche  coloro  che  sono  intimamente  persuasi  della  utilità  di 
una  organica  e  complessa  riforma  tiil)utaria.  si  astengono  dal  proporla, 
nel  timore  di  essere   consiflerati  quali  uomini    avventati  e  pericolosi. 

Intanto,  poiché  si  crede  che  qualcosa  sia  i)ur  necessario  di  fare, 
non  fosse  altro  per  calmare  le  inquietudini  delle  popolazioni,  proposte 
varie  sono  state  fatte  da  parti  diverse,  coirintento  di  venire  in  aiuto 
•di  classi  o  di  regioni  piìi  bisognose.  Senza  entrare  qui  a  discutere  le 
varie  proposte,  giova  a\vertire  che  esse  incontrano  opposizioni  gravi 
da  parte  specialmente  di  coloro  che,  badando,  sopra  ogni  altra  cosa, 
alla  assoluta  necessità  della  saldezza  finanziaria,  giudicano  i  provve- 
dimenti proposti  atti  a  com])romettere  fequilibrio  del  bilancio,  che  ne 
sarebbe  dannosamente  sbocconcellato  senza  reale  ])rofitto  per  alcuno, 
essendo  i  provvedimenti  medesimi  troppo  scarsamente  ed  ineffica- 
cemente giovevoli  alle  popolazioni  bisognose. 

Per  quanto  riguarda  la  tenuità  del  l)enetizio  immediato  che  i  con- 
tribuenti trarre])bero  dai  provvedimenti  invocati,  è  da  considerare  che 
la  critica  e  la  opposizione  che  su  essa  soltanto  si  fondano,  non  po- 
trebbero essere  accolte  in  modo  assoluto;  giacché  è  bene  evidente  che, 
a  siffatta  stregua,  niun  provvedimento  meriterebl>e  di  essere  approvato, 
il  meno  che  non  importasse  una  perdita  per  il  bilancio  di  parecchie 
centinaia  di  milioni  :  perdita  che  questo,  per  lungo  tempo  ancora,  non 
potrà  so[)p(jrtare.  Ma  se  si  riconosce  che  i  contiibuenti  sono  troppo 
•duramente  colpiti:  se,  anche  per  considerazioni  politiche  e  sociali,  si 
ritiene  opportuno  di  inaugurare  Tèia  di  una  jtolitica  tìnanziaria  meno 
^opprimente  e  più  umana,  non  si  dovrebbe  recedere  dal  prt)ponimento 
di  iniziarla  per  la  considerazione  del  limitato  benefizio  immediato  che 
ne  avranno  le  popolazioni,  purché,  per  altro,  sia  bene  accertato  che  il 
bilancio  |)uò  sopportare  la  perdita,  per  modo  che  non  vi  sia  il  pericolo 
-di  ricadere  nel  disavanzo.  E  per  non  ricadere  nel  disavanzo  è  neces- 
sario avere  sempre  margini  attivi  per  fronteggiare  le  eventualità  im- 
previste o,  meglio,  le  prevedutili  eventualità  straordinarie. 

Nel  momento  presente  v'è  però  chi  teme  fortemente  che  il  pericolo 
di  ricadere  nel  disavanzo  vi  sia,  e  raccomanda  perciò  di  non  sperpe- 
rare gli  avanzi  del  bilancio  e  di  destinarli  più  utilmente  ad  altro  uso, 
vale  a  dire  a  rafforzare  la  posizione  del  Tesoro  e  ad  estinguere  i  suoi 


LA   STORIA    DELLA    FINANZA    ITALIANA  ^63 

"debiti,  a  cominciare  da  quello,  apparentemente  innocuo,  rappresentato 
<lai  biglietti  di  Stato. 

11  timore  che  una  diminuzione  di  entrate  po.ssa  riuscire  dannosa 
alleditizio  finanziario,  con  tanti  stenti,  con  tanti  sacrifizi  innalzato, 
sembra,  ai  più  rigidi  difensori  del  pareggio,  giustificato  anche  da  che 
gli  avanzi  di  esso  sono,  in  gran  parte,  dovuti  ai  deficienti  raccolti  di 
grano  che  hanno  aumentato  1"  importazione  dalfestero,  e  ingro.ssato 
il  prodotto  del  dazio.  È  stato  osservato  che.  in  tal  modo,  il  bilancio 
dello  Stato  si  avvantaggia  di  un  danno  del  paese.  Non  sarebbe  tuttavia 
fuor  di  luogo  osservare  che,  per  i  contribuenti,  la  cosa  non  ha  impor- 
tanza o  ne  ha  piuttosto  una  favorevole;  giacché  il  maggior  gettito  del 
dazio  protettore  entra  nelle  casse  dello  Stato,  invece  di  entrare  nelle 
tasche  dei  produttori  sotto  forma  di  aumento  del  prezzo  del  grano 
nazionale. 

Comimque  sia.  sta  di  fatto  che  il  miglioramento  del  bilancio  è 
stato  ottenuto,  in  buona  parte,  per  il  mancato  raccolto  del  grano  nazio- 
nale, vale  a  dire  per  mia  causa  clie  non  ha  carattere  jiermanente  e  si 
desidera  abbia  anzi  a  cessare.  Di  guisa  che  la  situazione,  nei  rispetti 
della  finanza  dello  Stato,  è  ora  questa  :  da  una  parte  un  soddisfacente 
avanzo  non  ritenuto  però  da  tutti  solido  e  durevole:  e.  dall'altra, 
richieste  di  sgiavi.  di  alleggerimenti,  di  opere  pubbliclie  e  di  altri 
provvedimenti  diretti  a  sollevare  le  classi  povere  tra  le  quali,  in  alcune 
regioni,  infierisce  anche  il  flagello  della  disoccupazione. 

Ui  fronte  a  tutto  ciò,  non  dovrebbero  sembrare  ingiustificati  ed 
esagerati  gli  ammonimenti  di  coloro  che  cercano  di  difendere  la  sal- 
dezza e  la  integrità  del  bilancio  dagli  assalti  die  da  ogni  parte  gli 
sono  rivolti;  di  coloro  che  proclamano  la  assoluta  necessità  di  una 
finanza  rigida  e  severa,  e  additano  i  pericoli  gravi  ai  quali  si  andrebbe 
inevitabilmente  incontro,  quando,  per  soddisfare  troppi  desideri,  si 
commettessero  nuovi  errori  e  si  riaprisse  l'èra  dei  disavanzi. 

Qui  non  è  fuori  di  luogo  avvertire  come  il  maggiore  pregio  in 
cui  è  tenuta  ora  V  Italia  nel  consesso  delle  Nazioni  derivi,  sopra 
ogni  altra  cosa,  dalle  migliorate  condizioni  della  finanza  e  della  pub- 
blica economia.  Non  è  certo  un  accesso  di  italofllia  sentimentale  quello 
che  muove  gli  altri  paesi  a  tributare  lodi  e  dimostrazioni  di  simpatia 
all'Italia;  è,  invece,  il  riconosciiiiento  della  cresciuta  prosperità  eco- 
nomica e  finanziaria,  que